I trend di marketing del 2020? Francamente me ne infischio.
31.12.2019. Ultimo giorno dell’anno. E si chiude pure il primo ventennio del 2000. Accidenti, sembra ieri che parlavamo del Millennium Bug… 20 anni! Come direbbe uno dei miei miti “Domani è un altro giorno!”. E io, prima di domani, ho messo giù qualche riga di pensiero sul marketing e sui trend del 2020, visto che lo hanno fatto tutti. Premessa: al solito, non sarà un articolo corto.
1 gennaio 2020. Cosa succede nel mondo del marketing?
Ebbene sì, domani è proprio un altro giorno: il primo gennaio 2020. Inizia un nuovo anno e, come al solito, è il momento dei cliché:
- chi fa il resoconto dell’anno trascorso
- chi fa l’analisi di opportunità e miglioramenti
- chi si ripropone mille idee e progetti per il nuovo anno
- e chi… fa il mago con la sfera di cristallo, cercando di ipotizzare trend e novità che si vedranno nell’anno a venire
Nel marketing e nella comunicazione succede ogni anno, e ogni anno è abbastanza divertente vedere persone che, invocando il mago Thelma e tutti i santi del Paradiso, cercano di spararla più grossa su cosa accadrà. Mi ricordo – e se lo ricordano anche tanti miei colleghi – quando si disse “sarà l’anno dei video!”. Cavoli! Un video al giorno per ognuno dei nostri account e avremo davvero annoiato chiunque. Eppure, da allora, e forse son passati tre o quattro anni, si parla ancora di video. Beh, poi si parla di influencer, Instagram, micro influencer, Tik Tok marketing, big data, business intelligence, fidelizzazione, voice search e chi più ne ha più ne metta.
Dunque, dunque,… quale sarà il vero trend del 2020? Cosa ci dobbiamo aspettare dall’anno che verrà? Su cosa si dovrebbero concentrare le aziende che vogliono finalmente sfondare con l’azione di marketing giusta?
La risposta che mi è sorta spontanea, sia dopo aver letto il libro che dopo aver rivisto con mia mamma – è un must del periodo di Natale – il film, mi viene dal caro vecchio Rhett Butler del colossal Via Col Vento, una delle frasi forse più note del cinema:
quali saranno i trend del web marketing e del marketing del 2020
(sì, anche del marketing per franchising!)?
Francamente, me ne infischio!
Avete capito bene: Francamente me ne infischio dei trend del 2020. Perché?
Partiamo da un assunto, anzi due o tre:
- sono mode, e come tali, passano
- nessuno ha davvero la sfera di cristallo, anche se ci sono delle persone autorevoli che osservando il mercato possono comunque fare delle previsioni non infallibili
- non esiste una formula magica per il marketing delle aziende, né per quello delle attività locali, né per il B2B, né per i franchising o le strutture multisede
Riprendo questo ultimo punto proprio per lanciare un appello a tutti gli imprenditori e, se possibile, anche a tutti i colleghi che davvero vogliono fare bene questo lavoro, ovvero aiutare le aziende a crescere e migliorarsi attraverso azioni stategiche: non esiste una formula magica, non esiste un trend da inseguire su tutti e che funzioni più di altri se non si è prima fatta una buona analisi e una strategia. Punto.
Chiunque dica che il 2020 è l’anno di Tik Tok per cui la tua azienda dovrà fare azioni di marketing su questa piattaforma, mente. Chiunque affermi che il 2020 sarà l’anno della realtà aumentata, per cui in azienda dovrai chiamare l’esperto x per fare il prodotto y, mente. Chiunque ti dica che il tuo obiettivo è il risultato zero di Google – sì, ho letto anche questo – mente. Mente chi ti dice che ti devi giocare tutto sul voice search, che devi assolutamente creare il tuo canale di social commerce, che devi puntare tutto sui chat bot. Mente. Punto.
I trend del 2020 sono bufale
Perché chi parla di trend mente?
Attenzione! Non sostengo che non ci siano delle evoluzioni del mercato, delle tecnologie e delle possibilità di sviluppo di un piano marketing. Non sto affermando che non vi sia una rivoluzione in atto sul piano delle tecnologie che usano i sistemi vocali, la realtà aumentata e tutto quello che pian piano sta trasformando la realtà fisica in realtà virtuale. Quello che sta accadendo è sotto gli occhi di tutti. Il mondo digitale corre veloce ed è difficilissimo stare al passo coi tempi. Il fatto è che quando qualcuno afferma che i trend sono la chiave per il tuo successo, o che dovresti seguirli per fare la differenza sui competitor, sta dicendo il falso.
Perché ti dovresti infischiare dei trend del 2020?
Parto da un assunto di Alessandro Sportelli, mio “maestro” e – con Manuel Faé – ideatore del progetto Connection Manager, di cui faccio parte:
il marketing è una scienza, non un’accozzaglia di strumenti.
Anzi, rimodulando sul finire del 2019 potremo dire:
il marketing è una scienza, non un’accozzaglia di trend.
Ecco quello di cui dovresti tenere conto se hai un’azienda, piccola o grande che sia, e che non dovresti mai dimenticare:
- Un singolo strumento o una singola impostazione non sono la chiave del successo, perché sarebbe come dire che mettendo il motore della Ferrari nella Peugeot della mia amica che guida da pochi mesi, può andare a correre al Gran Premio di Montecarlo. Forse ci arriva a piedi, forse!
- Se non hai chiaro come i tuoi clienti comprano da te o come vorrebbero comprare, non potrai mai sapere in che modo uno strumento o una tecnologia possono andare a inserirsi nel loro processo di acquisto per velocizzarlo o incrementare le vendite. Per saperlo devi fare un’analisi e, possibilmente, indagare cosa fanno i tuoi clienti, anche chiedendoglielo, se necessario.
- Le mode passano, la strategia resta. Ogni anno ci saranno nuovi strumenti, nuove tecnologie e nuovi trend. Vuoi davvero che la tua azienda li segua tutti e ogni 31 dicembre si metta a cavalcare l’ipotetica tigre del vincitore? E se poi quella tigre prende in groppa tutti, che fai? Continui a cambiarla? Non è sostenibile, specie se fai parte della categoria delle piccole e medie imprese italiane, che a oggi, ancora, fanno questo Paese.
- Le mode costano. Cambiare costa. Se hai un budget di marketing, ancorché tu sia stato in grado di definirlo (tante aziende ancora non lo fanno), investi saggiamente e non buttare tutte le tue risorse nei trend. Mi ricordo ancora quando – e pure nel 2020 se ne parlerà – si diceva di puntare tutto sugli Influencer. In una riunione sentii un imprenditore dire che voleva investire il 70% del suo budget su due singoli influencer, per altro con profili sporcati dai bot. Ma stiamo scherzando? Spero che non serva una spiegazione per definire che questa è una follia!
- Le azioni di marketing non vanno mai viste da sole, i risultati che porta un singolo canale non potranno mai essere attribuiti con certezza solo a quel canale, a meno che tu non abbia mai fatto alcunché e sia rimasto in una sfera di cristallo fino all’investimento su quel canale. Voglio dire: il marketing è una sfera di azioni che si intersecano e incastrano, che lavorano insieme per portare a un obiettivo, solo e unico: vendere di più. Se punti a un solo canale o a una sola tecnologia, pensando che lì ci sia tutto, stai facendo tattica, non strategia, potresti vincere la battaglia, lasciando sul campo le tue migliori risorse, ma come la mettiamo con la guerra?
- Gli articoli che segnalano i trend del 2020 sono, così come questo che leggi, dei cliché. Si fanno per guadagnare posizioni su Google, per far condividere i link al proprio sito, per ammaliare potenziali nuovi clienti facendo credere che si abbia l’autorevolezza per dire che l’anno che verrà funzionerà così. Perché, diciamolo, se qualcuno si arroga il diritto di dirlo, beh, significa che è autorevole per farlo, no?
- Sette è il numero perfetto. La perfezione non esiste, ma possiamo cercare di lavorare sempre per raggiungerla, no? Se vuoi raggiungerla nel tuo settore, che sia esso franchising, multisede, local, B2C, B2B, il marketing è un processo strategico. Se hai una strategia chiara, non hai bisogno di trend, ma li userai a tuo buon pro solo se possono aver senso, testandoli, valutandone i risultati, capendo se fanno al caso tuo e decidendo se il gioco (l’investimento) vale la candela (il risultato).
Quindi? Nessun consiglio o trend per il 2020? Nemmeno per il marketing per i franchising?
Io ho tanti auguri da fare, ma non sono nessuno e non mi paragonerei mai a chi è davvero autorevole. Però, visto che ormai sono quasi 15 anni che mi occupo di vendita, marketing e comunicazione, in particolare per catene, multistore e franchising, ho una speranza, anzi, più di qualcuna. Prendetelo come un consiglio, o un augurio.
Un tempo qualcuno mi disse che un’azione che facciamo non deve per forza scatenare un maremoto, ma basta che sposti una goccia nel mare per poter innescare un cambiamento.
E io mi auguro che ci sia davvero un cambiamento nel mondo del marketing. Un cambiamento che si infischi dei trend e volga gli occhi alla strategia, finalmente. Ecco dunque cosa mi auguro per questo 2020, sperando che continui nel 2021, nel 2022 e, possibilmente, per sempre:
- più analisi di mercato e aziendale e meno improvvisazione. Audit interne ed esterne, riflessioni sul nostro cliente, sul nostro prodotto e una chiara consapevolezza di come i clienti acquistano da noi
- più strategia e meno strumenti. Un piano di marketing che coinvolga gli strumenti ma non si focalizzi solo su quelli. Un piano che sappia spostarsi anche sui trend se necessario, ma sono quando sia trasparente e lampante come questi trend si inseriscono nella strategia, quali asset spostano, quali leve muovono e come possono incidere sul risultato finale.
