
Fiera del Franchising 2017: da Milano a Valencia
Negli ultimi dieci giorni si sono svolte due importanti fiere per il mondo dei franchising: la fiera di Milano, il Salone del Franchising, e la fiera di Valencia, il Salón Internacional de la Franquicia.
Si tratta di due fiere del franchising storiche, l’una con i suoi 32 anni si attività, l’altra giunta ormai alla 28esima edizione.
Ho avuto la fortuna di partecipare a entrambe, potendo non solo cogliere le differenze tra il mercato italiano e quello spagnolo, ma analizzando soprattutto quale sia l’approccio in comunicazione e marketing di questo settore, nei due paesi.
La prima domanda che mi sono fatta, visitando entrambi, è come un franchising dovrebbe comunicare in fiera. La seconda riguarda un approfondimento che vorrei portare avanti sull’assenza dei big player, molto nascosti a Valencia, appena accennati a Milano.
Quando parlo di big player mi riferisco alle grandi aziende internazionali, che ormai hanno capillarmente coperto le aree commerciali e urbane di un gran numero di città nel mondo, dai marchi italiani come Calzedonia e co., fino a quelli esteri come Mc Donald o Pizza Hut.
Cosa significa partecipare a una fiera?
Partiamo da una domanda, che mi deriva dal percorso che sto seguendo con Manuel Faè ed Alessandro Sportelli, Web Marketing per Imprenditori:
le fiere sono strumenti della domanda latente o di quella consapevole?
Quando penso a una fiera di settore, ma in generale qualunque persona ci pensi, dovrebbe focalizzare la sua partecipazione cercando di comprendere in quale fase del processo di acquisto si inserisce.
Dunque, se con la tua azienda partecipi alla fiera campionaria o a quella di paese, quasi sicuramente stai intercettando domanda latente. Le persone sono lì per fare un giro, curiosare, mangiare le frittelle di Santa Lucia e tu, con il tuo stand, se sai comunicare bene, potresti incontrare il loro interesse.
Domanda latente, appunto. Genera un contatto? Non è detto!
Innesca un processo di acquisto? Forse.
Se sei bravo, ripeto, fornendo il giusto materiale o colpendo il pubblico con un messaggio davvero differenziante, o se hai la capacità di individuare in pochi istanti chi è potenzialmente un tuo cliente, potrebbe essere che a seguito di quell’incontro avvenga qualcosa di più concreto e utile per il tuo business.
Parte alta del funnel, pubblico ampio, interesse relativo. Tienine conto. Se punti tutto sulla domanda latente, spari nel mucchio, specie in eventi in cui, a meno che tu non abbia i superpoteri, c’è di tutto.
Ma le fiere di settore? Sono davvero strumenti della domanda latente? Io non credo.
Le fiere di settore, come le fiere del franchising di Valencia e Milano, sono strumenti della domanda consapevole.
Ora, se segui WMI da qualche tempo o hai letto Il succo del Web Marketing, saprai che la domanda consapevole ha diverse declinazioni.
Si parla di domanda consapevole generica, informativa o commerciale e di domanda consapevole specifica.
In fiera che tipo di domanda ti dovresti aspettare?
Chi partecipa a una fiera come quella del franchising potrebbe, in realtà, avere tutte e tre le tipologie di bisogni. Vediamo un po’.
In generale se scegli di dedicare una giornata a una fiera specifica di settore, a meno che tu non sia di Verona con i biglietti gratis per il Vinitaly per andare a bere con gli amici, sai che nella fiera troverai la gran parte delle informazioni e delle scibile di quel settore, tutto insieme, in un unico luogo e in pochi giorni! Interessante, no?
Se ti interessa un determinato ambito di sviluppo o vuoi conoscere determinate aziende, invece di doverle cercare su Google, chiedere in giro, o fare altri mille voli pindarici per intercettarle, potenzialmente le hai tutte lì, pronte per te. Domanda consapevole generica: voglio saperne di più, vado in fiera, dove potrò trovare informazioni ma addirittura vedere in faccia chi ci sia dietro un determinato business. So che il mio lavoro non va più come vorrei, sento di avere l’indole dell’imprenditore, mi attrae la possibilità di mettermi in proprio ma mi fa anche paura. Queste sono tutte leve che portano le persone a informarsi sui franchising.
In fiera possono trovare informazioni.
E se invece andassi in cerca di aprire con un determinato tipo di azienda? Magari ho la stessa spinta di chi cercava informazioni, ma di fatto, beh, vorrei aprire un ristorante, perché ho da sempre la passione per la cucina. Non so a chi rivolgermi, con chi fare l’investimento giusto, ma so che voglio cambiare la mia vita nel giro di un tot di tempo e che voglio farlo gestendo una cucina e gli avventori che vorranno cibarsi dei miei piatti. E in fiera, dunque, ho una forma di domanda più commerciale, rivolta al settore che io rappresento.
Voglio capire quale sia il franchising giusto con cui affiliarsi nel settore della ristorazione.
Ma se mi sono informato, ho letto tutte le riviste, ho ricevuto tutte le email dei funnel a cui mi sono iscritto, e mi sono dunque fatto un’idea specifica di quale sia il franchising giusto per me?
A questo punto, beh, la domanda consapevole è davvero specifica e in fiera potrò avere l’onore di prendermi del tempo per conoscere meglio chi ha inventato o porta avanti quella rete. Certo, potrei anche andare in azienda, ma la fiera è un terreno neutro, mi dà un’idea meno affettata di una sala riunioni costruita per raccontarmi quanto sia bello affiliarmi con quel brand.
Esiste la possibilità di convertire?
Se un cliente è pronto a parlare proprio con il tuo brand, sì, potrebbe essere. Se viene in fiera proprio per quello, per discutere un contratto, ci potrebbe stare. Uno dei miei clienti ha costruito un funnel molto approfondito e usa le fiere per parlare con i clienti che già hanno scelto di affiliarsi. Ma le usa anche per invitare a conoscerlo chi è ancora indeciso e sta valutando varie strade.
La fiera è un evento. Come tutti gli eventi ha un prima, un durante e un dopo e, non si capisce come mai, spesso gli eventi si dimenticano del prima e del dopo.
Non è che si scordino della becera organizzazione logistica, eh, quello no. Si scordano però della strategia che può stare dietro una fiera, nel comprendere come inserirla nel processo di acquisto, come renderla uno strumento utile del funnel di vendita, come finalizzare, poi, i contatti ricevuti.
Da Valencia a Milano, il mio punto di vista sulle fiere
Purtroppo non posso essere clemente con il Salone del Franchising di Milano e con il Salòn de la Franquicia di Valencia. Sì, perché oltre alle aziende che espongono, ci sono anche le strutture che fanno la fiera, che dovrebbero comprendere di avere due clienti importantissimi: l’espositore, e il visitatore. Senza l’uno non esiste l’altro, senza l’altro non parteciperebbe mai l’uno. Funzionano, insieme.
Le fiere del franchising di Valencia e Milano sono state, purtroppo, poco lungimiranti, sia nei confronti degli espositori che in quelli dei visitatori. Sono ancora momenti molto importanti, eventi unici nel loro genere, ma vengono comunicati e diffusi male, purtroppo, tanto che i big player ormai mancano, che le aziende si affidano a degli aggregatori dove il rapporto umano viene un po’ a mancare, e che i visitatori, talvolta, rimangono delusi dell’offerta.
Nonostante questo, organizzano incontri e momenti di formazione di valore, non solo con aziende che presentano i loro servizi, ma anche con professionisti che agevolano la focalizzazione verso il settore e le sue potenzialità, oltre che verso nuovi approcci utili al business. Non entro qui nello specifico degli interventi sul mondo del franchising che ho seguito sia in Italia che in Spagna, o nelle occasioni di confronto con franchisee o franchisor, ma di fatto – forse anche per il costo elevato di partecipazione –
alle fiere manca ancora qualcosa per affacciarsi a un nuovo modo di concepire questo canale, più moderno e vicino alle esigenze del visitatore e dell’espositore.
Non facciamo di tutta l’erba un fascio. Ci sono fiere che ancora oggi hanno dei perché molto forti, indiscutibili, come ho visto durante il mio intervento a Expo Network Forum di GRS, lo scorso luglio.
Se sei un franchising e vuoi attrarre nuovi franchisee attraverso la fiera, dunque, cosa dovresti fare?
Innanzitutto, darti un obiettivo.
Qual è lo scopo di partecipare alla fiera?
Se ne hai già fatta almeno una, è facile: cerca di fare meglio della precedente. Come? Controlla i contatti raccolti, le presentazioni fatte, le brochure distribuite, ma soprattutto, controlla quali risultati hanno avuto nel lungo periodo: hai raccolto solo contatti farlocchi? O tra chi ti ha visitato c’è stato chi ti ha poi portato una affiliazione? E di che tipo di contatti si trattava? Solo curiosi o persone veramente interessate?
Quando mi interfaccio con gli imprenditori che devono partecipare a una fiera il grande tema è: ma in fiera non c’è tempo di fare tutto quello che dici. Vero. Ho fatto per 10 anni una delle fiere più stressanti di Verona, Vinitaly: 7 giorni su 5 tra organizzazione e gestione dello stand. So bene cosa significa lo stress da fiera. So altrettanto bene che, però, se non finalizzi i tuoi obiettivi, farai presenza, come tanti altri, e allora forse ti potrebbe costare meno un commerciale che telefono a tutti i tuoi potenziali clienti per due mesi. Qualcosa raccoglie, se ha stoffa.
Ricorda allora che in fiera devi lasciare un segno di te, specie se qualcuno viene per informarsi.
Sia a Milano che a Valencia, ahimè, ho visto, oltre a una fiera del franchising, la fiera delle banalità. “Siamo i leader”, “risultati immediati”, “nessuna fee di ingresso”, “i più innovativi”.
Emanuele Maria Sacchi, consulente e formatore alla vendita, in uno dei tanti corsi in cui ho avuto la fortuna di sentirlo parlare, diceva: “ma lo puoi mettere nella carriola?”. Forse, solo ora, capisco appieno cosa intendesse. I leader. Possono dirlo tutti. Ma dimostrarlo con numeri concreti, che si possano mettere – idealmente – in una carriola, chi può farlo?
Inoltre, quando dici una cosa del tuo brand, prova a prendere un altro brand, magari tuo concorrente. Se sostituisci il tuo nome con il suo la frase ha comunque senso? È coerente? Se lo è, hai un problema, di omologazione.
In fiera potrebbero esserci tanti come te. Devi farti ricordare. E puoi farlo con una marcia in più: la tua presenza.
Le persone che incontrerai si ricorderanno del tuo brand ma anche di come ti sei posto, se sei stato convincente e credibile. Chiedono informazioni, ti sei preparato a dargliele? Ha ipotizzato la gran parte delle domande che ti potrebbero venire rivolte e hai deciso come rispondere ma, non solo, hai trasmesso a chi sta in fiera con te come ti aspetti che le diano? Non è facile. Ma fa parte della preparazione, di quel pre-fiera che non è solo decidere la posizione del bancone di accoglienza dello stand.
E poi, durante la fiera, che strumenti usi per raccogliere informazioni utili, feedback, dati?
Lì davanti a te hai il tuo cliente, probabilmente il migliore: è venuto in fiera per informarsi sui franchising. Come cerchi di raccogliere i suoi dati e le informazioni che potresti dargli? Hai un modo per raccogliere i suoi dati? E di quali dati hai bisogno?
“Non c’è tempo, Silvia”.
E’ sempre questa la scusa. Leggi sopra:
se pensi che non ci sia tempo, stai sprecando il tuo tempo lanciando ami in un lago in cui non sai se ci siano pesci.
Se hai investito in una fiera, investi in un/a ragazzo/a, carino/a e formato/a, che ti faccia da segretaria e raccolga i dati. Tu ti potrai dedicare ai clienti, lui/lei a questa parte burocratica. È un’idea, ma un modo si trova.
Perché dovresti raccogliere i dati in fiera?
