
Basta team building! Emergi!
Dove finisce il team building, comincia l’innovazione (vera!)
Quante volte ci siamo illusi che un team potesse nascere da un’attività di team building ben organizzata? Un pomeriggio fuori sede, qualche gioco di squadra, magari un risultato immediato… Eppure, pochi giorni dopo, tutto tornava come prima.
La verità è semplice: i team non si costruiscono. I team emergono. Emergono quando le persone smettono di recitare un ruolo e iniziano a costruire insieme significati, visioni, percorsi.
💡 È qui che entra in gioco il lavoro sulle metafore tridimensionali, il pensiero con le mani, l’ascolto profondo. Non è solo questione di tecniche: è questione di creare spazi di intelligenza condivisa.
Perché il team building tradizionale non basta più
Il team building tradizionale parte da un’idea affascinante: creare coesione attraverso esperienze condivise. Ma troppo spesso si limita a momenti isolati, incapaci di toccare i meccanismi profondi che regolano la collaborazione. Scatta il momento creativo: si va alla ricerca dell’idea più nuova e avvincente, mixando gioco, teatro, tecniche di facilitazione, role play, il tutto senza un vero scopo. Abbiamo a disposizione gli ingredienti più belli della nostra azienda: le persone. Ma la ricetta per farli lavorare insieme? Spesso è sconosciuta o lasciata al caso.
Un momento di team building non può essere creato su una giornata o un weekend di divertimento: le problematiche del gruppo di lavoro si congelano, ma già dal lunedì successivo si sciolgono i ghiacciai e si alzano le maree. No, non funziona così. Abbiamo abusato e utilizzato troppo a sfavore del vero valore del team di un’azienda il termine team building.
Come scrivono Lipmanowicz e McCandless, “la chimera che le buone pratiche importate da altri contesti possano funzionare ovunque è troppo attraente per resistere alla tentazione di crederci”.
Ogni team è unico. Ogni sfida è diversa. Non si tratta di replicare formule. Si tratta di far emergere risposte autentiche.
Qualche tempo fa ho parlato con un imprenditore sconsolato: la sua azienda organizza ogni anno un retreat (e già il nome la dice lunga, ma lasciamolo lì). Ebbene, durante l’ultimo weekend hanno affittato una bellissima location, con stanze comode e spazi condivisi funzionali. Hanno lasciato spazio allo svago. Hanno provato a fare un role play. Tutto sembrava carino e condiviso. Tutto era stato creato per amalgamare squadre diverse su sedi diverse in Italia e nel mondo. Risultato? Quest’anno non si farà più. Il sondaggio (anonimo) di fine anno ha raccolto così tanti dissensi e voti sfavorevoli, così tante polemiche su location, obiettivi e attività svolte che l’imprenditore ha deciso, con il capo del personale, che questi soldi era bene investirli altrove. Come dargli torto? Come fargli cambiare idea per creare un momento condiviso ma allo stesso tempo funzionale?
L’emergence: quando i team nascono davvero
Henry Mintzberg lo ha spiegato bene: nelle organizzazioni complesse e nei mercati instabili, la strategia non si pianifica, emerge.
Come fa notare Fabrizio Faraco nel suo “La Facilitazione Maieutica” (La Traccia Buona) Emergence è una parola inglese che non ben si presta alla traduzione italiana. “La sfumatura di significato inglese è più focalizzata sull’evento: emergence è un sostantivo che risale dalla radice latina emergere, che significa portare alla luce, ed è entrato nell’inglese nel XVII secolo: quando qualcosa viene alla luce dove prima c’era l’oscurità (o il nulla) avviene un’emergence. Il termine” continua Faraco “fu poi utilizzato in senso scientifico da George Henry Lewes in ‘Problems of Life and Mind’ del 1875, dove traccia la distinzione fra effetti risultanti ed emergenti: sono risultanti se possono essere calcolati a priori, sono invece emergenti quando sono qualitativamente nuovi rispetto alle cause da cui scaturiscono”.