- più strategia e meno tattica. Gli strumenti del marketing suonano all’unisono per creare una melodia, non cantano in modo singolo. Ogni azione è concatenata. Chiunque vi dica che vi ha portato tot lead con tot investimento, prendetelo con le pinze. Chi vi dice che quei lead non siano stati smossi a monte da altre azioni, anche di mesi o anni prima? Il marketing e il processo decisionale dei clienti tra scegliervi e non scegliervi, sono percorsi, non singoli input che generano per forza un automatico output.
- più processo di acquisto e meno processo di vendita. Vorremo tutti che le persone acquistassero da noi come vogliamo noi. Non funziona così. Il processo di acquisto, come insegna il corso WMI, è determinato da tanti fattori ed essi caratterizzano un tempo e un processo decisionale che non possiamo definire a tavolino: va analizzato!
- basta pensare che il marketing online e offline siano due cose distinte. Il marketing è uno! Se non ne sei ancora convinto, osserva come i big player del mondo tech stanno usando i canali offline: carta stampata, TV, card, sono entrati di peso nelle loro azioni di marketing. Il marketing, in qualsiasi settore, è uno solo!
- influencer, ambassador, evagelist. Basta! Non è tra le braccia di una bella donna in reggiseno e perizoma che il tuo prodotto troverà il successo! Certo, ci sono anche influencer seri, eh, ma costano, e costano cari, e prima di pensare a un piano di influencer marketing con i super mega personaggi che vedi su Instagram, concentrati sui tuoi clienti. Hai mai pensato che i tuoi clienti, in realtà, siano dei micro influencer? I tuoi clienti parlano di te, anche senza che tu lo sappia. E se lavorassi con loro invece che con chi non ha mai provato il tuo prodotto?
- dati, raccogliamo i dati! E trattiamoli bene, se possibile. I dati dei clienti e di quello che comprano sono fondamentali per comprendere cosa funziona e come possiamo arrivare anche ad altri clienti. Oggi, per fortuna, esistono molti sistemi di business intelligence per analizzare e visualizzare i dati e il mio collega Fabio Piccigallo ha anche scritto un bellissimo volume sul Data Storytelling per far comprendere come rappresentare e leggere questi dati per creare il giusto piano di marketing, verificato attraverso i numeri. Marketing data driven, lo chiamano. Chiamalo come ritieni più opportuno, ma prima di affermare che una cosa non funziona o un’azione non porta risultati, analizza e dimostra!
- brand. Ama il tuo brand, proteggilo, fallo crescere, analizzalo. Il brand fa la differenza in qualsiasi piano di marketing. Spesso un’azione non funziona perché non c’è il brand. Cosa significa? Che nessuno ti conosce, sa chi sei, sa cosa fai o ha in mente una parola chiave che ti descrive, o l’inverso. Essere un punto di riferimento per la propria nicchia o per il proprio mercato sembra la banalità delle banalità, ma è qualcosa su cui, ogni giorno, nelle attività di consulenza che facciamo con Franchising Strategy e con altri colleghi, c’è ancora tanto da fare. Brand! Ricordatelo, lavoraci, fallo bene.
- non lasciarti affascinare dai guru. I guru non esistono. Nessuno ha la bacchetta magica. Qui entro in qualcosa di più filosofico e meno simpatico ai più, ma mi chiedo quanto, dietro la ricerca della parola magica del guru di turno, ci sia in realtà un bisogno di trovare all’esterno risposte che in realtà abbiamo dentro di noi (senza facili citazioni ironiche). L’azienda non funziona, il prodotto non va, le azioni di marketing che facciamo non stanno sortendo i risultati sperati: siamo sicuri che non dipenda da noi? Quanto spesso vedo che se un’azione non funziona è perché non ci si è posti la domanda su chi ci conosce, se siamo un brand o meno, se nel processo di acquisto vi sia il bisogno di una fase informativa prima di giungere a quella commerciale.
- il marketing non è creativo. Il marketing esiste, se pur sembri effimero e intangibile, all’inizio. E il marketing è fatto di strategia, non di stereotipi. Se corretta, la strategia di marketing deve partire da un’analisi proprio per consentire al professionista, che sa che ogni azienda è differente, di lavorare con te secondo quello che è la tua storia, le tue dinamiche, la tua impostazione, non quella che si è immaginata lui. Io uso spesso l’analisi SWOT e strumenti di analisi interna che coinvolgano l’azienda, anche su più reparti, ma questa è un’altra storia, perché io penso che qualsiasi azione di marketing vada contestualizzata e ne vadano capiti i perché e credo che quei perché risiedano spesso nel vivere l’azienda, dentro e fuori.
In sostanza,
ogni azienda è un progetto unico e meraviglioso che non ha nulla a che vedere con le mode. La chiave è il progetto.
Se ci sono un progetto solido, un’analisi strutturata e la consapevolezza delle fasi del processo d’acquisto, noi siamo il direttore d’orchestra che decide se far entrare un nuovo elemento, ma solo quando migliora la melodia.
E per i franchising?
Ho parlato di marketing in generale, senza addentrarmi nei trend del nuovo anno per i franchising, come feci qualche tempo fa, ormai. In realtà, anche per le strutture in rete e il marketing per franchising, più che di trend, preferirei parlare di auguri. Gli auguri che mi faccio sono legati al metodo di marketing di Franchising Strategy, che si basa su tre livelli strategici: B2B, B2C, interno. Mi auguro quindi, davvero:
- franchising capaci di analizzare i clienti e scegliere i franchisee che vogliono, non quelli che alimentano il portafogli e basta. Meno opportunity seeker, più affiliati in linea con i valori della casa madre
- franchisor che supportino i franchisee con una strategia locale seria, operando quasi da agenzia di comunicazione per i propri partner. Il franchisor che ha strutturato una buona strategia di marketing ha la competenza e la responsabilità di guidare i propri franchisee, che lo hanno scelto – in teoria – anche per questo
- case madri che sappiano muoversi come aziende eticamente impegnate nella strutturazione di piani di marketing interno che facciano squadra tra sede e sedi. Ritengo fondamentale gestire piani di formazione, gruppi di lavoro, momenti di confronto e condivisione per la crescita. Se un imprenditore ha scelto di affiliarsi, non è perché vuole fare l’one man band, o almeno non dovrebbe essere così. Lo si fa perché si apprezza il lavoro di squadra e se ne riconosce il potenziale.
Franchising, B2B, B2C, qualsiasi tipo di azienda, in ogni dove, anche se non ha mai fatto marketing, ha una sua visione e strategia. Non si tratta di avere un account su Instagram o Facebook, di scegliere di fare un social commerce o di avere il blog meglio posizionato per una determinata parola chiave. Non ci sono trend da seguire. C’è tanto buon senso. C’è tanto coraggio. C’è bisogno di tornare a quello che è il marketing fuori dalle chimere. Torniamo a studiare Kotler, Drucker, avviciniamoci a Ferrandina e Al Ries, a Jack Trout; torniamo a confrontarci e a mettere in discussione ogni cosa che facciamo attraverso i numeri.
In fondo, il vero trend del marketing del 2020, è che nessuno ha inventato l’acqua calda, ma nonostante gli strumenti cambino, il digital sia veloce e siamo bersagliati dalle informazioni, le persone e le aziende comprano e le aziende vendono. Da sempre. Come lo fanno, in quanto tempo, attraverso quali leve, è tutto ciò che dobbiamo sapere per muovere quelle giuste anche -volendo – quelle più di moda.
Di tutto il resto, me ne infischio.
Buon Anno di marketing strategico.
E tu cosa ne pensi dei trend del 2020?
Se ti va, commenta, o scrivimi.
Recensioni, come gestirle? Ne parliamo a Expo Franchising Napoli
Sabato 18 maggio, presso ExpoFranchising Napoli, alla Fiera d’Oltremare, parleremo di recensioni e di come gestirle, sia lato franchisor che franchisee, alle 13.30, sala Tirreno, pad. 6.
Le recensioni sono uno dei cardini della reputazione di un’attività, un’azienda o un prodotto nell’era di internet. Sono importantissime, così importanti da cambiare la percezione di un brand e consentire di aumentare esponenzialmente le vendite, se esposte nella corretta maniera (nel settore del lusso si parla di un incremento del 370% delle vendite quando vengono mostrate le recensioni). Sono ancora più importanti se pensiamo al mondo dello sviluppo in franchising, sia per quanto riguarda i franchisor che per i franchisee.
Gli utenti, di qualsiasi tipo, si sono abituati a farle, complice Tripadvisor che per primo le ha innescate. Non sono da meno, tanto da aver superato talvolta Tripadvisor, anche quelle di Google e Facebook. E non ci sono solo questi canali.
Le recensioni sono ovunque.
Si trovano recensioni sui marketplace, sui social media, nei comparatori di prezzi e sulle piattaforme di food delivery. Sono ovunque. Sono il passaparola dei tempi moderni.
L’italiano medio, ahinoi, tende a lasciarle più volentieri negative che positive, quasi che aver vissuto un’esperienza soddisfacente o superlativa non meriti di essere segnalata.