Il funnel di cui parlavamo ha diversi livelli. Alcuni sono più lontani dall’acquisto, altri meno. Un potenziale cliente che viene in fiera potrebbe essere più vicino all’acquisto di quanto immagini. Vuoi perdertelo? Io penso di no. E in fiera potrebbe non essere pronto a firmare un contratto di affiliazione, ma magari, di lì a poco, nei giorni successivi, potrebbe rielaborare quanto visto e volerne sapere di più. Farai in modo di ricordargli da subito che tu sei interessato a lui/lei o aspetterai come gli ebrei che scenda la manna dal cielo? Non so se quello lassù sia ancora così magnanimo…
Se hai i dati dei tuoi clienti, qualcosa potresti fare, fra le altre, creando credibilità nel tuo cliente, che a ben vedere, tra qualcuno che non si fa più vivo e tu – magari meno interessante sulla carta – che ti fai sentire e dimostri di avere una strategia, potrebbe decidere per te.
Post evento. Come lo curi? Come continui una relazione che possa provare ad accompagnare la persona che hai incontrato sempre più vicina alla conversione?
Ti dirò di più. Una persona decide di abbandonarti. Dopo averti visitato in fiera, dopo aver letto qualche email, dopo averti sentito al telefono alla fine dell’evento per valutare l’affiliazione al tuo marchio, ti dice che non è più interessata. E tu pace, la lasci andare così, senza proferire parola. Ma come? Ti è mai venuto in mente che chi non sceglie per te potrebbe darti informazioni utili per migliorarti? Se hai creato un rapporto, perché non provi a chiedergli un feedback che magari ti può essere utile come autoanalisi?
Se sei un franchising emergente, se hai appena scelto, dopo un test su uno o più punti vendita pilota, di diventare un franchisor, i feedback sono importantissimi, anche quelli negativi.
La fiera è utile solo per i franchising in fase di startup?
Ahimè, entriamo nella seconda parte della mia analisi delle due fiere di Valencia e di Milano. I big player non c’erano. In questo caso, mi sono ripromessa di fare un approfondimento specifico.
Alla fiera di Parigi sono ricomparsi, mi ha detto Elena Delfino di StartFranchising. Al Salone del Franchising di Milano e al Salòn de la Franquicia di Valencia, però, non c’erano, oppure erano velatamente presenti attraverso le associazioni – specie in Spagna – di Franchise.
Nessuna scoperta del brand che c’è dietro, del team che mi supporterà, del mondo a cui potrei andarmi ad affiliare. È triste, ma ha il suo perché.
Le aziende grandi hanno innescato un processo di inbound marketing in cui la forza e riconoscibilità del brand, la sua diffusione e capillarità, rendono i potenziali affiliati alla ricerca dell’affiliazione. Sono strutture talmente consolidate che in genere si possono permettere un’altissima selezione, non hanno bisogno di aprire qualsiasi porta al mercato, di farsi conoscere. Le persone che vogliono aprire la loro attività alle volte fanno a gara per accaparrarsi una zona per aprire in franchising ancora libera.
Un’altra storia, che non voglio approfondire qui, dove già mi sono dilungata abbastanza, tra Spagna ed Italia.
I due mercati sono uguali?
No. In Spagna c’è molta più fiducia nei franchisor, in questo sistema di imprenditorialità guidata. In Italia c’è ancora dubbio, sfiducia, un po’ di resistenza.
Il settore si è macchiato, negli anni, per colpa di imprenditori poco accorti, tanto che oggi anche i più etici, quando partono, fanno fatica, e le obiezioni comuni sono sempre quelle.
In Italia, poi, c’è un tema scottante, che anche il Salone di Milano ha portato alla luce:
manca la visione imprenditoriale. Chi apre in franchising, spinto spesso dalle possibilitià offerte da un TFR, pensa che il franchising sia una forma di lavoro dipendente. Non lo è.
Quando si parla di contratto di franchising si parla di collaborazione, di esperienza, di know how. Affiliarsi e diventare franchisee però non significa stare dietro una scrivania. Mi ha fatto specie una domanda, uscita proprio a Milano durante uno degli interventi sul diventare franchisee: cosa significa essere imprenditori? Bella domanda. Una bellissima domanda su cui i Franchisor dovrebbero interrogarsi prima di affiliare, per arrivare a scegliere la persona giusta, quella che porterà davvero avanti il proprio brand, anche – perché no? – con la possibilità di costituire fra gli affiliati dei percorsi ancora poco sviluppati nel nostro paese, ma ben consolidati in Spagna o in America, per esempio, per diventare Master franchisor.
Ma questa è un’altra storia.
Da Valencia, e Milano, è tutto, e quindi – come si dice – linea allo studio.
Se ti interessa approfondire il mondo dei franchising o desideri supporto per la tua strategia di marketing per franchising, scrivimi o iscriviti alla newsletter. Grazie di essere arrivato a leggere fino a qui. A presto!
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Franchising: cosa significa? Nasce prima il brand o il network?
Il Franchising ha compiuto gli anni qualche giorno fa. Almeno in Italia. Pare che il primo a creare un franchising in Italia sia stata la Gamma D.I., con 55 punti vendita, il 18 settembre 1970. Non importa quanti anni abbia questo tipo di business, sta di fatto che, ancora oggi, c’è da fare un po’ di chiarezza.
Ho provato a spiegare meglio cosa sia un franchising, almeno sulla carta. Ho cercato di recuperare le varie definizioni che si trovano in giro, per dar loro un senso, ampliando il ragionamento fino a un’annosa questione: è più importante il cliente o il franchisee? Infine, ho cercato di ragionare sul perché, sia per il cliente che per il franchisee, prima di tutto sia importante far nascere il brand, e sostenerlo.
Cosa significa Franchising?
Franchising è la derivazione di una parola francese: franchise, che significa franchigia, privilegio.
Secondo Google, la definizione corretta, in italiano, è: “Contratto mediante il quale un’azienda concede il diritto di commercializzare i suoi prodotti o servizi usando il suo nome o marchio ad un’altra azienda, dietro pagamento di un canone.”
Secondo Wikipedia, invece: “Il franchising, o affiliazione commerciale, è una formula di collaborazione tra imprenditori per la produzione o distribuzione di servizi e/o beni, indicata per chi vuole avviare una nuova impresa, ma non vuole partire da zero, e preferisce affiliare la propria impresa ad un marchio già affermato.”
La legge italiana, dal canto suo, dice così, parlando di affiliazione commerciale: “contratto, comunque denominato, fra due soggetti giuridici, economicamente e giuridicamente indipendenti, in base al quale una parte concede la disponibilità all’altra, verso corrispettivo, di un insieme di diritti di proprietà industriale o intellettuale relativi a marchi, denominazioni commerciali, insegne, modelli di utilità, disegni, diritti d’autore, know how, brevetti, assistenza o consulenza tecnica e commerciale, inserendo l’affiliato in un sistema costituito da una pluralità di affiliati distribuiti sul territorio, allo scopo di commercializzare determinati beni o servizi”.
Chiaro, no? Ehm…
Gli elementi di un franchising sono dunque
- affiliazione
- marchio già esistente
- collaborazione tra imprenditori
In cui si prevedono l’uso e la fruizione di
- marchi
- modelli
- diritti d’autore
- know how
brevetti - assistenza
- consulenza tecnica e commerciale
Con scopo di
- avviare una propria impresa
- commercializzare prodotti e/o servizi
Eppure, quando usiamo questa parola, non sempre lo facciamo “a proposito”. Ci sono diverse tipologie di franchising, in Italia, e non solo, tanto che si parla di affiliazione o, in maniera più ampia, di network, alle volte addirittura, in maniera forse un po’ impropria, di network franchising.
Sotto a questi cappelli, quello che conta è il fatto che ci sia una sede centrale che, capillarmente, si distribuisce attraverso una rete, su un territorio. Di fatto, anche una rete (network) commerciale ha, se vogliamo, dinamiche simili a un franchising, laddove i franchisee sono i commerciali, appunto, che l’azienda dovrebbe attirare a sé per avere la migliore rete possibile sul mercato.
La caratteristica principale, semplificando, è quella che vi sia
un marchio che deve distribuirsi su un territorio e che, se da un lato deve trovare chi l’aiuta a farlo (la rete), deve supportare anche questa rete con una strategia capace di attrarre clienti finali verso i punti vendita, perché dia risultati utili alla sede.
Contorto? Insomma. Di fatto è un circolo.
Franchisee o cliente finale, chi viene prima?
Un brand che si deve diffondere deve essere appetibile a chi lo può diffondere ma anche a chi, attraverso quei contatti, compra i suoi prodotti, interagisce con il marchio, vi si affida e vi si fidelizza.
Dunque è più importante per un brand essere credibile e avere tanti affiliati, ovvero una rete commerciale forte, oppure avere clienti finali che rendono quella rete funzionale?
È un po’ come chiedersi se sia nato prima l’uovo o la gallina, e potremmo disquisirne all’inverosimile. È più importante avere clienti finali o una rete strutturata?
I franchising lavorano o dovrebbero lavorare su due piani: creare la capillarità e allo stesso tempo generare profitto rivolgendosi al cliente finale.
In un precedente articolo sul perché aprire in franchising abbiamo visto questo aspetto e come, nel nostro paese, non sia semplice individuare e lavorare su entrambi i clienti di un franchising.
Io credo che ci sia una questione anche etica, di fondo, da analizzare, che entra a pieno in quello che denominiamo franchising ma che spesso non lo è.
Come si struttura un franchising?
Partiamo dalla strutturazione del business.
I franchising propriamente detti sono realtà che, attraverso un contratto, affiliano degli imprenditori che si vogliono dotare di quel brand e del suo know how per aprire sul territorio.
Esistono anche formule diverse di affiliazione, ad esempio quelle in cui un franchisor partecipa in parte allo sviluppo di quella attività (franchising proprietari o in co-proprietà). In sostanza, il franchisee può detenere al 100% le quote della sua attività o condividerne una parte con il franchisor, o meglio, viceversa, è il franchisor che – in genere – concede una gestione totale o parziale, per quanto, parlando di questa tipologia di attività, sia veritiera una gestione totale.
Un brand ha diverse sedi sul territorio lo sa bene, seppur spesso applichi forme diverse di gestione. Dal lato del franchisee cambiano le tipologie di responsabilità e, internamente, cambia la tipologia di gestione e, per esperienza, la tutela del brand.
Non è facile affidare ad altri la propria immagine, laddove per immagine si intendono una serie di aspetti molto importanti di corporate identity. È un po’ come – l’ho già scritto in precedenza – affidare la propria figlia a un uomo: se sarà quello giusto per la vita, beh, per quanto ci vogliamo credere, non possiamo saperlo. Se la tratterà bene finché morte non li separi, rimane un’incognita. Se, in itinere, scoprirà che è attratto da altre donne, non possiamo saperlo. Certo, nei contratti di franchising ci sono tantissime clausole, ma per esperienza, a seconda di esse, fatta la legge, trovato l’inganno. Non è semplice da spiegare, ma sono diverse le capacità di tutela e di gestione, sia a seconda dell’affiliato, sia a seconda dell’affiliazione. E, senza entrare nel merito del tipo di contratto, cosa che magari avremo modo di approfondire in futuro, di fatto c’è anche un senso di partecipazione, derivato dagli interessi in essere e dalla modalità di affiliazione.
Esistono dei franchising, per esempio, che non occupano tutta l’attività, o che forniscono sono dei corner, all’interno delle attività già esistenti e avviate con un proprio marchio. Capita spesso che, chi vi si affilia, lo faccia per diversi interessi. Se, nello stesso punto vendita, ci sono altri corner, anche non concorrenziali fra loro, è una bella faccenda da sbrigare.
Come fai ad essere certo che il tuo affiliato valorizzerà allo stesso modo te e l’altro brand, come puoi tutelare la tua reputazione, che inevitabilmente passa attraverso la gestione di quel punto vendita?
Nel rapporto, a diverso titolo, con il cliente, ne va dell’immagine del brand, sia verso i propri clienti finali che verso i potenziali franchisee che possiamo attrarre.
Se un brand si sviluppa in questo modo, dovrà creare una rete commerciale e di supporto molto forte, offrire dei servizi, garantire uno sviluppo costante, dare supporto ai suoi franchisee. Pena, considerata l’alta concorrenza che ormai è presente in tutti i settori, che per interesse e profitto, il franchisee si rivolga altrove. Leggevo in un sito di un noto Franchising “Con il suo staff di qualificati professionisti, Calzedonia assiste l’affiliato prima e dopo l’apertura del punto vendita. Consulenti di Area e Zona (1 persona ogni 10 punti vendita circa) sono presenti periodicamente nel negozio per confrontarsi e dare consigli in collaborazione con l’azienda.”