Allo stesso modo, un team efficace non si costruisce a tavolino. Si aiuta a emergere attraverso ascolto, connessioni, esperienze condivise che rivelano il potenziale nascosto.
Favorire l’emergence è diverso da “guidare”: significa creare le condizioni perché le persone possano costruire insieme, adattandosi e innovando. Il ruolo del Facilitatore Invisibile è la chiave di svolta per workshop e incontri di team proficui, pratici e soddisfacenti: capace di chiedere e sapere cosa chiedere, ma soprattutto di non avere le risposte per essere un buon ascoltatore (come consigliò Dale Carnegie nel 1936 in ‘How to find friends and influence people’) è “capace di aiutare un gruppo a raggiungere i suoi obiettivi […]” come “architetto di uno spazio sicuro in cui le idee possono fiorire, i conflitti possono essere risolti e si può raggiungere il pieno impegno” (cit. Jack Reimon, p. 44 sempre su La Facilitazione Maieutica di Fabrizio Faraco).
Caro amico imprenditore, non me ne volere se ti ho chiesto chi avesse orchestrato il tuo team building: quando mi hai risposto che è stato l’ufficio del personale, ti avrei abbracciato forte. Purtroppo, se davvero volevi un retreat capace di creare e costruire un team, ma soprattutto di dare il la per un lavoro condiviso, anche il tuo ufficio del personale andava inserito nel processo e, quindi, facilitato. In un momento in cui tutta l’azienda ha l’arduo compito di creare un collegamento solido, non ci possono essere membri interni che guidano un processo come quello di un role play. E sì, anche tu, amico imprenditore, avresti potuto partecipare. Far emergere significa anche questo.
Pensare con le mani: il sapere nascosto nei gesti
Quando si cercano nuove soluzioni, si vuole generare idee, si ha bisogno di risolvere problemi, spesso si ricorre a una serie di riunioni. Si dice che gli italiani amino a tal punto le riunioni da passare più tempo all’interno di meeting che a lavorare davvero. Secondo alcuni studi, tra cui uno di Asana, un altro di Accountemps e diverse interviste che sono state fatte prima e dopo la Pandemia, passiamo dal 20 al 50% del tempo in call e riunioni, di cui stimiamo che oltre il 25% sia sprecato. Non solo, spesso le riunioni non hanno ordini del giorno chiari, è faticoso tenere le fila di un discorso e – ancora peggio – le riunioni si chiudono senza chiari input per svolgere attività concrete.
Il problema sono i lavoratori che parlano troppo o i manager che amano ascoltare la propria voce? Già W. Edwards Deming (ingegnere statunitense che ha segnato il passo del tema della Qualità nella produzione) ci ricorda che “Il lavoratore non è il problema. Il problema è il top-management”. La realtà dei fatti è che, per ritrovare Faraco
“Ci risulta normale attivare il nostro ragionamento usando la lingua. Siamo invece meno abituati a farlo usando le mani: una risorsa importante, dato che il 70-80% delle connessioni neurali sono tra mani e cervello”. La mano è molto più di un semplice strumento esecutivo. Robert Rasmussen, uno dei fondatori della metodologia LEGO® SERIOUS PLAY®, parla di “hand knowledge”: una conoscenza implicita che si attiva quando costruiamo, manipoliamo, diamo forma fisica ai pensieri.
Il neurologo Wilder Penfield, attraverso la rappresentazione dell’homunculus, ha mostrato che una porzione enorme della nostra corteccia cerebrale è dedicata proprio al controllo fine delle mani.
🤚 Pensare con le mani significa attivare risorse cognitive profonde, spesso inacessibili con il solo linguaggio verbale.
Quando chiediamo a un team di costruire metafore tridimensionali usando mani, materiali, simboli, stiamo attivando intelligenza concreta, pensiero laterale, connessioni emotive.
“Quando si riuniscono un numero di persone desiderose di contribuire all’innovazione, ma che non sanno esattamente come possono contribuire, diventa fondamentale che la conoscenza di ciascun individuo venga sbloccata e condivisa. Il messaggio è questo: per innovare e trasformare imprese e attività è necessario che tutti attivino maggiormente le proprie conoscenze e vadano oltre il primo schema riconosciuto” (Per Kristiansen, Playing seriously with innovation, Medium, 23 giugno 2022)
Non è “giocare”. È pensare meglio.