Come mai dunque si lasciano più recensioni negative che positive? In realtà il fatto è da ricondurre piuttosto alla pigrizia degli esercenti e delle aziende, che hanno il timore di chiedere le recensioni sia ai clienti fidelizzati che a quelli soddisfatti. In questo modo si attirano ovviamente i feedback di chi ha vissuto un’esperienza poco illuminante, che risentitosi di quanto ricevuto, vuole dirlo al mondo, come in una forma di vendetta.
Sì, perché le recensioni sono un’arma, sono un potente mitragliatore nelle mani degli utenti che non si rendono quasi mai conto delle conseguenze delle loro azioni.
Le recensioni negative, infatti, fanno male. Fanno male a tal punto che in alcuni casi si sono viste abbassare le saracinesche di negozi e ristoranti. Tutta colpa di Tripadvisor? In realtà ci sarebbe da fare una lunga analisi, esercizio per esercizio. In linea di massima, essendo l’utente libero di lasciarle, volenti o nolenti, siamo chiamati a gestirle. Farlo non è facile ma ci sono alcune cose pratiche che possiamo fare prima e dopo e, ad ogni modo, possiamo farne tesoro.
Il vero fatto dietro alle recensioni è che non vengono mai viste come un’opportunità. Ebbene, lo sono.
- Consentono di far crescere la reputazione della nostra azienda
- Consentono di mostrare chi siamo e raccontarlo
- Consentono di ricevere spunti e critiche per migliorarci e crescere
Ogni persona che ci scrive ha scelto di fatto di investire del tempo per farlo. Scegliere questo significa voler levare la propria voce per farsi ascoltare. Nel caso di una recensione negativa il bisogno di ascolto è altissimo. Non solo, chi legge quella recensione si fa un’idea diversa della nostra attività in base alla risposta che diamo e se la diamo.
Scegliere di non rispondere è un diritto, certo, ma dobbiamo essere consapevoli delle conseguenze e di quello che potremo perderci. Capire come rispondere alle recensioni non è d’altro canto cosa semplice. Mentre nella comunicazione verbale ci sono tutti i capisaldi della comunicazione, con gli elementi verbali, paraverbali e non verbali, dobbiamo sempre ricordare che due di questi mancano nella comunicazione scritta.
Inoltre, mettersi nei panni dell’utente e cercare di comprendere i suoi bisogni è un’attività che richiede pazienza ed esperienza. Pazienza, innanzitutto, perché come imprenditori rischiamo di pensare che ci stiano attaccando personalmente, reagendo di conseguenza. Le recensioni non vengono mai fatte a noi, ma all’azienda che si è mostrata tramite noi. Pazienza, dunque, e distacco. La prima cosa da mettere in atto per gestire le recensioni è proprio il distacco.
Fatto questo, serve analisi. Un’analisi della situazione, delle parole dell’utente e dei fatti accaduti è la chiave per gestire le recensioni al meglio. E poi rispondere. Rispondere bene. C’è chi mi chiede se si debbano usare risposte lunghe o sintetiche. Dipende. La risposta è sempre: dipende. Ci sono casi in cui è meglio essere brevi, altri in cui serve tirar fuori la propria storia o i punti di forza che ci vengono riconosciuti.
Come funziona per i franchising?
Nel caso di un franchising le recensioni possono riguardare il brand ma si possono anche rivolgere ai punti vendita che lo distribuiscono sul territorio. Un numero di recensioni frammentate, dunque. Se abbiamo aperto un franchising dovremo tenerne conto. E dovremo insegnare ai nostri franchisee come comportarsi e come gestirle, definendo una linea guida centralizzata e univoca, coerente con la mission e il tono di voce. Non è cosa semplice, ma non è nemmeno impossibile.
Expo Franchising Napoli è l’occasione per parlare anche di questi aspetti del marketing per franchising: le recensioni e come gestirle, sia lato franchisor che lato franchisee.
Ti aspettiamo in Sala Tirreno, al padiglione 6, sabato 18 maggio alle ore 13.30.
Vuoi ricevere il manuale con i consigli per rispondere alle recensioni? Compila il form scrivendo nel messaggio “ExpoFranchisingNapoli”!
Franchising di successo, come si crea?
Aprire un franchising, gestire quello esistente. Un franchising di successo non è cosa facile da costruire, e la chiave è sempre partire dalle basi giuste. Nel web spopolano articoli di vario genere su come si apre un franchising. Sono testi anche ben strutturati, con spunti utilissimi, ma che mancano spesso, a mio avviso – a parte in alcuni rari casi – di due parti concrete che l’imprenditore che si avvia verso questo percorso dovrebbe tenere in conto:
- Da imprenditore a manager. Chi vuole aprire un franchising solitamente ha sviluppato un format vincente e ci ha messo anima e corpo. Bene, se l’imprenditore vuole sviluppare in franchising, meglio che capisca da subito che il corpo starà fuori dal negozio principale, dalla sede pilota in cui ha versato tutto il suo sudore. Si deve trasformare in un manager. Non è da tutti, si sa, e si vede in moltissimi format che, già nel breve termine, non hanno saputo svilupparsi alla stregua del sogno dell’imprenditore.
- La struttura interna, sia per lo sviluppo del brand, che per quello dei franchisee. Ho già avuto modo di trattare l’argomento dei diversi target dei franchising, parlando di franchisee e di cliente finale. Ma come si deve comportare il franchisor se vuole fare bene nei confronti degli uni e degli altri?
Franchisor: da imprenditore a manager
Hai un format che funziona, lo sviluppi da anni, ci metti anima, passione e tutto l’impegno che hai. Crei una macchina perfetta, almeno ai tuoi occhi, e te lo dimostrano anche i numeri. Inoltre, chi frequenta la tua attività ti dice che di posti come il tuo dovrebbero essercene altri. Magari – dico magari – qualcuno ti consiglia il film di McDonald’s, che ti dà lo spunto per dire: perché no? E allora si accende la lampadina e pensi allo sviluppo, cominci a informarti dal commercialista, leggi articoli, magari ti imbatti in una società di consulenza. Improvvisamente, il mal di pancia che avevi e ti portava a pensare che meritavi di più, si scioglie: aprire in franchising, avere altri punti vendita come il mio! Bellissimo, chi non sogna di diventare sempre più grande, conosciuto, noto e… diffuso?
Torniamo però con i piedi per terra. Cominciamo dal tuo commercialista: se non è un esperto di franchising, lascia perdere.
Il franchising non è pane per tutti e il rischio di fare errori è elevatissimo.
Non entro qui nel merito, ma è così. Chiedi quindi al tuo commercialista se ha mai gestito strutture in rete e com’è andata, fatti dare degli esempi e se non ce ne sono, affidati a qualcuno che ne abbia.
Ammettiamo anche che il commercialista sia bravo o che tu abbia trovato una persona giusta. Ora? La prima sfida che ho visto, è con te. Ti sei rimboccato le maniche nella tua attività e se ti vuoi espandere devi prima lavorare su di te. Non sarai più operativo, se apri in franchising, o almeno non come lo intendevi fino a prima di decidere di aprire. Diventerai un manager. Gestirai un team, lo sviluppo del brand, gli affiliati e, all’inizio, forse, anche le selezioni e i controlli. Attenzione! Diventare un leader che sappia fare il proprio lavoro non è da tutti. Formati da subito, studia, frequenta dei corsi che ti possano aiutare. Ci sarà un grande cambiamento nella tua vita, specie se le cose andranno bene. Cominciare da subito è fondamentale.
Vedo, ahimè, poco lavoro di questo tipo alla base dei lanci dei franchising e lo ritengo importantissimo. Nel tempo, per quanto tu sia affezionato al primo negozio/punto vendita che hai aperto, capirai che non puoi gestire il franchising stando anche a capo di quella sede.
Struttura di un franchising: come si fa?
Un franchising è fatto di tanto lavoro, stress, sviluppo. Ho visto pochi articoli che affrontano il tema della struttura di un franchising e dei suoi costi, come se bastasse mettere un annuncio di ricerca affiliati e le cose potessero andare per conto loro. Non è così.
Il franchisor deve sapere da subito che gli serviranno persone e che si dovrà creare uno staff.
All’inizio sarà ovviamente piccolo, ma un altro tema da affrontare sono le prospettive di crescita: più si cresce più si avrà bisogno di personale e di collaborazioni per gestire tutto al meglio.
Franchising: gli obiettivi
Che obiettivi ti sei dato? Che obiettivi vuoi raggiungere con la tua rete nel breve, medio e lungo periodo? Ovviamente, se rispetto a quanto detto sopra ti sarai circondati dei giusti professionisti, avrai un commercialista o un consulente che ti faranno un ottimo business plan, in cui vedrai anche i costi del personale. Ahimè quando si parla di franchising online, pochi parlano di costi del personale per aprire. Ho trovato un articolo di Mirco Comparini che tratta l’argomento mostrando delle tabelle per il piano economico di un franchising e devo dire che è la cosa, in questo momento, più utile.
Non entro nel dettaglio del piano economico o di sfere che non mi competono, ma se penso al reparto marketing di un franchising ho due convinzioni, maturate in questi anni di lavoro:
- Delegare tutto all’esterno è un male
- Il reparto marketing ci deve essere dall’inizio
Sì, certo, il personale costa e non è semplice, sono d’accordo, ma si può partire con una struttura ibrida, per poi arrivare a regime e si può farlo senza problemi. Pensarci da subito è fondamentale. Lo è non solo perché i network hanno bisogno di piani strategici e di analisi dei processi di acquisto. No, in realtà lo è molto di più perché fin da subito c’è un tipo di comunicazione che è fondamentale in rete: la comunicazione o marketing interni. Una delle più grandi responsabilità di chi fa marketing per i franchising è infatti saper gestire al meglio la rete che si andrà a costruire, con servizi, proposte, supporto.