Franchising e comunicazione interna
Io non credo che le dinamiche di affiliazione di questo tipo di settore si allontanino molto da quelle di comunicazione interna, da quella teoria che dice che le aziende di domani (oggi!) sono quelle che attirano le loro risorse, in chiave simile a quella commerciale. Ne ha accennato Annalisa Galardi nel primo articolo sul caso Carpisa, “il tema centrale è come si costruisce l’appartenenza, la fiducia in un brand di cui possa voler essere ambassador”.
Sei un professionista di valore e sai che in un’azienda si sta bene, che ti può far crescere, che fa quel che dice? Se ti ritieni capace, vuoi crescere, o semplicemente valorizzare le tue capacità, desidererai di lavorare in aziende che ti valorizzino, in cui ti puoi sentire a tuo agio, sceglierai le aziende che fanno al caso tuo. Ne parla anche Paolo Gallo, direttore risorse umane del World Economic Forum nel suo libro: La bussola del Successo. Senza star qui a parlare del volume, che consiglio a tutti, dipendenti e aziende, funziona in modo simile per i franchisee o per chi pensa di poter ampliare il proprio business: cercherò aziende che mi consentano di farlo, che siano credibili, che mi diano dei servizi, oltre che prodotti eccellenti. Una strategia di marketing per franchising dovrebbe tenere conto anche di questo.
Se un tempo un franchisor poteva preoccuparsi relativamente poco dell’operato di un suo affiliato, oggi, con la cassa di risonanza che può avere il web, se ne deve preoccupare eccome.
Questa presentazione dei franchising vuole essere una fotografia sulla situazione attuale, che avremo modo di approfondire. La modalità di affiliazione e i bisogni dietro all’apertura di un franchising, o corner franchising che sia, sono talmente tante che non basta un articolo.
Scegliere l’affiliato giusto, che diventi un brand ambassador
Capire da subito le intenzioni del proprio affiliato è la chiave, per una buona strategia di marketing. E non è facile realizzarla. Molti franchisor non se ne preoccupano, rischiando notevoli danni di immagine. E il cliente finale, seppur possiamo disquisire all’infinito su uovo e gallina, è la chiave.
Soddisfatto o insoddisfatto che sia, il cliente finale parlerà del brand, attirando potenziali affiliati o potenziali clienti, sui due piani di diffusione del franchising.
Che il negozio, o il corner, o la produzione, si trovino a Canicattì o a Trepalle, il web non ha confini, e la gente parla, specie se è insoddisfatta.
Online non esistono confini. Se hai un marchio e ne stai curando la distribuzione commerciale dovresti saperlo, e premurarti di operare affinché i tuoi affiliati siano in grado di attrarre e servire clienti soddisfatti.
Il successo di uno, in questo caso, è inevitabilmente il successo di molti.
Brand reputation di un franchising
Curare la reputazione di un brand in franchising è molto complesso, proprio per la diversità di risorse che si mettono in gioco per affiliarsi. Ne ho parlato la scorsa settimana analizzando il caso del Concorso Carpisa, che ha rischiato di minare la reputation del brand.
Strategicamente, un franchisor dovrebbe avere le antenne sempre alzate, per carpire malumori, bisogni e generare una rete che operi al meglio. Un reparto marketing ben strutturato può saperlo fare, ma potrebbe essere necessario un monitoraggio esterno, un’analisi del sentiment che va oltre le semplici recensioni, addirittura richiedendo studi sociologici o clienti misteriosi che forniscano feedback sui punti vendita.
Se stai aprendo un franchising o ne stai gestendo uno e ti ritrovi con queste problematiche, o hai compreso quanto sia importante tutelare il tuo brand, ci sono tecniche e approcci che possono aiutarti: non c’è da aver paura, semplicemente, è bene curare da subito, e in fretta, la giusta strategia di marketing e comunicazione per il tuo marchio e la tua rete.
Questo articolo tocca marginalmente argomenti più ampi sulla corporate identity di un franchising. Grazie per essere arrivato fino a qui.
Il mondo dei franchising è complesso e multisfaccettato, riassumerlo in poche righe non è semplice. Se vuoi rimanere aggiornato sui prossimi articoli sull’argomento, iscriviti alla newsletter (e, se ti va, condividi queste analisi con chi potrebbe essere interessato).
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Carpisa, un franchising che avrebbe potuto (o) voluto mettersi in gioco (seconda parte)
Parlavamo di Carpisa, nella prima parte di questo articolo sui concorsi per franchising, e di un’opportunità mancata per un franchising, di mettersi davvero in gioco e fare la differenza, facendo parlare di sé con notevoli impatti – positivi – sul suo business.
Carpisa, dicevamo, vanta staff giovane, politiche del lavoro innovative e ha fiutato, con questa iniziativa, un modo nuovo di fare un concorso. Fiutato, non sfruttato. Come mai? Cosa avrebbe potuto fare Carpisa e di cosa dovrebbero tener conto i franchising quando fanno iniziative simili?
Riprendiamo da dove eravamo rimasti…
6. La gestione di un concorso per un franchising e il ruolo dei franchisee
Innanzitutto i franchising sono realtà particolari. Come dicevo nell’articolo su Aprire in Franchising dove ho cercato di sottolineare l’importanza di capire che i macro target di un franchising sono due e possono essere ben diversi tra loro (franchisee e cliente finale), è fondamentale non dimenticare mai le azioni che si svolgono su questi due piani e programmarle in maniera strutturata.
Non entro nel merito della gestione specifica del concorso per Carpisa, di cui non posso valutare le dinamiche interne, ma mi ha molto toccato, entrando in uno dei negozi, sentire una commessa che diceva “noi abbiamo detto subito che era un’idea pessima, difatti non ne stiamo parlando per nulla ai clienti”. Mi ha colpito per due motivi, questo approccio:
- Se hai un franchising dovresti preoccuparti di come i franchisee e i loro dipendenti parlano di te. Anche questa è diffusione del brand. Non è la prima volta che nei negozi, specie delle grandi catene, sento persone che si lamentano degli orari impossibili, dei turni che precludono il tempo libero con la famiglia e cose simili. Questa cosa, però, fa male, sia al brand che a chi ci lavora, nei punti vendita. E la sede centrale dovrebbe attivare politiche di monitoraggio del sentiment interno, se vuole attrarre nuovi clienti sui due piani di cui parlavo.
- Se hai un franchising e pensi a una bellissima iniziativa per i clienti finali, dovresti per prima cosa far in modo che i tuoi franchisee la sposino e la diffondano. Un’iniziativa come un concorso, in primis. I franchisor spesso si preoccupano solo di proporre ad alcuni negozi il progetto, chiedendo loro di aderire in cambio di un costo di gestione dell’iniziativa straordinaria progettata dalla sede. Questo crea già di per sé qualche problema: in primis perchè in genere non tutti aderiscono, così da creare confusione nella clientela (come mai da te posso partecipare e da quell’altro no?); e poi perché la percezione del franchisee è che ci siano talmente tanti costi aggiuntivi caricati su di lui che un’iniziativa in più non abbia sempre il focus giusto per fare la differenza e portare nuova clientela in negozio. E torniamo lì: perché aderire?
Ripeto, questo potrebbe non essere il caso di Carpisa, visto che i franchising hanno modalità diverse di invogliare la partecipazione alle iniziative di marketing (c’è chi prevede un costo annuale fisso, chi coinvolge gli affiliati, chi invece propone costi aggiuntivi una tantum, ecc.) ma
quando una realtà con più sedi decide di operare nei confronti del cliente finale, se vuole agire come brand, deve trovare il modo che la diffusione e il coinvolgimento nel progetto sia massimo.
Mi auguro che Carpisa, almeno, abbia tentato questa strada e che tutti i negozi abbiano aderito, se non altro per coerenza. Poi, d’altro canto, mi chiedo se non sarebbe stato possibile fare una specie di sondaggio tra franchisee e loro dipendenti per capire che sentiment potesse generare l’iniziativa, che se tanto mi da tanto, viste le reazioni dell’opinione pubblica, un “due più due” avrebbero potuto farlo prima di lanciarla.
7. L’analisi, prima di tutto. Come si può sfruttare la rete per capire pro e contro di un progetto di comunicazione. Anche a costo zero
Questionario, dicevo prima, anche a costo zero. Tra i propri clienti, visto che Carpisa ha una card, ad esempio, con tutti i dati. Ma anche interno, un questionario, tra franchisee e dipendenti degli stessi, o tra i suoi dipendenti in sede. Possibile che non fosse davvero capace, un brand così attento, di comprendere se una iniziativa di marketing avrebbe potuto dare poco o molto lustro alla sua reputation?
Carpisa ha 600 punti vendita nel mondo. Quanti saranno in Italia? Chi si occupa di ricerca potrà pur dirmi che i sondaggi, per avere valore, devono abbracciare un certo numero di persone, ma io mi chiedo davvero se un’azienda che vanta di avere delle policy interne di gestione del personale di un certo tipo non si sia posta minimamente il problema di offendere i giovani con questo progetto.
Ormai non è più difficile analizzare il mercato, organizzare gruppi di ricerca, fare dei sondaggi di opinione per capire se quello che abbiamo in mente possa funzionare o meno.
Ci vengono spesso tante belle idee creative rispetto a modi inusuali di dialogare con il mercato. Funzioneranno? Come possono essere visti all’esterno? Alle volte, semplificando, possono bastare 5 minuti di dialogo con 3 persone diverse per capire che se ci fermiamo a quanto sia bello un progetto sulla carta, rischiamo di farci male. E per un franchising la questione, a mio avviso, è ancora più delicata. Il franchisor non solo ha la responsabilità dei franchisee, ma della loro reputation di fronte ai clienti e al brand, e sono strettamente correlati, considerato che
gli affiliati, nei loro negozi, sono l’avamposto del marchio, prodotto o servizio, diventano la sua carta d’identità, la sua faccia di fronte a chi compra.
Soprattutto, con i franchising con cui mi interfaccio, noto spesso questa voglia di fare cose innovative a tutti i costi, per poi scoprire, dall’analisi, che mancano attività di base come la gestione di un CRM dei clienti, la corretta gestione degli strumenti di marketing online per franchising, una carta dei valori condivisa, la capacità di analizzare il territorio per le aperture e tante altre cose che non è il caso di trattare qui.
Carpisa avrebbe dunque potuto fare un’analisi veloce e avere risposte immediate sulla fattibilità di questo concorso e i risvolti che avrebbe potuto avere sull’opinione pubblica, aggiustando il tiro prima di lanciarlo? A mio avviso sì. Come ho detto nella prima parte, questo concorso poteva essere un’opportunità.
Quando ho cominciato a valutare l’impatto sociologico di un prodotto o di un servizio, cercando di capirne il posizionamento sul mercato, anche grazie alla figura di un sociologo bolognese dell’Università di Verona che ho tanto odiato ai tempi dell’Università e tanto apprezzato, poi, sul lavoro, Domenico Secondulfo, mi si sono aperti dei mondi sulle possibilità di comunicazione dei franchising, e oggi metto sempre in discussione la percezione che posso avere io rispetto al mercato e quello che invece il mercato sente o pensa di un prodotto o di un servizio. Siamo esseri umani influenzati, a mio avviso, da tantissimi input. Viviamo però di cliché e preconcetti e non è facile farci cambiare idea su alcune cose, specie se sono radicate nella nostra cultura.
Chiederci a monte cosa rappresentiamo o possiamo rappresentare per il nostro cliente è un passo che viene ancora prima del posizionamento della nostra marca nella loro mente. Le parole chiave che ci rappresentano cosa significano per loro? Cosa significa stage per un ragazzo? Cosa significa lavoro per chi ha da 18 ai 30 anni? Cosa significa realizzare un progetto creativo e che quel progetto venga realizzato? Un giovane vorrebbe avere la possibilità di fare dei progetti per un’azienda? E come vorrebbe che gli venissero riconosciuti? Queste cose avrebbe dovuto chiedersi Carpisa, se non altro se l’obiettivo del suo concorso voleva essere quello di abbracciare quel target di mercato, i ragazzi dai 18 ai 30 anni. Quale vero obiettivo vi sia dietro a questa iniziativa e come lo stiano misurando, ahimè, non lo sapremo – forse – mai.