Perché le metafore tridimensionali cambiano i team
Le metafore costruite con le mani permettono di:
- Visualizzare ciò che non si riesce a esprimere a parole
- Allineare visioni diverse, senza forzare omogeneità
- Attivare emozioni e memoria, rendendo l’apprendimento più profondo
Ogni costruzione diventa un linguaggio comune. Un ponte tra punti di vista diversi. Un terreno condiviso su cui costruire nuove strade.
Si attinge alla conoscenza tacita, ovvero a quel tipo di conoscenza che si è formato nell’esperienza, nel contatto con la vita, il lavoro e le persone, e che si è unito ai valori e ai modelli mentali che abbiamo costruito nel tempo. Usare le metafore tridimensionali e attivare le mani consente dunque di sbloccare il potenziale di ognuno, in uno spazio protetto, dove vi sia una sicurezza psicologica innescata dal grande lavoro del Facilitatore.
Caro amico imprenditore, sì, orchestrando bene gli elementi del tuo team, quel retreat avrebbe potuto diventare davvero un incontro fuori sede dove team, manager o leader si ritirano per lavorare su obiettivi strategici, cultura organizzativa, allineamento di visione, collaborazione, spesso combinando lavoro intenso e momenti di crescita personale o di team. Magari avremmo potuto dargli un nome tipo Emergence Space, ma su quello possiamo anche lasciarti la libertà di espressione :).
LEGO® SERIOUS PLAY® come strumento per far emergere, non per fare team building
Purtroppo da quando ho preso la certificazione come Facilitatrice LEGO® SERIOUS PLAY® con Per Kristiansen, mi è capitato spesso di sentire che questa metodologia viene richiesta per incontri di team building e per – addirittura – le cene di Natale. Ogni volta che sente questa cosa un neurone di Per muore (e non solo i suoi!)… per fortuna che ne ha tantissimi.
Ma non importa che Per Kristiansen e Robert Rasmussen siano oggi i detentori di un Metodo che richiede costante formazione, approfondimento e pratica. Non importa che per ottenere la certificazione servano importanti investimenti e giorni di studio chiusi in una stanza con Per. Non importa che ci siano ancora pochi Facilitatori LEGO® SERIOUS PLAY® nel mondo, nonostante le migliaiai di ore di volo che i fondatori di Trivium International fanno ogni anno per portare questo Metodo ovunque. Cioè, questo importa, sì, ma importa di più che chi parla di questo strumento potentissimo per far emergere, ovvero portare significative soluzioni alla luce, quando lo riduce a un gioco da fare durante una convention o un momento di team building, sta castrando il suo potenziale. Si tratta di un Serious Play e come Facilitatori ne abbiamo tutta la responsabilità.
Come Facilitatori Certificati abbiamo il compito e l’opportunità di avere lo strumento per rispondere all’esigenza di un’azienda, come quella di trovare nuove soluzioni di collaborazione per un team, o di integrare team diversi o – e cito solo alcune possibilità fra le tantissime – generare nuove soluzioni concrete per un problema noto e da mesi irrisolto in riunioni fiume dove parlano i soliti noti e si sentono esclusi i soliti ignoti.
Facilitare un workshop con il Metodo LEGO® SERIOUS PLAY® non è dunque team building, mi dispiace, caro amico imprenditore (e anche caro amico facilitatore).
Cosa succede in un team che smette di “fare team building” e inizia a emergere, anche con il Metodo LEGO® SERIOUS PLAY®?
Quando si facilita davvero l’emergere di un team:
- Prima: silenzi strategici, conflitti latenti, visioni disallineate
- Dopo: ascolto autentico, ownership distribuito, collaborazione naturale
Secondo il progetto Aristotele di Google, la sicurezza psicologica è il fattore chiave dei team performanti. E facilitare l’emergence significa creare proprio questa sicurezza, questo spazio libero di esplorazione.