Dal canto mio dico sempre che i franchising, lato marketing, sono delle piccole agenzie di comunicazione per i loro affiliati. E così dovrebbe essere. Esternalizzare tutta questa parte senza riferimenti interni è rischiosissimo. All’inizio, quindi, formati, comprendi, cerca di avere tutte le informazioni che ti servono.
Marketing per franchising, cosa dovremmo fare
Il reparto marketing o il consulente (che, come detto prima ha il ruolo di guidare il manager nella costruzione del reparto) devono saper fare tante cose, in primis analisi. Specie nelle prime fasi di avvio, va studiato bene come leggere i dati, come tradurli in azioni, come costruire e confermare il processo di acquisto da cui derivano le attività che faremo sui diversi canali che sceglieremo. In seguito, va compreso come gestire la lettura dei risultati che queste azioni ci portano.
Il reparto marketing di un network non ha solo questo ruolo. Deve costruire strategie di comunicazione che si rivolgano all’interno, agli affiliati, alla gestione della loro comunicazione e del loro benessere nel brand.
L’obiettivo di ogni franchisor dovrebbe essere la felicità dei propri franchisee, il loro benessere e il loro successo.
Certo, ciò presuppone che sappia selezionare gli affiliati giusti. Non è da tutti. Forse è la cosa più difficile, effettivamente, e non è questo il luogo per approfondire questo aspetto.
Affiliati, cosa si aspettano?
Un affiliato di un franchising rischia di sedersi sugli allori e pensare di essere passato da una forma di lavoro dipendente a un’altra (o lo fa almeno fino a che non incontra per la prima volta il commercialista :P). L’affiliato è parte integrante del franchising e diviene uno “di famiglia”. Quali servizi dunque si aspetta? Oltre a quanto detto in termini di risorse umane, il franchisee si potrebbe aspettare altro e ci sono davvero tante possibilità che una struttura in rete può offrire e costituire. Vediamone alcune:
- Gruppi di acquisto. L’unione fa la forza e, inoltre, fa il prezzo giusto. Se il franchising viene visto come una squadra, quella squadra può avere dei vantaggi nel comprare attrezzature e forniture che siano utili al suo miglioramento, anche economico. Ho intercettato franchising che hanno lavorato bene su questo, non solo fermandosi agli arredi e al materiale, ma andando a toccare anche – per esempio – le bollette della luce. Un franchising con cui ho collaborato ha lavorato tanto per l’abbattimento della tassa rifiuti, o per la gestione di corsi obbligatori come quello sulla sicurezza.
- Formazione. Dalla formazione alla vendita, alla gestione, il franchisee dovrebbe diventare l’imprenditore dei nostri sogni, quello che ci siamo immaginati a portare avanti il nostro marchio. Come possiamo pretendere di ottenere un risultato simile se non lo formiamo?
- Affitto/Location. Il franchisor può prodigarsi anche in questo, o offrire un giusto servizio, avendo il coraggio di scartare luoghi che non vanno bene ma anche di dare gli strumenti per trattare un contratto di affitto della sede locale.
- Benefit. Ce ne sono tanti che si potrebbero ottenere e, ammesso che si desideri che l’affiliato rimanga con noi il più a lungo possibile, offrirgli strumenti per il benessere di oggi, ma anche quello di domani, è la chiave. Mi viene in mente, per esempio, fare informazione sulla gestione del personale, sugli obiettivi, ma anche – semplicemente – trovare una forma di previdenza integrativa che funzioni.
Condividere, fare squadra, ottenere gli obiettivi prefissati. Nel mondo del franchising è fonte di stimolo e di miglioramento, se si tratta nella giusta maniera. Come fare? Io parto dalla mission e dalla vision, ma soprattutto dai valori. Mi capita talvolta di chiedere ai clienti come sognano che sia il network di qui a 5 o 10 anni. Chiedo che lo facciano con dovizia di particolari e li spingo a valorizzare e visualizzare ogni aspetto del loro business. Non è facile, ma mette in moto consapevolezze fondamentali per decidere come muoversi, quali servizi offrire e, quindi, come poter comunicare.
Franchising 2018: trend, prospettive, sfide per il nuovo anno
Il 2017 se ne va e come accade spesso è ora di fare i bilanci del vecchio anno con un occhio puntato ai franchising.
Si parla di franchising 4.0, nuove possibilità, sfide da vincere e su cui rimettersi in gioco per un mondo, quello dell’affiliazione commerciale, che da quasi 50 anni dice la sua sul mercato.
I franchising nel 2017
Sono pochi gli studi che portano alla luce i veri numeri, se non quelli emersi durante il Salone del Franchising di Milano e qualche analisi di AssoFranchising. Il settore è in crescita.
Se guardiamo i dati degli scorsi anni, negli studi proprio dell’associazione nazionale, la crescita del settore si dimostra ancora più interessante.
- Nel 1989 (primo anno di cui si trovano notizie) in Italia avevamo 210 franchisor, con 1091 franchisee e una media di 43 affiliati per brand.
- Nel 2003 in Italia c’erano 628 imprese affilianti, con 41000 affiliati e una media di franchisee per ogni casa madre di 63.
- Nel 2016 siamo saliti a 950 imprese, con 50700 punti vendita.
- In Italia le imprese straniere che investono sono circa 60, mentre i brand italiani che si sono espansi anche all’estero sono 169.
- Durante la fiera di Milano è emerso che nel 2018 si prospetta che il mercato tocchi i 1000 brand affilianti, con una copertura del 7% della distribuzione e 51000 negozi attivi.
- Anche il Sole 24 ore, a ottobre scorso, ha dichiarato che il franchising è un settore in salute, con un giro d’affari di 24 miliardi di euro.
L’indotto dà lavoro a più di 160.000 persone, e Andrea Renazzi, nell’intervista ad Alessandro Ravecca, presidente FederFranchising, l’altra associazione nazionale del settore, ha riportato recentemente, in un articolo per Retail&Food (dicembre 2017), che l’affiliazione può rilanciare il ruolo dell’impresa nei territori, specie laddove si generano momenti di incontro tra le amministrazioni locali e i franchisor per lo sviluppo dei centri storici.
Tutto vero? Tante prospettive positive e tante possibilità ci sono davvero? Da quando seguo il settore, e oramai sono una decina di anni, ho notato che non è tutto oro quel che luccica – ovunque in realtà – ma soprattutto in un mondo che in Italia qualche falla ce l’ha ancora.
Franchising nel 2018
Ho provato a chiedere un po’ di opinioni in giro, tra franchisor, franchisee e chi si interfaccia con loro.
Mentre Aprire in Franchising parla dei nuovi trend e delle attività da aprire, Info Franchising gli si accoda spiegando anche perché valga la pena scegliere la forma dell’affiliazione per mettersi in proprio e AssoFranchising annuncia l’annuario 2018 con tutte le 1000 aziende attive in Italia; anche all’estero si parla di prospettive e nuovi trend e l’Entrepreneur, sempre molto attento al settore e ai suoi sviluppi, ha analizzato le over top 10 franchise categories 2018 e in altri ambiti si parla di quali siano le migliori fiere del franchising per espandersi al’estero.
Aperture, sviluppo, nuovi punti vendita, nuovi rami e nuovi distaccamenti, export, specie nei paesi asiatici. E poi ancora perché aprire e dove conviene, più i soliti temi che attanagliano le discussioni da tempi immemori: contratti e manuale operativo, ma in primis se la legge sia davvero adeguata al settore.
Sono tante le domande che si leggono online, davvero tante. Corrispondono a quelle che franchisee e franchisor si pongono quotidianamente?
Sono percezioni o realisticamente dicono e raccontano i mal di pancia di chi si sta davvero mettendo in gioco e di chi sta aiutando gli imprenditori a farlo?
Ogni volta che sfoglio un magazine del settore me lo chiedo per davvero: vedo tanti marchi promuoversi, comprare spazi, mettere in campo promesse, e quello che mi piace analizzare, e non sempre emerge facilmente, è se si tratti per davvero di brand in cui valga la pena investire.
C’è da dire che la tematica è delicata, non fosse altro per un dato: la ricerca di franchising e affiliazioni low cost è in aumento. Si tratta di franchising apribili con investimenti dai 15 ai 30 mila euro (la media va dai 30 ai 50000) e pare riguardi il 70% delle nuove aperture.
Franchising low cost per il 2018?
Moda o vera opportunità? I franchising low cost rappresentano un trend che guarda al futuro o una prospettiva pro tempore che potrebbe avere dubbie possibilità di sviluppo? Un tempo si usava dire che “chi più spende meno spende”. Nel franchising non è detto, analizzando grandi brand e franchisor attivi da tantissimi anni, che chi più spende abbia di più.
Guadagnerà di più? Aperture e chiusure lo dimostreranno attraverso i dati. Sta di fatto che
di fronte a investimenti maggiori e fee più elevate non è detto che corrispondano servizi migliori e più strutturati.
Il low cost quindi offrirà di meno a fronte di un investimento minore? Anche in questo caso, non è detto. Ci sono realtà in franchising a basso investimento, specie nel mondo delle startup, che hanno impostato strategie molto precise e si stanno muovendo molto bene anche nel confronto con l’innovazione. Saranno costi sostenibili per sempre? Lo vedremo.
Franchising nel 2018: la mia indagine
Intanto il tema è il 2018 per i franchising e come lo vedono i diversi attori. Ho cercato di dividerli per aree di intervento tra franchisee, consulenti ed esperti e franchisor.