8. Lanciarsi nel vuoto, senza paracadute. Perchè se sviluppi il tuo brand, prima ancora di un concorso, si potrebbe pensare a investire altrove. Tra brand reputation e community management
Dicevo che vengo coinvolta in progetti molto creativi per le aziende. Concorsi, campagne spettacolari, storytelling creativi con costi imponenti. E poi scopro che gli strumenti di Facebook per i franchising non sono settati, che non ci si è chiesti come fare un piano editoriale nazionale con degli obiettivi concreti, che mancano le sedi sulle mappe di Google e che Google My Business non è mai stato impostato.
Ancora peggio, capisco che non ci sono politiche di tutela del brand nei contratti, per l’online, laddove mancano le giuste voci che parlano di utilizzo dei social e dei siti internet. Magari, ancora peggio, mi rendo conto che alcuni franchisee, sconfortati da una mancanza di gestione interna, si sono organizzati con siti propri, che hanno sviluppato progetti paralleli che possono generare forme di concorrenza interna o – anche – mettono in discussione la credibilità del franchisor agli occhi degli altri franchisee.
Io credo che oggi i franchising dovrebbero per prima cosa mettere in ordine gli strumenti e dotarsi di risorse che li aiutino a gestire in maniera organizzata e strutturata tutti gli strumenti, dall’offline all’online.
In Italia ci sono tante lacune su questi aspetti, troppe. Se un brand lascia un’immagine buona di sé verso il suo cliente finale, il cliente si rivolgerà a quel brand, esso otterrà un buon posizionamento, i franchisee arriveranno proprio perché il brand può garantire clientela di un certo tipo.
Ho visto molte lacune negli strumenti online utilizzati da Carpisa, una gestione dubbia dei CRM e della Marketing Automation, tensioni nei negozi. Ho visto gruppi su Facebook che ne parlano parecchio male, commenti online difficili da gestire, una reputation sul prodotto abbastanza dubbia.
Al di là che il concorso potesse essere una bella opportunità, io credo che prima di questo ci sarebbero state delle cosine da sistemare, e che debba essere uno degli obiettivi di tutti i franchisor, non solo per una forma di rispetto dei franchisee, che vi si affidano, ma anche per una corretta gestione della propria presenza e della propria brand reputation, su cui non possono permettersi di sgarrare.
Quello che un tempo poteva essere un punto vendita “pecora nera” in un paesino sperduto, di cui nessuno sapeva nulla, oggi, con l’online, è visto in maniera universale e influenza anche tutti gli altri franchisee.
9. Il concorso perfetto. Ecco cosa avrebbe potuto fare Carpisa, aumentando l’investimento ma, potenzialmente, incrementando visibilità e credibilità aziendale
Quale poteva essere il concorso Carpisa perfetto, dunque? Proviamo a ripercorrere un piano strategico, partendo dall’obiettivo, ipotetico.
Obiettivo: voglio ampliare la percezione del brand Carpisa verso le ragazze più giovani
Come lo raggiungo? Ho pensato al concorso per un progetto creativo sul brand di Penelope Cruz. Idea: offro uno stage a chi mi presenta il miglior progetto così con 500 euro magari ottengo qualcosa di buono. Al massimo, ci avrò perso 500 euro e i costi di gestione del concorso. Questo è quello che hanno fatto, anche con scarsa fiducia nei giovani.
Come avrei operato?
- Visto che si tratta di un concorso, avrei cercato di capire se il premio sarebbe stato allettante. A chi lo chiedo? Al target. Come lo trovo? Online, ma anche nei miei negozi o nei miei uffici, o tra i figli dei miei dipendenti o franchisee. Un po’ di pensiero laterale, please.
- Mi sarei chiesta se questo premio rispettasse i valori del brand. Uno dei dati che oggi ho in mano di Carpisa è quello relativo alle notizie, diffuse dalla stessa azienda, su politiche di HR innovative, inserimento di lavoratori giovani e apertura a un mercato del lavoro più smart e young. Insomma, non mi immagino un Big G dei franchising, con piscina interna e tanti benefit (siamo pur sempre in Italia) ma un’azienda che nel suo piccolo ha questi principi.
- Avrei cercato di capire se, fuori, vi siano iniziative simili o vi siano state e avrei chiesto a chi le ha organizzate – potendo – la loro opinione. Ci sono le società che organizzano hackhaton che sono molto preparate sul tessuto sociale dei giovanissimi e la loro predisposizione rispetto a questo tipo di iniziative.
- Dai risultati, avrei tratto spunto per trasformare il progetto in una iniziativa non solo di promozione su un target, ma di storydoing, per raccontare la mia azienda e la sua vision, oltre che il tessuto interno, sposando la comunicazione interna e quella esterna in un progetto di storytelling che andasse a raccontare non solo il pre del concorso, ma anche il durante e, dopo, lo stage, trasformando il ragazzo o – più presumibilmente – la ragazza, in una specie di testimonial “de noantri”, una persona che veramente vive l’azienda e i suoi valori e li può trasmettere. In un mese? Direi di no… ecco, quello no.
- Avrei cercato di chiedermi con dei formatori o dei coach come costruire un progetto di stage di valore, in modo che anche fuori dall’azienda, vincitore o vincitrice potessero mantenere alto il concept dell’iniziativa, anche dopo.
- Avrei cercato di capire quale fosse il vero premio in denaro adatto a quello che chiedevo.
In sostanza, come ho già accennato prima, avrei fatto un concorso diverso, dove l’analisi, che sto facendo ora ma che un colosso come Carpisa avrebbe sicuramente potuto fare a monte, trasformasse davvero un’idea in un’opportunità, non solo per il marchio ma anche per i franchisee.
Immaginiamoci un concorso tipo:
Ti piacciono le borse della collezione Cruz? Ti piacerebbe diventare il responsabile del prossimo progetto Carpisa e sviluppare un tuo piano marketing internamente all’azienda, coadiuvato dal nostro reparto marketing, per imparare veramente come avviene il lancio di un prodotto e avere la possibilità di firmarlo con il tuo nome?
Carpisa cerca te! Candidati online (senza obbligo di comprare una borsa!) e presentaci il tuo progetto, in base a questo brief (e qui un brief dettagliato). Inviaci un documento che abbia al suo interno almeno queste caratteristiche (con la definizione del formato e uno standard di presentazione, uno schema). Una giuria di esperti composta da (nomi e cognomi o quantomeno ruoli, tipo direttore marketing Carpisa, presidente, un esponente universitario, per esempio, ecc.) valuterà gli elaborati e i 10 migliori verranno chiamati in Carpisa per presentare il progetto alla giuria (spesati dall’azienda, con visita interna e presentazione delle iniziative, ecc. ecc.) che valuterà il candidato ideale per uno stage di 6 mesi per lo sviluppo del progetto, a Napoli, con rimborso spese e vitto e alloggio a carico dell’azienda. Il progetto vincitore riceverà un premio di x euro (qui da quantificare) mentre gli altri nove riceveranno dei – buoni? – da spendere in Carpisa (?) oppure altri micro premi per aver partecipato ed essere stati a Napoli, tipo (da valutare, insomma). La giuria valuterà in base a questi parametri (e giù un elencone molto chiaro). Gli obiettivi dello stage saranno … (e anche qui il valore aggiunto di dire: posso mettere nel CV di aver fatto questo tipo di esperienza, e non farò uno stage a fare fotocopie…).
A fronte di questo sarebbero stati da raccontare tutti i momenti pre, fino all’inserimento in azienda dello stagista e una specie di diario di bordo delle sue giornate.
Costoso? Complesso? Certo! Ma quanto verranno pagate le Cruz per mettere la loro firma su una linea di borse? Io credo che al di là del progetto il valore aggiunto di un concorso simile vada ben oltre un tentativo di dialogo con questo target. Quanti marketer, riviste, giornali, avrebbero potuto parlare dell’iniziativa, se l’avessero realizzata così?
10. Purché se ne parli. Ha stancato. Ma funziona?
Ormai è risaputo che il trend degli haters è uno dei nuovi trend delle strategie di marketing e che ci sono delle iniziative che nascono dalla conoscenza delle dinamiche dell’ingerenza dell’opinione pubblica per lanciare un prodotto o un’iniziativa e farne parlare più a lungo possibile. Ne abbiamo disquisito a lungo sul caso Buondì Motta, che non è la sede giusta per parlarne, e sinceramente non vorrei qui arrivare a creare una parentesi così lunga da abbracciare anche questa tematica.
Io non credo, per la reazione di Carpisa, che questo sia uno di quei casi in cui si è deciso di far leva sugli haters per trascinare un pubblico. Si entra troppo in un ambito delicato come quello del lavoro su cui i giovani non vogliono per nulla scherzare.
Vedremo se Carpisa saprà cavalcare l’onda, trasformare questo miserrimo mese in una vera opportunità per ribaltare la percezione che continua a persistere di questo concorso. Vedremo se, tra tante righe scritte in merito, oltre che rispondere con poche righe da ufficio stampa, sarà in grado di ribaltare una percezione diffusa, che passa dallo sfruttamento di chi lavora nei negozi e arriva a uno stage sottodimensionato per ripagare un’idea.
Vedremo, dicevo, perché le iniziative di marketing vanno comunque valutate sui numeri, e sono pronta a ricredermi, che magari il tessuto sociale intorno a Carpisa si sia mosso in maniera proattiva rispetto a questo progetto.
Al di là di questo, per costi, modalità, gestione, approccio, non avrei mai proposto un’iniziativa così, come l’abbiamo vista sulla carta, a un mio cliente, specie se si tratta di un franchising, laddove spesso anche i franchisor più attivi e capaci vengono visti con sospetto perché è ormai diffuso che i franchisee vengono attratti, carpiti, contrattualizzati e poi abbandonati al loro destino.
Se un franchising in Italia vuole fare la differenza credo debba passare dalla percezione della gestione dei suoi franchisee, offrendo strategie locali di creazione della clientela e sua fidelizzazione,
accompagnando un imprenditore a diventare tale, dando tutti gli strumenti a chi si fa da promotore del suo brand sul territorio per avere introiti tali da giustificare l’investimento, creando dinamiche di partecipazione e coinvolgimento che siano in grado di supportare anche i franchisee meno attivi, come in una famiglia, in cui proprio perché si crede nel brand, si sostiene chi lo porta all’esterno.
Un concorso che dice, di fatto: vi facciamo un piano di marketing con uno stagista pagato per un mese, a mio avviso, non sostiene questa filosofia, né verso il mercato, né verso gli affiliati, che meritano altro.
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Carpisa, un franchising che avrebbe potuto (o) voluto mettersi in gioco (prima parte)
Più che Carpisa, un franchising che avrebbe voluto mettersi in gioco, questo articolo potrebbe intitolarsi: la dignità del lavoro e lo stage all’ufficio marketing di Carpisa. E tutti vi aspetterete che, data l’indignazione generale sul tema, io mi accodi al ben-pensare generale.
Questo articolo, da questo punto di vista, deluderà.
Mi sono decisa a parlare di Carpisa e del suo concorso tanto discusso solo perchè è per me uno spunto per parlare di strategie di marketing per franchising che, in questo caso, a dirla tutta, strizza l’occhio non solo ai network.
Non voglio mettermi a discutere sulla strategia di Carpisa, sui suoi fatturati, sull’espansione di un marchio che in pochi anni ha raggiunto i 600 punti vendita e conquistato il mondo con le sue borse. Se sono arrivati fino a qui, è palese che qualcosa di buono e strategico lo abbiano fatto.
Aprire un franchising non è facile, pensare di svilupparlo ancora meno, far in modo che i negozi traggano profitto e si distinguano nei luoghi in cui vengono aperti, non è scontato.
Quello che mi preme analizzare rispetto a Carpisa è la mancata occasione di raccontare e raccontarsi.