“Muoversi in una strategia emergente richiede che il focus sia sulle persone e sui risultati, garantendo che le persone prendano decisioni autonome e allineate […]. Per costruire strategie emergenti, è necessario comprendere il contesto, sperimentare, raccogliere dati, adattarsi a collaborare, che è esattamente quello che si realizza in una attività di facilitazione” (afferma il nostro Fabrizio Faraco a pag. 64 del suo libro).
Inoltre, ponendo le domande giuste (“What if?”, “How might we?”) anziché dare risposte precotte, si aiuta il team a costruire senso e direzione in modo autonomo e duraturo. Anche il tema delle domande, negli incontri di Facilitazione, ha il peso specifico giusto.
Quando serve emergere, non costruire
Ci sono situazioni in cui replicare modelli standard di team building è addirittura controproducente:
- Fusioni e acquisizioni: servono spazi per integrare culture diverse, non simulazioni artificiali
- Team di innovazione: servono metodi per stimolare pensiero divergente, non esercizi di allineamento
- Leadership distribuita: serve ownership, non gerarchie camuffate
In tutti questi casi (e non solo!) Facilitare l’emergence è l’unica via per creare team veri, capaci di adattarsi, crescere e innovare insieme. E sì, è possibile, senza ore di riunioni inutili e senza grandi spese per location superlative e cene luculliane.
Vuoi che il tuo team emerga davvero?
Se vuoi innovare davvero, non devi costruire il tuo team come si monta un mobile (a quello ci pensano gli svedesi, ok?). Devi creare le condizioni perché emerga la sua forma migliore. Devi creare le condizioni perché le persone collaborino davvero. devi metterti in gioco (caro imprenditore) talvolta in prima persona, nella stanza o fuori.
Lavorare sul “sapere delle mani”, sulle metafore costruite, sulla facilitazione dell’emergere delle idee è il modo più potente e naturale per farlo.
👉 Contattami se vuoi scoprire come progettare un percorso su misura per aiutare il tuo team a emergere.
Perché il futuro dei team, quello vero, inizia dove finisce il team building.
Individui e Interazioni, Ferrara, 7 maggio 2025
Se vuoi partecipare a un workshop con il Metodo LEGO® SERIOUS PLAY® pratico, c’è ancora qualche posto per una giornata con me e Andrea Romoli durante il Festival Individui e Interazioni, a Ferrara, presso il Consorzio Wunderkammer, il 7 maggio 2025. Il workshop è pensato per team che si chiedono come migliorare i rapporti di collaborazione e potenziare l’efficacia operativa. Se fai parte di:
- Team di prodotto
- Team di design
- Team di sviluppo
e se ti rendi conto che non trovi la strada giusta per rendere il tuo team più unito, efficiente e capace di rispondere alle sfide che chiede il mercato, andremo a sviluppare strumenti concreti per farlo.
Non sempre, infatti, le idee di miglioramento nascono all’interno di team omogenei. Affrontare nuove sfide o risolvere problematiche complesse può richiedere interazione e coinvolgimento di fattori esterni e di conoscenza tacita che non avevamo considerato di esplorare. Il contesto di IEI25 nasce proprio per con lo spirito di sapere “quanto sia complesso far funzionare la collaborazione tra design, sviluppo e organizzazione. Non si tratta solo di processi, metodologie o ruoli ben definiti, ma di interazioni reali tra persone con competenze diverse, obiettivi da allineare e decisioni da prendere insieme.”
Per iscriverti segui il link al Workshop “Product Team 2.0: costruire un team ad alta performance con LEGO® SERIOUS PLAY®” a Ferrara

Il Marketing non è più lineare
Nel 2025, il marketing non può più essere monodirezionale. I consumatori si muovono tra TV, social media, negozi fisici, e-commerce, app e assistenti vocali, aspettandosi un’esperienza coerente e fluida ovunque.
Questa strategia si chiama omnicanalità ed è la vera differenza tra un brand che sopravvive e uno che domina il mercato.