Vediamo cosa è emerso, con una nota, una parentesi divagatoria: ha risposto anche Elena Delfino, giornalista che si occupa di franchising da quasi 20 anni. Ho recuperato un suo articolo per AZ Franchising del 2008, che si chiama 1998-2018: il franchising ieri, oggi, domani. Mi sembrava doveroso citarlo, per aprire al ragionamento, e per la stima che ho per lei, oltre che per l’anno a cui guardava, il 2018.
Ringrazio fin da ora chi si è preso qualche minuto per rispondermi, interagire in pubblico o in privato, dedicarmi il suo tempo per parlare di questo argomento e mettere un occhio verso questo 2018 ormai arrivato.
2018 e franchising: il punto di vista dei franchisor
Apro con Pietro Amico, avvocato, che da anni si occupa di comprendere il settore e strutturare interventi volti a tutelare il franchisor rispetto a tutti gli aspetti noti e poco noti di sviluppo della sua rete e della legge.
Una nota che mi sento di fare, specie quando si struttura un franchising, è non dare per scontato che basti un contratto standard per partire. Specie quando si innescano politiche di marketing molto strutturate, è bene pensare fin da subito come la strategia impatti sullo sviluppo, prevenendo, prima che curando… Il punto di vista dell’avv. Amico apre gli occhi sui passi che sta compiendo l’Unione Europea sui franchising e mette nuovi punti su un percorso che si dimostra ancora una volta da costruire.
“Nel 2018 il franchising potrebbe trovarsi ad affrontare un passaggio epocale sul piano giuridico, in quanto è atteso l’avvio dei lavori per una regolamentazione europea della materia.
Ciò significa che il settore sarà chiamato a una profonda riflessione sulle priorità da consegnare alla politica UE e sul tema mai sopito del corretto bilanciamento di interessi tra affilianti e affiliati; al tempo stesso è ipotizzabile che la normativa, una volta attuata e a regime negli Stati membri, consenta agli attori economici di poter fare affidamento per la prima volta su un quadro legale omogeneo per operare e investire in ambito transfrontaliero. All’origine di tale percorso vi sono le interessantissime considerazioni del Parlamento Europeo, secondo cui
“il franchising ha tutto il potenziale per essere un modello commerciale in grado di contribuire al completamento del mercato unico nel settore del commercio al dettaglio, in quanto può rivelarsi uno strumento utile per avviare un’impresa mediante un investimento condiviso tra affiliante e affiliato;
ed è pertanto motivo di delusione constatare che, attualmente, nell’Unione europea i risultati sono inferiori alle potenzialità, poiché il franchising rappresenta solo l’1,89 % del PIL, contro il 5,95 % negli USA e il 10,83 % in Australia, e che l’83,5 % del volume d’affari del franchising è concentrato in appena sette Stati membri, motivo per cui è importante incoraggiare una maggiore diffusione di questo modello commerciale in tutta l’Unione Europea (Risoluzione del 12 settembre 2017 sul funzionamento del franchising nel settore del commercio al dettaglio).
Nel merito si tratterà di capire se l’Unione Europea si accontenterà di una regolamentazione “de minimis” o se invece ci sarà lo slancio per affrontare l’innovazione di una disciplina contrattuale che per molti aspetti è ferma al secolo scorso, con un’idea di negozi fisici soggetti a esclusive territoriali e a pratiche commerciali “impositive” da parte dei franchisor, laddove al giorno d’oggi le affiliazioni di successo inglobano sempre più spesso piattaforme di vendita on-line ed una collaborazione integrata tra tutti i membri del network.”
Pietro Amico, avvocato d’affari e manager, si muove a livello professionale tra Udine, Milano e Malta.
La tematica del rapporto fra affiliante e affiliato è sentita moltissimo dai franchisor. Alcuni, come Alessandro Giuliani di Mercatopoli e Baby Bazar stanno puntando alla qualità degli affiliati, proprio per lavorare meglio sul brand e il suo sviluppo, dando loro maggiore supporto e formazione, anche in un ambito poco esplorato, per i franchising, come quello del web marketing. Un tema che mi è molto caro, per altro: partire dal presupposto che avere i migliori franchisee, formati e attenti, se pur crei uno sforzo enorme in fase di selezione, sia la chiave per avere successo nel tempo, con una cassa di risonanza positiva per tutto il network.
“Penso che anche per l’anno prossimo i franchisor dovranno perseguire la strada del supporto ai loro affiliati, soprattutto sul web.
Le sfide saranno molte ma partono dalla consapevolezza che un affiliato che viene seguito e guadagna è un cliente super fidelizzato.
Minore focalizzazione sulle nuove aperture e maggior supporto per gli affiliati esistenti, questa è la strada che sto perseguendo personalmente con il mio team e che porterò avanti nel 2018.”
Alessandro Giuliani, fondatore di Mercatopoli e Baby Bazar
Ed espansione, in particolare sui mercati esteri, come accennava l’avv. Pietro Amico, anche se con una tendenza ad abbracciare quelli con gli occhi a mandorla, come spiega Giovanni Monzali, che si occupa di un noto brand di caffè.
“L’ azienda per cui lavoro é in forte espansione con il franchising e ho partecipato a seminari di formazione sull’export management in Asia che mostrano ottime previsioni di crescita nella zona, grazie al traino del PIL delle economie asiatiche. Per la Camera di Commercio la vera sfida sarebbe quella di puntare sui mercati asiatici, ma non è una novità: si tratta di un progetto in atto da decenni e l’Italia si é mossa in ritardo…”
Ritardo o meno, le reti che allargano la loro maglia lo dovrebbero fare in maniera consapevole e strutturata, senza dimenticare che oggi più che mai l’accesso alle informazioni è così globale che pensare di arrancare con una struttura poco trasparente non paga e che all’estero si stanno muovendo nuovi approcci anche al franchising anche visto che, in tema di affiliazione, l’Unione Europea potrebbe ancora una volta fare la differenza, con i suoi emendamenti in materia.
Da parte mia penso che la sfida vera dei franchisor sia decidere di fare ordine nelle proprie strategie di marketing, ancora più importante se parliamo di startup.
Partire con una chiara strategia consente a legali e commercialisti di costruire manuali operativi e contratti molto più tutelanti, sia per il franchisor che per la sua rete.
C’è davvero tanta ignoranza e impreparazione, specie per chi ha una rete già costruita. Cambiare le carte in tavola in itinere non è solo una manovra commerciale, ma diventa un’operazione che può toccare gli equilibri in maniera indelebile.
Il franchising è una squadra che funziona se si innescano dinamiche collaborative e partecipative di un certo tipo. Quando ci penso o vengo contattata per lo sviluppo web marketing per un franchising, è uno degli aspetti che sento forti, e che riguarda, in realtà, una specie di evoluzione della gestione delle risorse umane, quella comunicazione interna di cui tanto si parla ma che nel nostro paese è ancora lontana dall’essere gestita.
Così come in un’azienda – lo possiamo anche chiamare welfare – i dipendenti dovrebbero essere felici di svolgere il proprio lavoro perché anno chiari i loro obiettivi e si sentono stimolati dall’appartenenza a una squadra in cui stanno bene e quindi lavorano bene, allo stesso modo
i franchisee, se pur abbiano un rapporto contrattuale diverso – e lungi da me che sia simile a quello di un dipendente – dovrebbero sentirsi parte di una famiglia che lavora insieme per uno scopo comune, laddove lo sforzo e la sinergia dell’uno sono utili alla squadra.
Marketing interno ed esterno sono dunque le vere sfide, dal mio punto di vista, e sono quelle con cui, ultimamente, mi confronto ogni giorno.
2018 e franchising: cosa pensano gli esperti
Un avvocato lo abbiamo sentito, ora tocca a chi indaga, intervista e supporta i franchising in Italia. Partiamo dalla già citata Elena Delfino, giornalista di Start Franchising, che si occupa del settore dagli anni ’90, per arrivare a uno dei massimi esperti italiani in tema di contratti etici per i franchising (e legali), che con i suoi articoli ha spesso messo in luce molte delle ombre del settore. Il suo è un punto di vista oggettivo e duro, ma è proprio la sua capacità di farci riflettere che dovrebbe dargli ancora più valore. Collaborazione e nuovi approcci alla diffusione nelle parole, invece, di Roberto Lo Russo, che su StartFranchising sta ponendo attenzione al franchising di qualità.
“C’è una domanda che amici e parenti mi rivolgono puntualmente perché sanno che da anni scrivo di franchising: Elena, ma il franchising funziona davvero? Con chi mi consigli di investire?” apre così Elena Delfino, continuando: “Ecco, per il 2018 partirei con un augurio, e cioè che gli operatori di questo settore decidano di raccontarsi e raccontare questa formula di business in modo sempre più qualificato e trasparente, così da rendere le risposte a quelle domande sempre più dirette ed immediate. Con Start Franchising abbiamo deciso di impegnarci proprio in questa direzione. L’augurio però non è molto lontano dalla previsione: chiunque operi nel franchising si racconterà in modo sempre più efficace su strumenti qualificati online o offline, perché sappiamo che chi investe oggi è consapevole di poter reperire informazioni in modo più semplice e accessibile. Se non le trova, o le trova parziali o poco chiare, semplicemente cambia strada.”
Elena Delfino, giornalista esperta di franchising
“Occorrerebbe dividere il tema in due parti:
1. sfide di e sul mercato per ogni franchisor;
2. sfide per il franchising, come settore.