In questi ultimi tempi, anche se c’è un po’ di confusione in merito, è – di fatto, per usare termini “markettari” – la mancata occasione di fare “storytelling” e “storydoing”. Cercherò dunque di fare da subito ordine, spiegando il mio punto di vista sul progetto, con una nota finale: questi soldi avrebbero potuto investirli meglio o altrove?
Beh, dall’analisi di Carpisa qualche strategia strutturale poteva venir fuori, prima di un concorso, apparentemente, abbozzato. E, così dall’esterno, pare che Carpisa abbia optato per la tanto agognata visibilità senza tener conto di un’analisi sociologica iniziale che avrebbe potuto creare una vera opportunità per il marchio (sia chiaro, non penso minimamente che dopo questo fail avranno gravi ripercussioni, semplicemente che avrebbero potuto sfruttare alla grande un’opportunità, segnando in qualche modo “una storia”).
Vediamo dunque quali sono gli aspetti che ho analizzato e andremo ad analizzare.
- L’idea. Un concorso che sia qualcosa di diverso. Dagli hackaton a Carpisa, qualcosa di innovativo c’è, per fortuna, e si può fare.
- Storydoing. La possibilità di un brand di raccontarsi dall’interno, senza favolette. Se puoi farlo, ci puoi costruire dell’ottimo storytelling funzionale ad attirare franchisee e clienti.
- Il lavoro, e la dignità. Perché poteva essere una possibilità invece di apparire come puro sfruttamento.
- Le idee si pagano. Quanto? Come? Possibili sviluppi.
- I concorsi, nel piano di marketing. Utili? Inutili? Ma quanto costano?
- La gestione di un concorso per un franchising e il ruolo dei franchisee
- L’analisi, prima di tutto. Come si può sfruttare la rete per capire pro e contro di un progetto di comunicazione. Anche a costo zero.
- Lanciarsi nel vuoto, senza paracadute. Perché se sviluppi il tuo brand, prima ancora di un concorso, si potrebbe pensare a investire altrove. Tra brand reputation e community management, specie in caso di crisi (reale o presunta).
- Il concorso perfetto. Ecco cosa avrebbe potuto fare Carpisa, aumentando l’investimento ma, potenzialmente, incrementando visibilità e credibilità aziendale.
- Purché se ne parli. Ha stancato, anche se talvolta funziona.
1. L’idea. Un concorso che sia qualcosa di diverso. Dagli hackaton a Carpisa, qualcosa di innovativo c’è, per fortuna, e si può fare.
Concorsi, concorsi, concorsi, e poi gare. Che senso hanno per un brand? Spesso, senza una giusta strategia, hanno senso solo per far perdere tanto denaro. Ho visto, negli anni in agenzia, avviare concorsi senza un piano strategico. Promozione, raccolta dati, estrazione. Stop. Come finalizzare poi tutta quella mole di dati?
Le agenzie che creavano i concorsi, anche quando sono stata in azienda, non mi hanno quasi mai fornito una visione così a lungo termine: tutto si fermava alla consegna del premio.
Veniamo ai concorsi di idee, a quelli che sono concorsi per il coinvolgimento di persone, attivamente, in un progetto. Non stupiamoci se esistono, perché ci sono dalla notte dei tempi. Anzi, se non erro – non sono un’esperta e lascio spesso a società più preparate la gestione di questa cosa burocraticamente molto complessa – esistono proprio dei concorsi in cui portare un’idea, qualcosa di creativo, non comporta tutto l’iter tradizionale con versamenti di fideiussioni e coinvolgimenti di notai. Semplicemente, le persone, presentano un pezzo musicale, un testo scritto, un ballo, un dipinto, una foto e, per aver messo in campo la loro opera intellettuale ricevono un compenso.
Il caso di Carpisa, apparentemente, sembra questo.
È il caso anche di molti di quelli che stanno diventando sempre più di moda, oggi: gli hakathon e i concorsi di idee. Si tratta di weekend, per lo più, in cui gruppi di persone passano molte ore (anche due o tre giorni) insieme per sviluppare un’idea o un progetto per un brand. Chi vince, prende un premio, alle volte in denaro, altre in altri generi di benefit. Esistono anche per ricevere denaro per propri progetti: li sviluppi sempre nel weekend e poi lo sponsor di turno o la società che ha deciso di investire in questa iniziativa, ti dà un supporto per queste cose.
Personalmente, ho partecipato a una call for ideas lo scorso aprile, a Verona, per un noto brand assicurativo. Il gruppo vincitore ha ricevuto un premio di 5.000 euro, se non ricordo male (non era il mio, ahimè, anche se ce la siamo cavata benone dopo quasi 48 ore senza dormire). Non vedo grandi differenze in quanto proposto da Carpisa, se non con le dovute critiche sulle modalità di approccio e di sviluppo che vedremo andando avanti.
Di fatto, non ci vedo nulla di male se un brand decide di coinvolgere dei giovani in un progetto e poi lo paga:
succede anche all’università o in altri contesti e in America avviene da sempre… che poi qualcuno in Italia ne approfitti è un altro paio di maniche… non parliamo del lavoro di alcuni ricercatori che esce a nome del professore di turno, vero?
Di certo, invece del solito concorso in cui si vince un viaggio – apprezzatissimo, per carità – qui si è provato a fare sviluppo. Un’azienda che si mette in gioco, che apre le porte, che si fa conoscere anche per la parte lavorativa.
Cosa mancava rispetto agli hakathon americani? Ho chiesto un parere a chi lavora con progetti simili, focalizzati sui giovani, da “qualche” anno.
“Trovo interessante e di valore l’idea di Carpisa, se fossi un giovane in target vorrei assolutamente cogliere quest’ opportunità”, dice Sara che oggi segue molti giovani in cerca di opportunità professionale che desiderano lavorare allo sviluppo continuo della propria impiegabilità. “Se fossi un giovane interessato al concorso, son certa ce ne siano molti, però mi potrebbero essere utili alcune ulteriori informazioni e specifiche che non risultano immediatamente chiare.
Mi sarebbe utile ad esempio conoscere quali saranno gli indicatori precisi sui quali si basa la valutazione del progetto: cosa si intende esattamente per qualità? Conoscere gli indicatori mi aiuterebbe infatti a tarare al meglio il mio lavoro e a confidare in un processo “scientifico” di valutazione che penserei quindi non solo come frutto di “mera” discrezionalità, benché assolutamente lecita. A meno che il criterio sia proprio quello di stupire e rischiare senza precisi indicatori di risultato, ma anche in questo caso mi piacerebbe che ci fosse una chiara dichiarazione di intenti.
Oggi, inoltre, ai giovani in cerca di opportunità professionali viene sempre più richiesto di identificare in sé e nella propria esperienza quelle caratteristiche e competenze distintive che possono fare la differenza per essere “il candidato giusto” per quella specifica posizione e anche in questo caso, se fossi un potenziale candidato, mi sarebbe utile qualche specifica in più sulle capabilities e le caratteristiche richieste per la posizione offerta. Insomma, vorrei giocarmi al meglio l’opportunità su tutti i fronti e non lasciar nulla al caso nella mia proposta di valore.
Troppo spesso raccolgo dai giovani che incontro e che seguo la percezione di un mercato del lavoro che sfrutta, prendendo le tue energie e anche le tue idee senza restituirti nulla ma soprattutto senza poi coinvolgerti in un percorso di crescita e di sviluppo reale.
Molte volte è così che purtroppo vengono lette da parte loro le iniziative di open innovation, call4Ideas etc quando, anche con le migliori intenzioni da parte di aziende serie e solide come in questo caso,
si tralascia di essere più trasparenti e chiari possibili nelle richieste e nell’offerta di opportunità, rischiando il boomerang di una leva di reputation che, specie quando si parla con i giovani, può tornare indietro tanto velocemente.
Ma in tutto questo… nulla impedisce ai giovani interessati e che magari stanno leggendo queste mie riflessioni di mostrare intraprendenza, proattività e reale motivazione per chiamare, scrivere a Carpisa per reperire tutte quelle informazioni che potrebbero farvi essere IL CANDIDATO!”
Una bella idea, dunque, con un alto potenziale, sviluppata male.
2. Storydoing. La possibilità di un brand di raccontarsi dall’interno, senza favolette. Se puoi farlo, ci puoi costruire dell’ottimo storytelling funzionale ad attirare franchisee e clienti
Si parla di franchising, di aziende, e di potenziale. Si parla, negli ultimi tempi, anche di storydoing.
Attenzione! Storytelling e Storydoing sono cose ben diverse.
Ho cercato di capirlo da una delle esperte italiane della materia, che presenterà l’argomento al prossimo festival della Comunicazione di Camogli, questo weekend, Annalisa Galardi. Cerco di esprimere al meglio quello che, tradotto in parole semplici, è un argomento molto complesso, in realtà, specie nel suo sviluppo operativo, etico, consapevole. Qui si cambiano veramente le aziende, dal basso, dall’interno.
In pratica, storytelling è il racconto di un’impresa, una favola. Può essere vera, ispirata al vero, inventata. Si possono raccontare valori, pensieri, storie di antenati o di attività presenti. Non è detto che siano vere. Certo, se un’azienda lo fa bene devono essere almeno coerenti, perché se narro all’esterno che tutto va bene e che l’azienda è la migliore del mondo ma all’interno ci sono casse integrazioni e situazioni di disagio, beh, anche se provo a nasconderle, prima o poi… con notevole ricaduta di immagine.
Lo storydoing invece è il fare, l’operare fin dall’interno per creare una storia. Olivetti, in sostanza, faceva storydoing. Lo storytelling ne è un suo strumento, in sostanza. Diciamo che, per farla semplice – e non me ne voglia la dott.ssa Galardi –
potremo dire che lo Storytelling è un film, lo storydoing è un documentario, se vivono separatamente. Se li facciamo coesistere, come lei fa con i suoi clienti, lo storytelling diventa il regista giusto per raccontare in maniera efficace la storia (vera).
Cosa c’entrano Storytelling e Storydoing con un franchising come Carpisa che lancia un concorso per l’assunzione di uno stagista? Dal mio punto di vista inserire una persona in azienda può essere un’ottima occasione per fare queste attività e dimostrare – a onor del vero – che quello che si scrive dell’azienda che sta dietro a questo marcio (staff giovane, ambiente dinamico, ecc.) è vero. Con notevoli ricadute positive sul brand.
Ho chiesto ad Annalisa di darmi il suo punto di vista sull’iniziativa. Cosa avrebbe potuto fare Carpisa per dare valore a questo progetto, per davvero, come opportunità? Ci sono dinamiche che un franchising potrebbe trarre dallo storydoing, e come, secondo te, si riversare su franchisee e clientela?
“Come compare scritto nel sito di Carpisa, l’azienda si vuole presentare come “Un gruppo in cui tutti sono attori e sentono partecipi di una storia vincente”.
Le storydoing companies sono proprio le aziende vincenti, che “fanno la storia” e generano appartenenza nei clienti e, nel caso di franchising, nei franchisee.
Quindi il tema centrale è come si costruisce l’appartenenza, la fiducia in un brand di cui possa voler essere ambassador. Metterei in evidenza almeno due caratteristiche: autenticità e rilevanza.
C’è un grande bisogno di autenticità e verità, tanto che il “basta che se ne parli” non regge più.
Ed essere autentici e veri è faticoso perché ci richiede uno sforzo costante, oltre il racconto, oltre a quello che è scritto sul sito e che ho formato i venditori perché sappiano esporlo in modo efficace. Per questo lo storydoing è un approccio strategico che inizia a monte rispetto a quando solitamente si attiva un’agenzia di comunicazione per il lancio di un prodotto o di un’iniziativa. La coerenza tra quello che diciamo e quello che facciamo è proprio la chiave per la costruzione di un commitment profondo, che ci tiene legati non solo per convenienza. In un flusso che parte dall’interno dell’organizzazione per portarsi fuori, guadagnando forza e credibilità.
La rilevanza riguarda invece la capacità di leggere gli interlocutori e il contesto in cui si opera. Solo se la mia storia incontra la storia dei miei “pubblici” e li aiuta a far evolvere la propria narrazione, le persone a cui mi rivolgo saranno le prime a sostenermi. In un’epoca in cui la sensibilità per nuove modalità consumo si è fatta strada, un brand come Patagonia – ad esempio – ha potuto lanciare la una campagna pubblicitaria si invitano le persone a comprare una nuova giacca solo se ne hanno davvero bisogno. Chi si avvicina a quel brand, compra un prodotto e la sua storia e ne acquista forza per la propria storia personale.