Ma cosa significa davvero essere omnicanale? E quali aziende lo stanno facendo nel modo giusto?
Cos’è l’Omnicanalità?
L’omnicanalità è la capacità di un brand di offrire un’esperienza coerente su tutti i canali:
- Online e offline si fondono → Un cliente può iniziare l’acquisto su un sito web, provarlo in negozio e completarlo tramite app.
- I dati migliorano l’esperienza → Un brand raccoglie informazioni da più canali per offrire raccomandazioni personalizzate.
- Ogni touchpoint è connesso → Che sia un post Instagram, una pubblicità in TV o un’email, il messaggio è coerente e rilevante.
Multicanalità VS omnicanalità:
- Multicanale → Il brand è presente su più piattaforme, ma i canali non comunicano tra loro.
- Omnicanale → Tutti i canali sono interconnessi per creare un’unica esperienza fluida.
Tre esempi di Omnicanalità
Quali aziende si stanno muovendo in modo sistematico nell’omincanalità? Non è semplice attivare un processo di rivoluzione omnicanale in azienda. Innanzitutto, l’azienda deve far compenetrare i reparti e reagire agli stimoli in modo univoco; poi, deve interrogarsi sul fatto che non basta un sistema o un gestionale per essere omnichannel, serve una cultura aziendale solida. Il rischio di affrontare un percorso omnicanale senza un piano, affidandosi solo ai tool, è quello di lasciare fuori opportunità e persone.
E mentre si parla diffusamente di questo approccio, solo una bassa percentuale di imprese può dire davvero di essere omnichannel. Vediamo alcuni esempi presi da grandi brand, che se pur abbiano risorse e strumenti sicuramente più forti di altri, possono essere spunto per alcune riflessioni, anche di chi non ha queste capacità strutturali. L’importante, come dicevo, è iniziare ad analizzare e sviluppare la “mentalità”.
1. Nike: dal negozio all’app, senza soluzione di continuità
Nike ha creato un ecosistema perfettamente integrato:
- L’app Nike consiglia i prodotti in base agli acquisti precedenti.
- In negozio, il cliente può scansionare un QR code per vedere la disponibilità di taglie e colori.
- Dopo l’acquisto, riceve notifiche con consigli su come usare il prodotto.
Cosa possiamo imparare da Nike? Usare la tecnologia per collegare l’esperienza online e offline e rendere l’acquisto più intuitivo.
2. Starbucks: la fidelizzazione omnicanale perfetta
- L’app Starbucks permette di ordinare e pagare in anticipo, evitando code.
- I punti fedeltà si accumulano indipendentemente dal canale d’acquisto (app, negozio, drive-thru).
- L’utente riceve offerte personalizzate basate sulle sue preferenze.
Cosa possiamo imparare da Starbucks? Il programma fedeltà deve essere integrato su tutti i canali, premiando ogni interazione con il brand. Non è così scontato. Eppure è quello che chiedono gli utenti/clienti: continuità, nell’esperienza e nei flussi.
Piccola riflessione sui programmi fedeltà nei Franchising: mi sono trovata spesso ad analizzare le opportunità di crescita del sistema di affiliazione rispetto alla fidelizzazione degli utenti: da un lato i clienti vivono il brand e non sentono di essere all’interno di punti vendita differenti, per cui, sia che si trovino in una città che in un’altra, vogliono avere un’esperienza omologa; dall’altro gli affiliati, soprattutto di Franchising storici, si sentono indipendenti e creano frizioni quando si vogliono sviluppare programmi di loyalty, a svantaggio del sistema di Franchising tutto.
3. Sephora: esperienza cliente senza frizioni
- I clienti possono salvare prodotti sull’app e ritrovarli automaticamente in negozio.
- L’AI suggerisce il make-up perfetto in base alla carnagione dell’utente.
- I consulenti in negozio hanno accesso al profilo online del cliente per personalizzare i consigli.
Cosa possiamo imparare da Sephora? Personalizzazione e continuità sono le chiavi per fidelizzare il cliente.