Se il n.1 non è tema di mia specifica competenza, per il n.2 occorre accettare e ben metabolizzare che non esiste una “sfida” o più “sfide” per il 2018. Il franchising non ha ancora affrontato, o meglio, quanto eventualmente e solo per ipotesi è stato fatto, è assolutamente inefficace. La reale sfida che doveva vincere, quella prettamente tecnico-legislativa non è vinta per niente, nonostante si voglia ancora negare questo aspetto. Ho da poco scritto sul mio blog “Il gattopardo in franchising”. Il senso è quello che riporto sinteticamente in quell’articolo.
Il franchising non ha mai trovato il modo di tenere lontani operatori poco professionali.
Non ha mai trovato il modo di non far partecipare a eventi pubblici per “vendersi” (perché questo è l’esatto termine tecnico, in Usa si dice “to buy a franchise” e in Francia “achat une franchise”).
Chi non ha una corretta impostazione del proprio sistema di franchising, che non ha sperimentato veramente la propria formula commerciale (come dice la normativa), che non significa “un punto pilota” o “per un anno” continua a esprimersi con obrobri economici: sono eresie aziendali, sono giustificazioni e motivazioni addotte semplicemente per creare “movimento” di indici di natalità e di mortalità. Tanti altri sono gli aspetti che ancora hanno grandi criticità e non hanno importanza i dati di “tenuta” del settore nel periodo di crisi, anche perché la lettura e l’interpretazione di tali dati può essere alquanto soggettiva, nonostante il palese negazionismo che ci arriva con tutta serenità. Forse la migliore conclusione è che al franchising non piace sentirsi dire tutti i tanti difetti che ancora sono stati lasciati addosso al settore e che qualcuno tende a nascondere sotto il tappeto e non sarà certo il 2018 a risolvere il tutto.
Ci sarebbe anche un altro tema interessante: è che in troppi “non tecnici”, soggetti in totale assenza di “visione di un insieme d’azienda”, pensano di essere esperti, interpretare la norma (a pro o a favore), dare indicazioni su come costruire una rete, ecc.
Ho recentemente fatto un arbitrato (io ero arbitro del franchisee) e il franchisor (che oggi ha una istanza di fallimento proprio dal franchisee che ha vinto l’arbitrato) ha serenamente dichiarato “io mi sono affidato a delle professionalità, come il mio commercialista, come uno dei più bravi avvocati, cosa avrei dovuto fare se nessuno mi ha detto niente?”. Stessa cosa vale per sviluppatore, responsabili di marketing, editori, franchisor mancati che, siccome sono stati molto “bravi”, allora pensano di dare consigli ad altri e fare i consulenti al franchising…”
Mirco Comparini, Presidente IREF Italia, Federazione delle Reti Europee di Parternariato e Franchising
Poca professionalità, tanta improvvisazione, come dar torto a Mirco vedendo certe tipologie di contratto o le strategie di marketing per franchising che non tengono conto dei due target e di una prospettiva a medio e lungo termine? Un altro tema scottante e sicuramente non dedicato solo al 2018, ma a una rivoluzione intera, che pare debba ancora venire.
Cosa si può fare? Come ci si può muovere per migliorare questa situazione? Qualcuno dice che se non crei soluzioni sei parte del problema, e così ragiona Roberto Lo Russo, dicendo che
“La prima sfida è far comprendere la formula del franchising etico sia ai Franchisor che ai Franchisee e potenziali tali; la seconda è strumentale alla prima, fare squadra tra associazioni, imprenditori del settore per fare massa critica”
Roberto Lo Russo, esperto di franchising, StartFranchising
L’approccio di Roberto, che ritroveremo alla Fiera del Franchising di Napoli, è proattivo:
non siamo più isole, dobbiamo cominciare a collaborare!
Una nota positiva arriva anche da Gianni Perbellini, commercialista, esperto di franchising.
“Sono convinto che il 2018 sarà un anno di grande accelerazione per il settore.
L’economia e i consumi in ripresa faranno ripartire le attività commerciali BtoC e il sistema Franchising garantisce un’accelerazione nello start up e buone possibilità di successo commerciale.
D’altro canto il consumatore, sempre più, tende a fidarsi ed affidarsi a format diffusi in franchising, dei quali conosce risposta qualitativa e pricing. La mobilità e le tempistiche sempre più incalzanti della vita quotidiana aiutano a creare sempre più consenso a ciò che si è dimostrato degno di fiducia ed è diffuso sul territorio. L’Italia, poi, deve recuperare il Gap che ha nei confronti degli altri Paesi Europei, per tacere degli Stati Uniti, per cui ben venga questo balzo in avanti!”
2018 e franchising: il punto di vista dei franchisee
Parliamo di sviluppo, selezione, affiliati più preparati. Sta di fatto che ci sono persone che ci hanno creduto, hanno sposato un marchio e hanno deciso di intraprendere la loro strada imprenditoriale con esso. Se può essere facile parlare di sviluppo partendo da zero o ragionando sui nuovi franchisee per il 2018, come è possibile adoperarsi per far lavorare meglio chi già è dentro a un’azienda da tempo? Ho deciso di ascoltare la voce di qualche franchisee o potenziale, per capire meglio cosa pensano.
I franchisor dovrebbero ascoltarli di più, chiedendosi cosa desiderino e facendone tesoro. Vedo pochissime situazioni win-win in cui il franchisor, come avviene invece in America, crea dei focus group con i propri franchisee, per capirne le esigenze e osservare il mercato ponendo nuove basi per il futuro. Il caso di Carpisa di quest’anno, ma anche tanti altri, sono emblematici per dimostrare che il franchisor non dovrebbe ritenersi un’isola né nei confronti dei propri simili, né tantomeno in quelli dei suoi franchisee. Ecco cosa mi hanno detto.
“Non so se sia una sfida ma il franchisor non è all’interno del negozio franchisee. Ho notato che i nostri concorrenti sono cresciuti molto quando i titolari hanno aperto uno o più punti vendita. A noi manca questo: abbiamo molta teoria ma poca pratica.”
P., franchisee di un noto brand italiano, che ha chiesto di rimanere anonimo
C’è una distanza tra il franchisor e il franchisee dunque, spesso sentita, perché il franchisee si sente mal compreso, nella gestione quotidiana e si rende conto che chi lo “governa” non si mette nei panni del proprio – di fatto – principale cliente. Molto interessante.
“Da 24enne con il “Sacro fuoco dell’imprenditoria” ma senza ‘na lira, sogno dei franchisor più preparati ad aiutare chi vorrebbe mettersi in gioco usando la propria forza per aiutare il franchisee a trovare le risorse e smettere semplicemente di fare gli appioppiatori di negozi.”
Guido Vecchioli, aspirante franchisee
“Appioppatori di negozi” è un termine nuovo, ma tante volte questo concetto è emerso:
i franchisor pensano solo alla loro espansione, a fare numeri, senza chiedersi cosa possa succedere quando i negozi chiudono, con quale impatto sul brand.
Ne abbiamo parlato prima, e lo trovo un tema su cui i franchisor dovrebbero fare sempre più attenzione.
Il Salone del Franchising ha fatto emergere che
- il 42% dei potenziali affiliati sceglie un franchising per la ricerca di un percorso autonomo,
- il 39% per testare una nuova esperienza,
- il 13% perché ha perso il lavoro
- Il 25% dei potenziali affiliati è nella fascia d’età tra i 25 e i 35 anni.
“Da franchisee, considero questo metodo di affiliazione in espansione siccome da la possibilità di intraprendere un’attività da self-employed. In periodi come questi, ‘l’imprenditore per necessità’ emerge più facilmente e può quindi trovare l’opportunità che cerca. Considero il contesto importante, poiché determina l’esperienza del franchisee e la crescita aziendale. A mio parere, in Italia c è molta diffidenza in questi sistemi poiché spesso sono accostati a concetti imprecisi. La diffusione potrebbe essere difficoltosa e per la nostra notoria bassa propensione al rischio e investimento.”
Emanuele Aversa, franchisee
Il 2018 ideale di un franchising
Come dovrebbe essere il 2018 ideale di un franchising? Recentemente mi sono messa a fare un po’ di studi sullo sviluppo imprenditoriale e uno dei temi che noto essere più semplici ma anche accantonati è quello di darsi degli obiettivi. Gli obiettivi, dice la teoria, dovrebbero essere SMART: specifici, misurabili, realizzabili, concreti/realistici, nel tempo.
Quante imprese riescono a lavorare per macro e micro obiettivi, nel breve, medio, lungo periodo, andando poi a confrontare i risultati per comprendere se vi sia stata una chiara visione o meno e imparare da ciò che ha ottenuto? Ahimè, non è facile.
I macro ambiti di intervento del 2018 però sono chiari, e ogni franchisor dovrebbe fare o aver fatto un esame di coscienza, facendosi supportare da consulenti preparati, per trovare il modo di tradurre questi concetti in obiettivi:
- Qualità e non quantità: non serve avere migliaia di affiliati scontenti, ma una quantità corretta, gestita bene e soddisfatta dei risultati che ottiene
- Basta improvvisazione. Servono consapevolezza e consulenti in grado di comprendere che questo non è un settore comune e che ha caratteristiche specifiche molto delicate da trattare, che non si possono improvvisare o affidare a un copia e incolla
- Accompagnamento. Il franchisee è il nostro principale cliente e quindi come tale va trattato. Il franchisee deve quindi essere supportato in fase di apertura ma anche in tutto il corso della vita del suo negozio.
- Contratti e manuali operativi seri, che nascano da uno studio serio e concreto. Non si scherza!