Insomma,
un franchising potrebbe trarre spunto da queste riflessioni per costruire un solido legame con i franchisee e, attraverso di loro, coi propri clienti rafforzando la consapevolezza della propria core story,
invitandoli a tradurla in azioni capaci di darle forza e in un racconto caldo e coinvolgente. Non dovrebbe, poi, mai mancare un’attenta lettura del contesto e degli interlocutori per costruire narrazioni che possano far crescere sia la storia del brand sia quella di chi lo sostiene. A partire dalle proprie persone.”
Un’altra opportunità persa, insomma. Peccato.
3. Il lavoro, e la dignità. Perché poteva essere una possibilità invece di apparire come puro sfruttamento.
Lavoro, opportunità. Ne parliamo ogni giorno ma, per un giovane, continuano lo stesso a brulicare gli annunci in cui si richiedono tot anni di esperienza oppure le esperienze che ti mettono a dura prova con salari ridicoli, se non, addirittura, in stage non pagati.
Il lavoro va pagato. In Italia abbiamo questo strano principio del risparmio su quello che fanno… gli altri.
I giovani, d’altro canto, l’ho visto nella collaborazione con Progetto di Vita, realtà veronese che si occupa della creazione di percorsi di sviluppo per studenti, laureati e lavoratori tra i 18 e i 35 anni, sono ormai disillusi da un ambiente che non premia più nessuno, da uno sfruttamento diffuso, dalla difficoltà di crearsi delle prospettive.
Oggi come oggi, inserire giovani in azienda non sempre viene vista come un’opportunità, ma come un risparmio rispetto all’inserimento di figure senior, con notevole impoverimento, spesso, dei contenuti dell’azienda.
Laddove c’è equilibrio si crea spesso una magia.
Non è facile, però, costruirsi le opportunità giuste e l’università non ci prepara affatto alla costruzione di un personal branding e di un network che sia funzionale alla nostra carriera. C’è chi si fa da sé, chi invece va all’estero.
E chi rimane e ha ottime qualità ma non le sa spendere sul mercato? Potrebbe trarre beneficio da un concorso come questo? Io penso di sì.
Penso però, anche, che un mese di stage sia una cosa ridicola. Come si fa a sviluppare un progetto in un mese, cercando di imparare qualcosa? L’errore più grande, in questo senso, specie perché il bando era per giovani tra i 20 e i 30 anni (velatamente una ricerca di un apprendista?!?) è quello di dare un tempo così ristretto al vincitore. 500 euro al mese, con vitto e alloggio (anche per il weekend) per 6 mesi. Come l’avrebbe vista il mondo del lavoro, là fuori? Magari abbassando l’età: 20-25 anni… 20-27… Quanto pagano certi stage, facendoti fare solo fotocopie? Manca però un tassello, lo ha evidenziato Sara, sopra: cosa imparerò durante lo stage? Di fatto, di un mese o di 6, lo stage dovrebbe essere, cito L’Accademia della Crusca, “un periodo di formazione o perfezionamento professionale trascorso presso un’università o un’azienda, in particolare per acquisire la preparazione professionale necessaria a svolgere un’attività”. Formazione. Perfezionamento. Preparazione. Come me li dai? Ripeto, che sia un mese o un anno, devono essere chiari gli obiettivi. Senza, potrei pensare anche di fare fotocopie. Per altro, nota a margine, nessuno cita nel regolamento che verrà dato seguito al progetto proposto, durante questo fatidico stage…
Ho chiesto, in questo caso, ad Emiliano Galati, segretario regionale Felsa Cisl (Federazione lavoratori somministrati autonomi atipici), che si occupa del monitoraggio, tutela e informazione di tutti i lavori di domani, dal lavoro somministrato alla Partita IVA. Cosa pensi di questo bando e lo vedresti un modo diverso di fare una selezione in azienda, se avesse le carte in regola?
Penso che lo stage sia per definizione un periodo di formazione sul campo che deve però essere ben distinto dall’attività lavorativa vera e propria.

4. Le idee si pagano. Quanto? Come?
Di questo argomento si è sempre discusso moltissimo. Portami un’idea poi vedo se mi va bene, te la approvo e te la pago, semmai. Quanti potenziali clienti fanno così?
L’idea in realtà è qualcosa di preziosissimo e spesso inquantificabile.
Nella vita continuano a venirci idee, spesso buone, altre volte meno. Se qualcuno ci presenta un’idea di comunicazione e marketing, che abbia un senso rispetto a un brief iniziale, il suo lavoro va retribuito. Questa persona avrà investito tempo, alle volte anche denaro, nella realizzazione dell’idea. Quanto la valuto? Non di certo uno stage a 500 euro.
A mio modesto avviso qui andava pagata l’idea. Poi lo stage, ma intanto il vincitore doveva ricevere il premio per la miglior idea. A meno che, visto quanto dicevo prima, l’azienda non creda che usciranno idee interessanti – e a pensar male, spesso… – ovvero che i giovani in questione non saranno in grado di formulare qualcosa di utile. In effetti, non dice che l’idea sarà sviluppata nel fatidico mese, non si propone di dargli un seguito. Io me li vedo i direttori marketing che pensano che usciranno delle cavolate… invece spero saranno sorpresi, me lo auguro tanto.
5. I concorsi, nel piano di marketing. Utili? Inutili? Ma quanto costano?
I concorsi hanno senso nel piano marketing e i concorsi per franchisee, di cui parleremo nella seconda parte di questo articolo, come vanno trattai?
I concorsi sono strumenti di scoperta importanti e interessanti. Ma sono davvero utili e, soprattutto, al di là di quelli di cui abbiamo parlato in precedenza, quanto costano? I concorsi costano tanto. Innanzitutto costano perché la legge italiana è complessa ed è un attimo sbagliare e trovarsi sanzioni elevatissime.
Quindi, per fare bene un concorso c’è da affidarsi a un esperto, o a un’agenzia che fa solo quello.
Anche un avvocato può essere utile, da coinvolgere. Poi ci sarà da interpellare il notaio, da investire tempo nella creazione dei contenuti, da mettere risorse nella ricerca del premio o dei premi. Tanti soldi, insomma, dall’inizio, più le risorse interne. Da ultimo, ma non per importanza, la promozione. Per far vivere un concorso e ottenere i risultati sperati, va promosso. E per promozione non intendo solo le ads di Facebook o la campagna in TV o sulla carta stampata. Per promozione intendo far conoscere in ogni dove del concorso, a qualsiasi persona, anche rivisitando i pack di un prodotto, se necessario, per inserire il concorso (e in un franchising questa operazione deve coinvolgere anche i franchisee e prepararli attentamente). Consulenza, premi, promozione,… anche se costa meno la parte iniziale, funzionano ovunque, hanno un costo comunque.
Quanto sarà? Un concorso ben fatto può costare sui 3000 euro, a mio avviso, di sola consulenza (sto andando a memoria di certe operazioni seguite, non me ne vogliano gli esperti del settore).
La promozione va calibrata in base al tempo, compresi i costi vivi di click e ads.
Se hai un franchising, poi, questo costo come lo gestisci? Si spalma nel piano annuale di marketing degli affiliati, che è già esiguo, in genere? Faccio fatica a vederla come una mossa strategica…
I punti che ho sviluppato sono molti più di questi ma per leggibilità uscirà nei prossimi giorni il secondo articolo per approfondirli… sei curioso? Iscriviti alla mia newsletter o seguimi su Facebook e LinkedIn. A presto!
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Aprire in franchising, con te, ma perché? Chi sono i tuoi clienti?
Franchising, e clienti. Quanti e quali sono? Qual è il tuo target?
I Franchising hanno dinamiche strane, rispetto agli altri business, perché hanno due tipologie di clienti: i franchisee e i clienti dei franchisee. Spesso i master franchisor si concentrano solo sui franchisee, dimenticando i clienti finali.
Proviamo a capire cosa muove un franchisee, partendo da un’esperienza pratica: lo scorso Salone del Franchising di Milano. Vedremo insieme, con qualche riflessione:
- le leve che muovono un potenziale franchisee
- la zona dove apre e la confusione di alcuni franchisor
- i motivi per cui il cliente finale attrae anche nuovi franchisee, aiutando lo sviluppo della rete
Perché le persone pensano al franchising?
Aprire una propria attività, scegliere di mettersi in proprio, magari realizzare il desiderio di una vita, oppure cercare la strada per una vita diversa da quella impiegatizia. Negli ultimi anni, dal 2008 in poi, anno fatidico di quella che ormai – è certo – non si può più chiamare solo crisi, sono molti gli italiani che hanno pensato che era giunto il momento, o era necessario, mettersi in proprio, cambiare. Verso cosa?
Sono aumentate, esponenzialmente, le richieste di aprire in franchising. Se hai un brand che si sviluppa su più sedi, dovresti saperlo.
Quale strada percorrere per aprire in franchising?
Una conoscenza un tempo mi disse: se hai un entourage di dipendenti, difficile che ti siano utili per capire come metterti in proprio.
Se vuoi consigli per fare l’imprenditore, chiedi a un imprenditore di successo.
Sacrosante parole. Sei un franchisor? Ci hai mai riflettuto?
Se il sogno imprenditoriale dei tuoi potenziali clienti è quello di avere un negozio, un ristorante, un bar, stando a contatto con il pubblico, vedendo quotidianamente i risultati del proprio operato, ma a casa propria non c’è nessuno che li aiuti a capire come fare, non è semplice.
Franchising come possibilità di mettersi in proprio…
Ho collaborato con una realtà che si occupa di aiutare i giovani a creare il proprio progetto di vita. Lì ti consigliano di metterti in contatto con qualcuno che diventi il tuo mentore. Facile? Difficile? Non così tanto come può sembrare, l’ho provato sulla mia pelle. Sta di fatto che la cosa migliore sarebbe poter provare, fare il vecchio lavoro del garzone di bottega. In realtà, molti ambiti hanno ancora questa dinamica, basti pensare ai parrucchieri, alle estetiste, ai muratori, ecc. In questi lavori è abbastanza comune cominciare da apprendisti (non solo contrattualmente, ma con il vero valore che il termine ha) e poi, raggiunta una certa indipendenza o una consolidata sicurezza (alle volte anche solo economica), aprire qualcosa in proprio. Se si è stati fortunati, in genere, si sono apprese non solo le tecniche del mestiere, ma anche capacità imprenditoriali come gestione dei conti, della comunicazione, delle vendite, ecc.
Lo so, non sempre è così. Idealmente lo era un tempo e dovrebbe esserlo ora.
Questo articolo lo scrivo dall’Irlanda, dove ci sono tante esperienze (experience = visite) nelle fabbriche delle birre e del whiskey. In ognuna di esse ti viene mostrata l’arte del bottaio: 7 o più anni di prove e riprove per smarcarsi dal maestro e poter lavorare in proprio (alle volte sposandone la figlia). Si chiama anche passaggio generazionale, e un tempo non veniva fatto solo coi propri figli.
OK, chiudiamo la parentesi “apprendistato”.
Cosa succede se qualcuno le caratteristiche per fare l’imprenditore non ce le ha? O meglio, se non si sente pronto? Personalmente credo fermamente che non si nasca qualcosa o qualcuno, ma che si sia in un divenire di mutazioni e cambiamenti che ci portano a costruire cosa siamo, in base a quello che desideriamo. Chiudiamo anche questa parentesi, altrimenti divento troppo filosofica.
Ho una mia teoria, dunque, non comprovata, spesso, ahimè, dai fatti, che se si ha quella spinta interiore a fare qualcosa di diverso e mettersi in proprio e non se ne ha il coraggio, ancora, il franchising sia un passaggio intermedio di aiuto. Uso il condizionale, d’obbligo, perché dopo aver studiato il sistema dei network franchising americani, qualche dubbio sull’impostazione di quelli italiani mi è venuto.
Ho avuto la fortuna di lavorare per un po’ di anni per un franchising che, per fortuna – dicevo -, ha un approccio formativo, di squadra, verso i propri franchisee, ma guardandomi intorno, quando ho scelto di fare da consulente per le aziende di questo settore, in particolare per quelle con una rete di filiali sul territorio, devo dire che sono rimasta basita.