Omnicanalità ed eventi: cosa possono imparare Super Bowl e Sanremo?
Gli eventi di grande impatto possono diventare piattaforme perfette per strategie omnicanale. Possiamo tranquillamente dire che gli eventi che segnano, solitamente, il passo sulla pubblicità e i nuovi trend sono quelli più seguiti dal pubblico. Da un lato, il Super Bowl, in America, dall’altro (almeno fino al 2024) Sanremo, per il nostro Paese. Vediamo come i brand hanno sfruttato questi due eventi e cosa possiamo imparare.
Super Bowl: il modello perfetto
Le aziende che investono nel Super Bowl sono davvero tante. I costi degli spazi pubblicitari, enormi. Ma quello che ha sempre caratterizzato il Super Bowl è la creatività: gli inserzionisti, gli investitori, non solo hanno gli spazi in TV o a bordo campo, ma possono ideare vere e proprie esperienze dentro e fuori gli stadi. Non c’è limite (o ce ne sono pochi). In effetti, scegliere di investire cifre così importanti dovrebbe portare anche a progettare il miglior spot di sempre, per fissare negli spettatori l’idea del marchio, il suo valore e un ricordo indelebile dei suoi prodotti. Fare diversamente sarebbe come decidere di comprare il biglietto del ballo delle debuttanti e andarci con un saio. Un grande investimento richiede dunque il miglior vestito.
Cosa abbiamo visto al Super Bowl 2025?
- Spot TV con teaser pre-evento su TikTok e Instagram.
- Coinvolgimento degli utenti sui social (challenge, meme, commenti live).
- Engagement post-evento con contenuti esclusivi e offerte speciali.
Il grande tema è stato coinvolgere attori e personaggi famosi, la sfida realizzare quasi dei film. I messaggi, a seconda del brand, sono di diversa natura: da quelli più forti a quelli più ironici. Alcuni esempi?
- Dove ha trasformato il suo spot in un movimento sociale sui social media, prolungando la visibilità ben oltre la diretta TV. La bambina che corre sulla scia dello slogan Born To Run ha fatto emozionare tutti. Dove ha collaborato con H.E.R., artista da 6,6 mln di follower, per la realizzazione dello spot;
- Stella Artois ha messo in campo un vero film: quello della ricerca del gemello perduto di David Beckham in America. E chi è il gemello perduto? Niente poco di meno che Matt Damon;
- Ray-Ban continua a spingere i suoi occhiali in collaborazione con Meta giocando sul real time marketing. Non solo ha usato un cast stellare, con Chris Pratt, Christopher Hemsworth e Kris Jenner, ma ha spinto su una delle opere d’arte più discusse degli ultimi mesi, la famosa Banana di Cattelan, 6,2 milioni di dollari di valore. Lo spot appartiene a una serie, che vuole avvicinare quanti più consumatori possibili agli occhiali, anche se non sembra che il prodotto stia ancora avendo il successo atteso;
- Pringles ha sfruttato la notorietà, acuita dai recenti riconoscimenti, di Adam Brody, con uno spot che lo mostra in crisi per mancanza di Pringles a un party. Il tubo si trasforma così in un piffero magico richiama baffi, che vediamo partire da tutto il mondo.
Questi sono solo alcuni, tra cui vi invito a vedere anche GoDaddy, Lay’s e Ritz. Ma lo spot che più ha portato animo alla discussione sulle pubblicità del Super Bowl è certamente quello di Hellmann’s, che ha ingaggiato proprio Billy Crystal e Meg Ryan perché riprendessero i loro ruoli in “Harry ti presento Sally” e rifare, nella stessa location – il Katz’s Delicatessen – la scena cult dell’orgasmo, 35 anni dopo il successo del film. Forse troppo, per della maionese’? Forse loro poco credibili? Tra apprezzamenti e critiche, di fatto lo spot mostra che non c’è limite alla fantasia, nella creazione dello spot più discusso del Super Bowl, che si dimostra non solo utile per il pubblico massmediatico, ma anche per i differenti canali di critica e divulgazione pubblicitaria.