- Collaborazione, network, condivisione delle informazioni. Nonostante le molte associazioni, non c’è ancora una vera squadra in questo settore
- Un occhio aperto verso l’UE, che sta o potrebbe cambiare le carte in tavola. Prepararsi non è così scontato
E poi, visto che parlo di strategie di marketing per franchising
-
-
- Lavorare su una corretta strategia di marketing interno
- Definire una strategia di marketing globale che si occupi dei due target principali, lavorando principalmente sulla fidelizzazione, ovvero sulla soddisfazione e insoddisfazione dei propri clienti
- Fare buona pace definendo come strutturare gli strumenti online, specie Facebook Location e Google My Business
-
Ma soprattutto
- Definire degli obiettivi, che puntino prima di tutto a dare profitto agli affiliati, in modo da rinsaldare la rete e renderla forte di fronte alle sfide del mercato.
I franchising che oggi stanno dimostrando di avercela fatta sono quelli che sono stati in grado di mettersi in gioco, guardare al futuro, saper cogliere il presente nei suoi cambiamenti e fare squadra con i propri affiliati. Sviluppare reti più strutturate ed espandersi all’estero senza tenere conto di questi aspetti rischia di generare un approccio e un sentiment negativo non solo verso un brand, ma verso l’intero settore.
Approfondiremo alcuni degli aspetti trattati nei prossimi articoli. Se ti va di leggerli, seguimi sui canali social in cui mi trovi, come Facebook o LinkedIn, o iscriviti alla mia newsletter.
Grazie per aver letto fino a qui e buon 2018! In franchising, magari! 🙂
Iscriviti alla Newsletter
[vc_row][vc_column width=”1/6″ css=”.vc_custom_1452533463672{padding-right: 0px !important;padding-left: 0px !important;}”][/vc_column][vc_column width=”2/3″]Errore: Modulo di contatto non trovato.
[/vc_column][vc_column width=”1/6″][/vc_column][/vc_row]
Fiera del Franchising 2017: da Milano a Valencia
Negli ultimi dieci giorni si sono svolte due importanti fiere per il mondo dei franchising: la fiera di Milano, il Salone del Franchising, e la fiera di Valencia, il Salón Internacional de la Franquicia.
Si tratta di due fiere del franchising storiche, l’una con i suoi 32 anni si attività, l’altra giunta ormai alla 28esima edizione.
Ho avuto la fortuna di partecipare a entrambe, potendo non solo cogliere le differenze tra il mercato italiano e quello spagnolo, ma analizzando soprattutto quale sia l’approccio in comunicazione e marketing di questo settore, nei due paesi.
La prima domanda che mi sono fatta, visitando entrambi, è come un franchising dovrebbe comunicare in fiera. La seconda riguarda un approfondimento che vorrei portare avanti sull’assenza dei big player, molto nascosti a Valencia, appena accennati a Milano.
Quando parlo di big player mi riferisco alle grandi aziende internazionali, che ormai hanno capillarmente coperto le aree commerciali e urbane di un gran numero di città nel mondo, dai marchi italiani come Calzedonia e co., fino a quelli esteri come Mc Donald o Pizza Hut.
Cosa significa partecipare a una fiera?
Partiamo da una domanda, che mi deriva dal percorso che sto seguendo con Manuel Faè ed Alessandro Sportelli, Web Marketing per Imprenditori:
le fiere sono strumenti della domanda latente o di quella consapevole?
Quando penso a una fiera di settore, ma in generale qualunque persona ci pensi, dovrebbe focalizzare la sua partecipazione cercando di comprendere in quale fase del processo di acquisto si inserisce.
Dunque, se con la tua azienda partecipi alla fiera campionaria o a quella di paese, quasi sicuramente stai intercettando domanda latente. Le persone sono lì per fare un giro, curiosare, mangiare le frittelle di Santa Lucia e tu, con il tuo stand, se sai comunicare bene, potresti incontrare il loro interesse.
Domanda latente, appunto. Genera un contatto? Non è detto!
Innesca un processo di acquisto? Forse.
Se sei bravo, ripeto, fornendo il giusto materiale o colpendo il pubblico con un messaggio davvero differenziante, o se hai la capacità di individuare in pochi istanti chi è potenzialmente un tuo cliente, potrebbe essere che a seguito di quell’incontro avvenga qualcosa di più concreto e utile per il tuo business.
Parte alta del funnel, pubblico ampio, interesse relativo. Tienine conto. Se punti tutto sulla domanda latente, spari nel mucchio, specie in eventi in cui, a meno che tu non abbia i superpoteri, c’è di tutto.
Ma le fiere di settore? Sono davvero strumenti della domanda latente? Io non credo.
Le fiere di settore, come le fiere del franchising di Valencia e Milano, sono strumenti della domanda consapevole.
Ora, se segui WMI da qualche tempo o hai letto Il succo del Web Marketing, saprai che la domanda consapevole ha diverse declinazioni.
Si parla di domanda consapevole generica, informativa o commerciale e di domanda consapevole specifica.
In fiera che tipo di domanda ti dovresti aspettare?
Chi partecipa a una fiera come quella del franchising potrebbe, in realtà, avere tutte e tre le tipologie di bisogni. Vediamo un po’.
In generale se scegli di dedicare una giornata a una fiera specifica di settore, a meno che tu non sia di Verona con i biglietti gratis per il Vinitaly per andare a bere con gli amici, sai che nella fiera troverai la gran parte delle informazioni e delle scibile di quel settore, tutto insieme, in un unico luogo e in pochi giorni! Interessante, no?
Se ti interessa un determinato ambito di sviluppo o vuoi conoscere determinate aziende, invece di doverle cercare su Google, chiedere in giro, o fare altri mille voli pindarici per intercettarle, potenzialmente le hai tutte lì, pronte per te. Domanda consapevole generica: voglio saperne di più, vado in fiera, dove potrò trovare informazioni ma addirittura vedere in faccia chi ci sia dietro un determinato business. So che il mio lavoro non va più come vorrei, sento di avere l’indole dell’imprenditore, mi attrae la possibilità di mettermi in proprio ma mi fa anche paura. Queste sono tutte leve che portano le persone a informarsi sui franchising.
In fiera possono trovare informazioni.
E se invece andassi in cerca di aprire con un determinato tipo di azienda? Magari ho la stessa spinta di chi cercava informazioni, ma di fatto, beh, vorrei aprire un ristorante, perché ho da sempre la passione per la cucina. Non so a chi rivolgermi, con chi fare l’investimento giusto, ma so che voglio cambiare la mia vita nel giro di un tot di tempo e che voglio farlo gestendo una cucina e gli avventori che vorranno cibarsi dei miei piatti. E in fiera, dunque, ho una forma di domanda più commerciale, rivolta al settore che io rappresento.
Voglio capire quale sia il franchising giusto con cui affiliarsi nel settore della ristorazione.
Ma se mi sono informato, ho letto tutte le riviste, ho ricevuto tutte le email dei funnel a cui mi sono iscritto, e mi sono dunque fatto un’idea specifica di quale sia il franchising giusto per me?
A questo punto, beh, la domanda consapevole è davvero specifica e in fiera potrò avere l’onore di prendermi del tempo per conoscere meglio chi ha inventato o porta avanti quella rete. Certo, potrei anche andare in azienda, ma la fiera è un terreno neutro, mi dà un’idea meno affettata di una sala riunioni costruita per raccontarmi quanto sia bello affiliarmi con quel brand.
Esiste la possibilità di convertire?
Se un cliente è pronto a parlare proprio con il tuo brand, sì, potrebbe essere. Se viene in fiera proprio per quello, per discutere un contratto, ci potrebbe stare. Uno dei miei clienti ha costruito un funnel molto approfondito e usa le fiere per parlare con i clienti che già hanno scelto di affiliarsi. Ma le usa anche per invitare a conoscerlo chi è ancora indeciso e sta valutando varie strade.
La fiera è un evento. Come tutti gli eventi ha un prima, un durante e un dopo e, non si capisce come mai, spesso gli eventi si dimenticano del prima e del dopo.
Non è che si scordino della becera organizzazione logistica, eh, quello no. Si scordano però della strategia che può stare dietro una fiera, nel comprendere come inserirla nel processo di acquisto, come renderla uno strumento utile del funnel di vendita, come finalizzare, poi, i contatti ricevuti.
Da Valencia a Milano, il mio punto di vista sulle fiere
Purtroppo non posso essere clemente con il Salone del Franchising di Milano e con il Salòn de la Franquicia di Valencia. Sì, perché oltre alle aziende che espongono, ci sono anche le strutture che fanno la fiera, che dovrebbero comprendere di avere due clienti importantissimi: l’espositore, e il visitatore. Senza l’uno non esiste l’altro, senza l’altro non parteciperebbe mai l’uno. Funzionano, insieme.
Le fiere del franchising di Valencia e Milano sono state, purtroppo, poco lungimiranti, sia nei confronti degli espositori che in quelli dei visitatori. Sono ancora momenti molto importanti, eventi unici nel loro genere, ma vengono comunicati e diffusi male, purtroppo, tanto che i big player ormai mancano, che le aziende si affidano a degli aggregatori dove il rapporto umano viene un po’ a mancare, e che i visitatori, talvolta, rimangono delusi dell’offerta.
Nonostante questo, organizzano incontri e momenti di formazione di valore, non solo con aziende che presentano i loro servizi, ma anche con professionisti che agevolano la focalizzazione verso il settore e le sue potenzialità, oltre che verso nuovi approcci utili al business. Non entro qui nello specifico degli interventi sul mondo del franchising che ho seguito sia in Italia che in Spagna, o nelle occasioni di confronto con franchisee o franchisor, ma di fatto – forse anche per il costo elevato di partecipazione –
alle fiere manca ancora qualcosa per affacciarsi a un nuovo modo di concepire questo canale, più moderno e vicino alle esigenze del visitatore e dell’espositore.