Il Salone del Franchising e i fuffa – franchisor
Lo shock più grande mi è arrivato dal Salone del Franchising dello scorso anno.
Mi occupo di marketing per franchising da tanto tempo e ho raggiunto la consapevolezza che i franchising siano un mondo molto particolare, in cui si incrociano due livelli di comunicazione, branding e target. A spiegarlo fuori dall’Italia si tratta di ovvietà, ma qui da noi, per nulla, e in fiera ne ho avuto la dimostrazione.
Cosa ho fatto? Beh, come per ogni fiera che si rispetti, ho girato molto, raccolto brochure, fatto domande. Inizialmente avevo un approccio più commerciale, poi ho scelto di fare qualcosa di diverso: fingermi un potenziale franchisee.
Mi sono detta: e se mi mettessi nei panni del mio potenziale affiliato?
Mettersi nei panni del proprio cliente, analizzando il suo processo di acquisto, è una cosa che dovrebbero fare tutte le aziende
e che trovi spiegata molto bene nel libro che suggerisco a tutti gli imprenditori con cui mi confronto, scritto da due dei miei “mentori” (non me ne vogliano se li chiamo così), Manuel Faè e Alessandro sportelli (Il succo del Web Marketing).
Mettersi nei panni del proprio affiliato
Dunque, io sono un cliente esigente, o meglio ho una mia idea del cliente ideale del franchising. Giusta o sbagliata, dovendo percorrerne una, ho scelto questa: persona che si informa, legge, studia, approfondisce tecniche di vendita e di comunicazione e che ha questa spinta primordiale nella pancia verso la voglia di avere qualcosa di suo. Mi sono così approcciata ai vari stand per chiedere informazioni. Quando dicevo che avevo intenzione di aprire, tutti molto molto disponibili, ovviamente. Poi arrivava il momento di chiedere per la zona. Qui già cominciavano le prime falle del sistema: pochi mi sapevano dire se avrei avuto esclusiva o meno, alcuni me la garantivano a parole ma non mi assicuravano una formula scritta, altri mi dicevano che era così da contratto ma con clausola di modifica nel caso in cui il franchising si fosse espanso.
Quale bacino serve al tuo franchisee per aprire?
Prima nota quindi: quale bacino serve al tuo franchisee per aprire? Quale target dovrebbe raggiungere? In che zona si trova il target e come puoi fare per aiutarlo a capire se sia giusta o meno la zona che ti propone?
Io credo che questa sia una cosa basilare, no? Una delle idee che avevo, fin dall’inizio, sui franchising, è che dovrebbero aiutarti a fare una cosa ottimale per il business che vuoi aprire, che è anche sinonimo di protezione del proprio brand.
Avete mai visto cosa fanno le grandi catene di supermercati, per esempio? Guardate un po’ la pagina di Lidl, o spulciate i giornali, talvolta.
Se Lidl ha individuato un bacino ottimale per l’apertura di uno dei suoi store si attiva per cercare capannoni o aree edificabili per realizzarlo. Viceversa, altri Super o colossi del settore, valutano l’area e decidono se poi aprire. Guarda caso, in quelle aree poi ci nascono degli interessanti poli commerciali, buoni o cattivi per l’economia locale, che siano.
Insomma, dietro al reparto sviluppo di big brand come Lidl, Esselunga, McDonald e altri, ci sono servizi di ricerca delle aree, di studio del territorio, ecc.
Come si fa a capire se quella zona è ok o meno per dare l’ok all’apertura al proprio potenziale franchisee?
Beh, ci sono delle società di consulenza che fanno questi studi. Costano. Certo. Però, di fronte alle risposte vaghe e disomogenee degli imprenditori o commerciali incontrati al Salone del Franchising, che dire? Io credo che il gioco valga la candela.
Ad ogni modo, ogni tanto mi chiedo come si facesse un tempo, quando internet non aiutava. Ebbene, interpellando qualche commerciale con un paio di annetti di esperienza sulle spalle, ho scoperto che un tempo i costi di apertura di un franchising o di un supermercato erano ancora più elevati, se paragonati a quelli odierni.
Di fatto la persona che si occupava dello sviluppo andava fisicamente nella zona in cui si doveva aprire, la studiava, andava nelle biblioteche e negli archivi (questi sconosciuti) a documentarsi sul tessuto sociale ed economico di quel territorio, studiava la sezione economica dei giornali locali, con un occhio a qualche articolo interessante, se presente, a livello nazionale.
E poi chiedeva: si facevano dei sondaggi, per capire meglio quale fosse l’impatto di una nuova attività su quell’area, come fossero gli introiti di realtà simili nella zona, ecc.
Qualsiasi informazione era utile per stendere una relazione ineccepibile per la sede, con un verdetto finale: apriamo o no?
Oggi ci sono i software, le società di consulenza, alcune per altro, molto competenti. Ci sono anche gli archivi online, libri, giornali, notizie e, spesso, i quotidiani locali hanno un sito con molte news. Alla luce di questo si può dunque capire fin da subito se ci sia un tessuto interessante per muovere un’attività verso quel paese o quella zona? Io direi di sì.
I due target di un franchising
Alla base, però, c’è da tener conto del target. L’affiliato? No!
Il cliente dell’affiliato. Almeno principalmente.
I franchising, ma qualsiasi realtà con più sedi, hanno due anime: una rivolta a chi li aiuta a svilupparsi, gli affiliati, o soci, o franchisee; l’altra rivolta a chi aiuterà loro a campare, ovvero il cliente finale.
Senza cliente finale non sussisteranno i negozi, senza negozi che si sostengono anche il franchising morirà.
È così difficile da comprendere?
Franchisee e suo cliente: queste due anime possono essere spesso molto differenti e distanti.
Se, ad esempio, ho una catena di negozi per bimbi, non è detto che l’imprenditore che apre con me debba essere una mamma. Il mio cliente finale, invece, per lo più lo sarà. Certo, il canale mamme/bimbi è più facile, ma anche molto competitivo e saturo, direi.
Come si fa a capire il target di un negozio in franchising?
Si analizza, tutto.
In azienda spesso si detengono dati che nemmeno si immaginava di avere, o – se non ci sono – semplicemente si fa ricerca, una sana ricerca.
Se un brand che apre in franchising non si muove in questo senso, eticamente, ha qualche problema. Una delle ricerche online che ho incrociato spesso riguarda “causa contro franchising”. Non servono spiegazioni ulteriori – vero? – per capire che nel nostro paese ci sono più attività che aprono solo con l’intento mordi e fuggi (o piglia i soldi e scappa) che franchisor intenzionati a crescere, mantenersi, far davvero in modo che i propri franchisee aumentino i loro fatturati, raggiungano il break even e diano buon lustro al marchio che portano. Lo ha dimostrato la mia visita al salone.
La promozione di un affiliato sul territorio
In una fase successiva a quella di richiesta di apertura ho cercato di capire come si svolgesse la promozione sul territorio della nuova attività aperta. Purtroppo, ho ricevuto molte idee e poche strategie: chi mi diceva che fanno advertising, chi affermava che avrebbero dato in mano a un’agenzia, chi, con supponenza, mi rispondeva solo con “certo, il nostro reparto marketing fa promozione!”. Quando ho cercato di approfondire sul fatidico reparto marketing, sul tipo di promozione, o sulla strategia, nulla, il vuoto più assoluto. E questo capitava sia per le startup che per i franchising con qualche anno sulle spalle.
Certo, diversa sarà la situazione in cui i franchisor mettono degli investimenti nei negozi. Io in questo momento parlo di franchising con richiesta di investimento totale da parte dal potenziale imprenditore. Un tempo si parlava di win win… in questo tipo di affiliazione ne ho vista poca, di questa teoria, applicata.
Il fatto è che in Italia, ahimè, quando nascono delle imprese, si pensa sempre che la parte commerciale, di vendita, sia quella preponderante e che il responsabile commerciale, o addirittura il titolare, possano accollarsi la parte di marketing. In realtà, le due dovrebbero convivere e dovrebbero lavorare insieme per costruire un percorso che sia utile al commerciale per il suo lavoro (che dovrebbe essere sempre più “inbound” che a freddo, ma ne parleremo in una prossima intervista) e al capo per affermare il brand.
Che tu stia creando un franchising da zero o che ne abbia uno avviato, se non hai un reparto marketing che ti supporti a lavorare sui due canali di acquisizione dei tuoi clienti, qualcosa non sta funzionando,
a meno che il tuo intento non sia fare soldi subito, sulle spalle dei franchisee, di persone che hanno creduto alle tue parole e alle tue promesse pensando di potersi creare un’impresa con te. Io non lo so, ma a me verrebbe un pochino di mal di pancia a lavorare così.
La mission di un franchisor
Se hai ideato un brand e hai creduto che la diffusione in franchising fosse la strada da perseguire, in teoria dovresti volergli bene come a una figlia, che fai sposare con il miglior uomo possibile.
Io penso che questa sia una delle mission che un franchisor potrebbe far propria: capire che chi apre, forse, è una persona che ancora non ha il coraggio di spiccare il volo da sola e che, lavorandoci bene, possiamo darle le ali. Volerà via o tornerà al nido? Non importa, l’importante è che il brand ne risenta positivamente, che il lavoro svolto sia buono e possa attrarre altri franchisee.
Nel mio lavoro aiuto le imprese con più sedi a capire il loro target e a definire la giusta strategia per diffondersi, su entrambi i canali. Non è un lavoro facile, non è veloce, non è immediato. Se stai aprendo un franchising non si può creare entro domani. Se, però, ti interessa approfondire, puoi lasciarmi la tua email, così da ricevere i prossimi articoli che pubblicherò su questi argomenti: marketing e comunicazione per franchising e imprese con più sedi.
Grazie di aver letto fino a qui e se ti fa piacere, condividi l’articolo con chi pensi possa trovarlo utile.
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#Exp16 – Quando un franchising si mette in gioco
Experience è il nome che abbiamo dato, da tre anni a questa parte, al momento di incontro più importante dell’anno per i negozi dell’usato in franchising Mercatopoli e Baby Bazar. Experience, sì, perché si tratta di un percorso, di una vera esperienza, con attività di formazione, aggiornamento, condivisione. A maggio o giugno che sia, alla fine del percorso svoltosi durante l’anno con le riunioni zonali, i franchisee affiliati a Leotron vengono invitati a vivere il momento di aggiornamento più importante dell’anno.

Facebook Locations: novita’ dello strumento per reti di negozi e franchising
Esce oggi, dopo gli aggiornamenti di mercoledì scorso, una nuova comunicazione di Facebook in merito a uno strumento che da un paio di anni usiamo per i nostri negozi in franchising: Facebook Locations.
Mi sono proposta di fare una mia analisi, con i link agli articoli ufficiali di Facebook, le maggiori novità e qualche considerazione.
Innanzitutto, partiamo da mercoledì scorso. È uscito un aggiornamento sulla piattaforma Facebook for Business su Facebook Locations, lo strumento che raggruppa sotto una pagina padre le pagine “figlie” di un determinato brand.
Cos’è Facebook Locations?
Facebook Locations è uno strumento utile per franchising e reti di negozi e per tutte quelle strutture che hanno più sedi sul territorio. Due anni e mezzo fa, quando avemmo il primo contatto aziendale con Facebook, fu l’account di Facebook stesso a chiederci un file excel con l’elenco di tutti i nostri negozi per poterlo inserire sulla nostra pagina principale. Mercatopoli e Baby Bazar furono i primi in Italia ad avere a disposizione questo nuovo strumento, che di fatto andava a creare una nuova tab sulla pagina di brand, collegata con le pagine dei punti vendita sul territorio.
Il valore aggiunto di questo strumento, oltre all’identificazione del franchising e della rete di negozi, che andava ad implementare la riconoscibilità del marchio e la brand awareness, oltre alla credibilità di un marchio, è sicuramente lato mobile: collegandosi alla pagina “padre”, ossia quella del marchio, è possibile infatti vedere i punti vendita più vicini al punto in cui si è geolocalizzati.