Sanremo: l’occasione mancata?
Sanremo ha il potenziale per diventare un evento omnicanale, ma i brand non lo sfruttano appieno. O meglio, il Sanremo di Amadeus ci aveva abituati a inserimenti pubblicitari creativi e collaborazioni più ampie del solito inserimento televisivo. Non sono mancati certo i palchi esterni e le avventure per raggiungere la nave Costa di turno, così come le automobili che hanno accompagnato i cantanti all’Ariston, ma mi sarei aspettata qualche sforzo in più, come il bell’esercizio di Poltrone e Sofà dello scorso anno di accompagnare gli artigiani della qualità dentro al Festival, in un creativo Divano Sanremo che ha coinvolto tutti e che voleva avvicinare il pubblico da casa, con non pochi meta messaggi.
Quest’anno gli spot sono stati poco creativi, non solo al Festival, ma anche nella messa in onda. A fronte di cifre da capogiro (un minuto nella fascia delle 23.30 è arrivato a costare più di 1 milione di euro, ancora più alta la cifra de 4 spot prima dell’annuncio del vincitore) i brand che hanno acquistato gli spazi avrebbero potuto fare di più: niente spot nuovi, quasi nulla la co-partecipazione al Festival. Alcuni main sponsor non sono stati nemmeno in grado di condividere l’esperienza sui social, riducendo la presenza al canale televisivo. Peccato!
Cosa avrebbero potuto fare gli sponsor?
- Creare attivazioni digitali live per far interagire gli spettatori con lo spettacolo.
- Integrare e-commerce e app per acquisti in tempo reale.
- Sfruttare contenuti dietro le quinte su TikTok e Instagram.
Chi ha fatto qualcosa di interessante (se pur un po’ scontato, considerato il tipo di brand)? Spotify ha promosso la playlist di Sanremo. Certo, poteva creare challenge interattive o sondaggi live per aumentare l’engagement. Forse la cosa più omnichannel che si è vista è stata l’interazione degli utenti TIM con la app per assegnare il premio (che poi è andato a Giorgia). Avere una App è un obiettivo per molte aziende, permettendo di raccogliere dati, interagire, creare un canale diretto di dialogo, ma come rendere gli utenti partecipi e far aprire quella App è il vero tema, che pochi hanno risolto: TIM, grazie ai voti della miglior canzone, ci è riuscita. Chapeau perché mi ha permesso di parlare di omnichannel 😀.
Come applicare l’omnicanalità nel tuo brand?
Sì, lo so, c’è ancora tanta confusione su cosa sia o non sia omnichannel. Ma quali sono i punti di partenza e gli obiettivi che dovreste darvi quando vi avvicinate a questo tema e alle sue opportunità?
🔹 Assicurati che il messaggio sia coerente su tutti i canali.
🔹 Utilizza i dati per personalizzare l’esperienza utente.
🔹 Sfrutta la tecnologia per connettere online e offline.
🔹 Incoraggia l’interazione e il coinvolgimento.
La regola d’oro?
Il cliente non deve mai sentirsi perso o confuso quando passa da un canale all’altro. Tutto deve essere connesso.
L’Omnicanalità è il futuro del Marketing?
I brand che riescono a creare un’esperienza fluida, coerente e personalizzata saranno quelli che vinceranno la battaglia per l’attenzione del consumatore.
E tu? Hai già un’ottica omnicanale o stai ancora trattando ogni canale come un’isola separata?
Nei miei percorsi di consulenza uso diversi approcci per avviare una transizione omnichannel nelle aziende, sia quelle comuni che i sistemi in rete, commerciali o Franchising. Spesso, già grazie all’uso della Facilitazione, anche attraverso il Metodo LEGO® SERIOUS PLAY®, si possono delineare obiettivi e processi per arrivare a creare piani di azione solidi, che contemplino rischi e opportunità. Non servono mesi di analisi interne e di mercato per avviare questa transizione, né complessi tool. Se ti interessa iniziare a capire come la tua azienda può diventare omnichannel, mettiamoci in contatto!