Non facciamo di tutta l’erba un fascio. Ci sono fiere che ancora oggi hanno dei perché molto forti, indiscutibili, come ho visto durante il mio intervento a Expo Network Forum di GRS, lo scorso luglio.
Se sei un franchising e vuoi attrarre nuovi franchisee attraverso la fiera, dunque, cosa dovresti fare?
Innanzitutto, darti un obiettivo.
Qual è lo scopo di partecipare alla fiera?
Se ne hai già fatta almeno una, è facile: cerca di fare meglio della precedente. Come? Controlla i contatti raccolti, le presentazioni fatte, le brochure distribuite, ma soprattutto, controlla quali risultati hanno avuto nel lungo periodo: hai raccolto solo contatti farlocchi? O tra chi ti ha visitato c’è stato chi ti ha poi portato una affiliazione? E di che tipo di contatti si trattava? Solo curiosi o persone veramente interessate?
Quando mi interfaccio con gli imprenditori che devono partecipare a una fiera il grande tema è: ma in fiera non c’è tempo di fare tutto quello che dici. Vero. Ho fatto per 10 anni una delle fiere più stressanti di Verona, Vinitaly: 7 giorni su 5 tra organizzazione e gestione dello stand. So bene cosa significa lo stress da fiera. So altrettanto bene che, però, se non finalizzi i tuoi obiettivi, farai presenza, come tanti altri, e allora forse ti potrebbe costare meno un commerciale che telefono a tutti i tuoi potenziali clienti per due mesi. Qualcosa raccoglie, se ha stoffa.
Ricorda allora che in fiera devi lasciare un segno di te, specie se qualcuno viene per informarsi.
Sia a Milano che a Valencia, ahimè, ho visto, oltre a una fiera del franchising, la fiera delle banalità. “Siamo i leader”, “risultati immediati”, “nessuna fee di ingresso”, “i più innovativi”.
Emanuele Maria Sacchi, consulente e formatore alla vendita, in uno dei tanti corsi in cui ho avuto la fortuna di sentirlo parlare, diceva: “ma lo puoi mettere nella carriola?”. Forse, solo ora, capisco appieno cosa intendesse. I leader. Possono dirlo tutti. Ma dimostrarlo con numeri concreti, che si possano mettere – idealmente – in una carriola, chi può farlo?
Inoltre, quando dici una cosa del tuo brand, prova a prendere un altro brand, magari tuo concorrente. Se sostituisci il tuo nome con il suo la frase ha comunque senso? È coerente? Se lo è, hai un problema, di omologazione.
In fiera potrebbero esserci tanti come te. Devi farti ricordare. E puoi farlo con una marcia in più: la tua presenza.
Le persone che incontrerai si ricorderanno del tuo brand ma anche di come ti sei posto, se sei stato convincente e credibile. Chiedono informazioni, ti sei preparato a dargliele? Ha ipotizzato la gran parte delle domande che ti potrebbero venire rivolte e hai deciso come rispondere ma, non solo, hai trasmesso a chi sta in fiera con te come ti aspetti che le diano? Non è facile. Ma fa parte della preparazione, di quel pre-fiera che non è solo decidere la posizione del bancone di accoglienza dello stand.
E poi, durante la fiera, che strumenti usi per raccogliere informazioni utili, feedback, dati?
Lì davanti a te hai il tuo cliente, probabilmente il migliore: è venuto in fiera per informarsi sui franchising. Come cerchi di raccogliere i suoi dati e le informazioni che potresti dargli? Hai un modo per raccogliere i suoi dati? E di quali dati hai bisogno?
“Non c’è tempo, Silvia”.
E’ sempre questa la scusa. Leggi sopra:
se pensi che non ci sia tempo, stai sprecando il tuo tempo lanciando ami in un lago in cui non sai se ci siano pesci.
Se hai investito in una fiera, investi in un/a ragazzo/a, carino/a e formato/a, che ti faccia da segretaria e raccolga i dati. Tu ti potrai dedicare ai clienti, lui/lei a questa parte burocratica. È un’idea, ma un modo si trova.
Perché dovresti raccogliere i dati in fiera?
Il funnel di cui parlavamo ha diversi livelli. Alcuni sono più lontani dall’acquisto, altri meno. Un potenziale cliente che viene in fiera potrebbe essere più vicino all’acquisto di quanto immagini. Vuoi perdertelo? Io penso di no. E in fiera potrebbe non essere pronto a firmare un contratto di affiliazione, ma magari, di lì a poco, nei giorni successivi, potrebbe rielaborare quanto visto e volerne sapere di più. Farai in modo di ricordargli da subito che tu sei interessato a lui/lei o aspetterai come gli ebrei che scenda la manna dal cielo? Non so se quello lassù sia ancora così magnanimo…
Se hai i dati dei tuoi clienti, qualcosa potresti fare, fra le altre, creando credibilità nel tuo cliente, che a ben vedere, tra qualcuno che non si fa più vivo e tu – magari meno interessante sulla carta – che ti fai sentire e dimostri di avere una strategia, potrebbe decidere per te.
Post evento. Come lo curi? Come continui una relazione che possa provare ad accompagnare la persona che hai incontrato sempre più vicina alla conversione?
Ti dirò di più. Una persona decide di abbandonarti. Dopo averti visitato in fiera, dopo aver letto qualche email, dopo averti sentito al telefono alla fine dell’evento per valutare l’affiliazione al tuo marchio, ti dice che non è più interessata. E tu pace, la lasci andare così, senza proferire parola. Ma come? Ti è mai venuto in mente che chi non sceglie per te potrebbe darti informazioni utili per migliorarti? Se hai creato un rapporto, perché non provi a chiedergli un feedback che magari ti può essere utile come autoanalisi?
Se sei un franchising emergente, se hai appena scelto, dopo un test su uno o più punti vendita pilota, di diventare un franchisor, i feedback sono importantissimi, anche quelli negativi.
La fiera è utile solo per i franchising in fase di startup?
Ahimè, entriamo nella seconda parte della mia analisi delle due fiere di Valencia e di Milano. I big player non c’erano. In questo caso, mi sono ripromessa di fare un approfondimento specifico.
Alla fiera di Parigi sono ricomparsi, mi ha detto Elena Delfino di StartFranchising. Al Salone del Franchising di Milano e al Salòn de la Franquicia di Valencia, però, non c’erano, oppure erano velatamente presenti attraverso le associazioni – specie in Spagna – di Franchise.
Nessuna scoperta del brand che c’è dietro, del team che mi supporterà, del mondo a cui potrei andarmi ad affiliare. È triste, ma ha il suo perché.
Le aziende grandi hanno innescato un processo di inbound marketing in cui la forza e riconoscibilità del brand, la sua diffusione e capillarità, rendono i potenziali affiliati alla ricerca dell’affiliazione. Sono strutture talmente consolidate che in genere si possono permettere un’altissima selezione, non hanno bisogno di aprire qualsiasi porta al mercato, di farsi conoscere. Le persone che vogliono aprire la loro attività alle volte fanno a gara per accaparrarsi una zona per aprire in franchising ancora libera.
Un’altra storia, che non voglio approfondire qui, dove già mi sono dilungata abbastanza, tra Spagna ed Italia.
I due mercati sono uguali?
No. In Spagna c’è molta più fiducia nei franchisor, in questo sistema di imprenditorialità guidata. In Italia c’è ancora dubbio, sfiducia, un po’ di resistenza.
Il settore si è macchiato, negli anni, per colpa di imprenditori poco accorti, tanto che oggi anche i più etici, quando partono, fanno fatica, e le obiezioni comuni sono sempre quelle.
In Italia, poi, c’è un tema scottante, che anche il Salone di Milano ha portato alla luce:
manca la visione imprenditoriale. Chi apre in franchising, spinto spesso dalle possibilitià offerte da un TFR, pensa che il franchising sia una forma di lavoro dipendente. Non lo è.
Quando si parla di contratto di franchising si parla di collaborazione, di esperienza, di know how. Affiliarsi e diventare franchisee però non significa stare dietro una scrivania. Mi ha fatto specie una domanda, uscita proprio a Milano durante uno degli interventi sul diventare franchisee: cosa significa essere imprenditori? Bella domanda. Una bellissima domanda su cui i Franchisor dovrebbero interrogarsi prima di affiliare, per arrivare a scegliere la persona giusta, quella che porterà davvero avanti il proprio brand, anche – perché no? – con la possibilità di costituire fra gli affiliati dei percorsi ancora poco sviluppati nel nostro paese, ma ben consolidati in Spagna o in America, per esempio, per diventare Master franchisor.
Ma questa è un’altra storia.
Da Valencia, e Milano, è tutto, e quindi – come si dice – linea allo studio.
Se ti interessa approfondire il mondo dei franchising o desideri supporto per la tua strategia di marketing per franchising, scrivimi o iscriviti alla newsletter. Grazie di essere arrivato a leggere fino a qui. A presto!
Iscriviti alla Newsletter
[vc_row][vc_column width=”1/6″ css=”.vc_custom_1452533463672{padding-right: 0px !important;padding-left: 0px !important;}”][/vc_column][vc_column width=”2/3″]Errore: Modulo di contatto non trovato.
[/vc_column][vc_column width=”1/6″][/vc_column][/vc_row]