Un bel vantaggio sia per i punti vendita che per l’utente. Ovviamente, ciò prevede che si sia fatta un’oculata strategia local per i punti vendita, che devono essere tutti dotati di una pagina dedicata (non è così scontato, neanche per brand che operano in franchising molto più grandi del nostro). Parlo di padri e figli non a caso. Quando il servizio nacque, infatti, il suo nome era “Facebook parent-child”, ad indicare la struttura ad albero pensata proprio per le reti di negozi.
Come si è evoluta la piattaforma Facebook parent-child?
Facebook non ha mai spinto questo strumento, che è rimasto apparentemente nei cassetti degli sviluppatori per mesi, prima di trovare un po’ di luce.
Lo hanno dimostrato la difficoltà di accesso alla piattaforma, a cui iscriversi non è poi così semplice (rimando per questo all’ancora valido articolo di Enrico Gualandi, che si è cimentato con il servizio lo scorso anno, oppure all’intervento “Il curioso caso di Facebook Local e Business Manager” che ho tenuto con Valentina Vellucci a Social Media Strategies lo scorso 14 ottobre, di cui è possibile acquistare le videoregistrazioni su GT Master Club).
Dicevamo: non è facile accedere. In effetti, Facebook, anche secondo le indiscrezioni di alcuni account che avevamo sentito, aveva messo il servizio in beta, senza ben sapere cosa farne. Oltre a quanto detto, lo dimostrava anche il fatto che Business Manager non fosse stato integrato con Locations (e ancora non lo è, in realtà). Quando abbiamo chiuso il nostro grey account per aprire il Business Manager di Leotron abbiamo sperato che ci fossero delle utili integrazioni, ma non sono arrivate, anzi, abbiamo anche riscontrato alcune difficoltà oggettive di sincronizzazione e aggiornamento che magari spiegherò in altra sede.
Qui apro una parentesi. Si chiama Google. Anzi, si chiama Google My Business. Anzi, la chiamo san Google My Business, ora.
Sì, perché il buon Mark, come lo chiamo io, per fortuna c’ha sempre qual sassolino nella scarpa che ha una bella G sopra e gli dà un botto fastidio. Diciamocelo: nonostante Plus, sui servizi ai clienti, agli inserzionisti e ai brand Google è sempre stato una spanna avanti a Facebook e Zuck ha seguito il corso implementando tool che si rifacevano a quelli di BigG.
Ha scopiazzato? Per fortuna, direi!
Soprattutto ora che Locations ha trovato una sua collocazione e pare sia stato legittimato! Sì, perché a me ‘sta cosa di averlo reso più utilizzabile e di averne fatto uscire degli articoli che spiegano ai business l’opportunità di averlo fa tanto “rincorsa a My Business”. Quindi, grazie Google!
Le recenti possibilità offerte da My Business per franchising e reti di negozi hanno dato lo svegliarino a Mark su quello strumento in beta che si era dimenticato nei cassetti? Ben venga!
Quali sono le novità del nuovo Facebook Locations?
Veniamo dunque a noi. Arriva l’aggiornamento su Facebook Locations dell’altro ieri. Cosa succede? Cosa ci spiega Facebook? In realtà nulla di nuovo, in quel primo articolo (che poi è chiaro, serviva per lanciare il secondo 😉 ). Vengo però a spiegarvelo meglio.
1. “With Facebook Locations, you can connect and manage all your stores on Facebook. Our free tool lets you quickly add new store Pages, edit information for existing stores, and manage your locations from one central spot.”
Facebook spiega cos’è Locations e cosa offre. E grazie eh! Dopo due anni e mezzo di utilizzo ci sembrava doveroso arrivare a dire di cosa si trattava (se per caso millemila blog non l’avessero già fatto…). Io mi immagino gli sviluppatori che si rendono conto di aver implementato lo strumento per le ADS (vi anticipo ciò che dirò dopo) e che dicono: “Ok, presentiamolo”. E mi immagino chi gestisce le news che dice: “Dove lo inseriamo? Nell’area dedicata a Facebook Locations?”… silenzio… “Ah, non l’abbiamo mai fatta?”
Ecco, questo mi immagino, perché mi sembra che Facebook sia un po’ un’azienda de noantri, vedendo le ultime implementazioni. E non mi dispiace, eh, fuor di polemica.
2. “Locations lets you list and manage all your stores on Facebook so everyone can find you in Facebook search, or when they land on your main business Page. This is especially important for people using their mobile phone to find information on the go.”
Anche in questo caso: grazie! Facebook Locations è particolarmente utile per l’utilizzo mobile. Non ce ne eravamo resi conto… 😉
3. “Changes and updates go quickly with Locations dashboard. One convenient spot lets you efficiently view and manage all of your stores.”
Gestisci le tue località in un solo posto. In questo caso, mi vien da dire “ni”. E’ pur vero che per inserire nuove pagine è possibile agire dall’applicazione Luoghi dell’area Strumenti (si chiama così nella versione italiana di Facebook, accessibile per chi ha attivato il servizio dagli strumenti della pagina brand). E’ altrettanto vero che la gestione dei Luoghi di Facebook ha qualche neo, specie se i negozi da associare hanno un nome proprio unito al brand, e non solo il nome del marchio sotto cui stanno. Su questo conto di fare un approfondimento a tempo debito… ovvero fra poche righe :).
Si aprono, alla fine della presentazione dello strumento, una serie di FAQ che lo spiegano meglio e, in realtà, mostrano alcuni aspetti dello stesso da non sottovalutare.
4. Facebook Locations si attiva su richiesta. Peccato che non ci sia un link per richiederlo. Non ancora, almeno.
5. La pagina padre può definire i loghi (immagini profilo) e le copertine con cui si presentano le pagine dei negozi o franchisee. Grazie a Dio, mantenendo una certa identità individuale, i negozi potranno però avere loro copertine e loghi individuali e personalizzati.
6. Qui veniamo all’aspetto per noi cruciale:
“[…] all of the location Pages connected to your main Page must have the same name. The default name for location Pages is the main Page’s name (e.g. Jasper’s Market), complemented by a location descriptor that tells people which store the Page refers to.
The location descriptor is “(City)” by default — or “(Address, City)” if there are multiple locations in the same city (e.g. Jasper’s Market (Dallas) or Jasper’s Market (510 Main St., Dallas)). If you have Admin permission for the main Page, you can edit the location descriptor from the Locations section of your Page’s Settings. Or, managers of the location Page can edit this field from the Page’s About section.”
Facebook vorrebbe che le pagine prendessero tutte il nome di brand e che l’identificazione locale derivasse dall’inserimento dell’indirizzo o della città fra parentesi tonde. Facebook ha deciso che questa cosa gli era così simpatica da aver agito di prepotenza, una ventina di giorni fa, di commutare automaticamente tutte le pagine di Mercatopoli e Baby Bazar all’interno di dei Luoghi di Facebook, senza preavviso e senza giustificazione. Non vi sto a dire quali santi siano scesi dal cielo in quell’occasione, specie dopo aver agito manualmente per sistemare (con notevole dispendi di tempo). Quello di cui non tiene conto Facebook, infatti, in questa occasione, è il fatto che alcuni franchising, come anche il nostro, identificano i loro punti vendita con un nome proprio, per diverse esigenze. Ne riporto alcune, per dovere di allineamento rispetto alle considerazioni su questo aspetto:
- Quando vi sono due negozi nella stessa città si associano delle diciture per distinguerli
- Quando si vuole connotare con precisione un quartiere dove insiste il negozio, per posizionarlo, si può associare quel quartiere
- Quando il negozio insiste su un’area industriale, si può scegliere di usare la dicitura che la rappresenta (es. aree di grossi centri commerciali)
- Quando un punto vendita si trova al confine fra più comuni si può scegliere di inserire nel nome il comune più noto anziché quello in cui si geolocalizza fisicamente.
Queste sono ovviamente politiche di brand, ma quanti di noi andando a un Road House di Bologna, per esempio, dicono “ci troviamo a quello di Stalingrado o andando al McDonald dicono “quello della ZAI”?
Quando i marchi in franchising penetrano il territorio non è semplice identificarli, se non si danno dei nomi agli store.
Oltretutto, se si gestisce un franchising come il nostro, che ha delle specifiche peculiarità locali, perché i gestori e i punti vendita sono uno differente dall’altro nella gestione e nel rapporto con la clientela, proprio per la singolarità dei prodotti che propongono, se un cliente si collega a un Mercatopoli o a un Baby Bazar piuttosto che a un altro non è propriamente la stessa cosa. Non sto dicendo che ne debba preferire uno piuttosto che l’altro nella stessa città, ma che è giusto che possa scegliere con quale interagire e con quale interfacciarsi, soprattutto su Facebook e se il punto vendita è stato educato a gestire i social in termini identificativi.
Ho aperto una parentesi che meriterebbe uno studio infinito. La lascio aperta, perché a mio avviso non finiranno le considerazioni in merito. La lascio aperta anche perché mi piace sperimentare… e quindi voglio vedere dove andremo ;).
Torniamo alle nostre novità.
7. Notifiche in un solo luogo. Anche questo lo sapevamo. Accedendo ai luoghi di Facebook dall’area strumenti della pagina di brand o del franchisor sarà possibile vedere tutte le notifiche delle pagine. Non male, sulla carta. Un po’ laborioso nelle attività quotidiane, specie da mobile. Ma siamo fiduciosi.
5 novembre 2015: nuovi aggiornamenti a facebook Locations per inserzionisti e community managers
E ora veniamo all’aggiornamento odierno. Oggi Facebook for Business ha fatto uscire un nuovo aggiornamento sulle Locations: Two New Tools to Improve Local Marketing.
Facebook annuncia che dopo il rilascio delle ADS per la local awarness (ads di prossimità), che noi stiamo tuttora testando, ha implementato le ads che il brand può collegare alle diverse pagine, andando a fare un’unica azione che si ricollega con le località collegate al brand. Apparentemente, secondo quanto dice Facebook, non solo si può scegliere di fare un’azione globale, a livello locale, dal brand, ma si può anche scegleire se questa azione sia fatta su determinati punti vendita e non su altri. Meraviglioso, direi! Oltre a questo, anche le statistiche sono state semplificate.
Questa la dichiarazione di Facebook:
“Businesses, no matter where they are and how many stores they have, now have better ways of connecting with the people around them.
Updates to local awareness ads are now available globally through the API and will soon be available in Power Editor. Local insights are rolling out to Pages in the US starting today and over the coming weeks.”
… Soon available in Power Editor, dunque! Grazie Mark, non vedevamo l’ora!
Dunque, concludendo, qualche considerazione sulle novità di Facebook Locations
- Nuove modalità di fare le campagne per franchising e reti di negozi
- Nuove possibilità di monitorare le attività svolte, l’andamento delle pagine, gli insights
- Il riconoscimento ufficiale delle Locations (anche se non c’è ancora il link ufficiale per richiederle)
Quando ti trovi a gestire 150 negozi collegati al tuo brand e stai mettendo in atto strategie di web marketing importanti su Facebook, queste sono bellissime notizie. Certo, ci sono alcuni aspetti da sistemare, come la gestione di Business Manager collegato alle locations e tutta la politica di tutela delle pagine brand.
Però un passo si è fatto, se non altro per togliere Facebook Locations/Luoghi da quel cassetto polveroso in cui era solo in beta e dargli finalmente la dignità che merita.
Sì, perché i Luoghi di Facebook sono innanzitutto una possibilità, specie quando sai che la gran parte del pubblico arriva da mobile.
Ora ci sarà da vedere se ciò sia correlato ai Bitcoins di Facebook, l’altro progetto in beta di cui i marketer parlano da qualche tempo, ma che pare si sia arenato un un altro cassetto. Con le vecchie parent-child e le opportunità offerte da Locations la mia mente ha iniziato a vedere galassie ancora inesplorate… ma
con Mark, si sa, meglio non aspettarsi niente, perché le sorprese sono all’ordine del giorno (e poi con l’erede in arrivo, si sa mai, se non lo fa dormire la notte chissà che ci propina…)
Grazie di essere arrivato a leggere le mie elucubrazioni fino a qui.
Buon lavoro a tutti con Locations. Scrivetemi, commentate, chiedete. Spero che questo articolo porti prima di tutto un utile confronto.