I trend di marketing del 2020? Francamente me ne infischio.
31.12.2019. Ultimo giorno dell’anno. E si chiude pure il primo ventennio del 2000. Accidenti, sembra ieri che parlavamo del Millennium Bug… 20 anni! Come direbbe uno dei miei miti “Domani è un altro giorno!”. E io, prima di domani, ho messo giù qualche riga di pensiero sul marketing e sui trend del 2020, visto che lo hanno fatto tutti. Premessa: al solito, non sarà un articolo corto.
1 gennaio 2020. Cosa succede nel mondo del marketing?
Ebbene sì, domani è proprio un altro giorno: il primo gennaio 2020. Inizia un nuovo anno e, come al solito, è il momento dei cliché:
- chi fa il resoconto dell’anno trascorso
- chi fa l’analisi di opportunità e miglioramenti
- chi si ripropone mille idee e progetti per il nuovo anno
- e chi… fa il mago con la sfera di cristallo, cercando di ipotizzare trend e novità che si vedranno nell’anno a venire
Nel marketing e nella comunicazione succede ogni anno, e ogni anno è abbastanza divertente vedere persone che, invocando il mago Thelma e tutti i santi del Paradiso, cercano di spararla più grossa su cosa accadrà. Mi ricordo – e se lo ricordano anche tanti miei colleghi – quando si disse “sarà l’anno dei video!”. Cavoli! Un video al giorno per ognuno dei nostri account e avremo davvero annoiato chiunque. Eppure, da allora, e forse son passati tre o quattro anni, si parla ancora di video. Beh, poi si parla di influencer, Instagram, micro influencer, Tik Tok marketing, big data, business intelligence, fidelizzazione, voice search e chi più ne ha più ne metta.
Dunque, dunque,… quale sarà il vero trend del 2020? Cosa ci dobbiamo aspettare dall’anno che verrà? Su cosa si dovrebbero concentrare le aziende che vogliono finalmente sfondare con l’azione di marketing giusta?
La risposta che mi è sorta spontanea, sia dopo aver letto il libro che dopo aver rivisto con mia mamma – è un must del periodo di Natale – il film, mi viene dal caro vecchio Rhett Butler del colossal Via Col Vento, una delle frasi forse più note del cinema:
quali saranno i trend del web marketing e del marketing del 2020
(sì, anche del marketing per franchising!)?
Francamente, me ne infischio!
Avete capito bene: Francamente me ne infischio dei trend del 2020. Perché?
Partiamo da un assunto, anzi due o tre:
- sono mode, e come tali, passano
- nessuno ha davvero la sfera di cristallo, anche se ci sono delle persone autorevoli che osservando il mercato possono comunque fare delle previsioni non infallibili
- non esiste una formula magica per il marketing delle aziende, né per quello delle attività locali, né per il B2B, né per i franchising o le strutture multisede
Riprendo questo ultimo punto proprio per lanciare un appello a tutti gli imprenditori e, se possibile, anche a tutti i colleghi che davvero vogliono fare bene questo lavoro, ovvero aiutare le aziende a crescere e migliorarsi attraverso azioni stategiche: non esiste una formula magica, non esiste un trend da inseguire su tutti e che funzioni più di altri se non si è prima fatta una buona analisi e una strategia. Punto.
Chiunque dica che il 2020 è l’anno di Tik Tok per cui la tua azienda dovrà fare azioni di marketing su questa piattaforma, mente. Chiunque affermi che il 2020 sarà l’anno della realtà aumentata, per cui in azienda dovrai chiamare l’esperto x per fare il prodotto y, mente. Chiunque ti dica che il tuo obiettivo è il risultato zero di Google – sì, ho letto anche questo – mente. Mente chi ti dice che ti devi giocare tutto sul voice search, che devi assolutamente creare il tuo canale di social commerce, che devi puntare tutto sui chat bot. Mente. Punto.
I trend del 2020 sono bufale
Perché chi parla di trend mente?
Attenzione! Non sostengo che non ci siano delle evoluzioni del mercato, delle tecnologie e delle possibilità di sviluppo di un piano marketing. Non sto affermando che non vi sia una rivoluzione in atto sul piano delle tecnologie che usano i sistemi vocali, la realtà aumentata e tutto quello che pian piano sta trasformando la realtà fisica in realtà virtuale. Quello che sta accadendo è sotto gli occhi di tutti. Il mondo digitale corre veloce ed è difficilissimo stare al passo coi tempi. Il fatto è che quando qualcuno afferma che i trend sono la chiave per il tuo successo, o che dovresti seguirli per fare la differenza sui competitor, sta dicendo il falso.
Perché ti dovresti infischiare dei trend del 2020?
Parto da un assunto di Alessandro Sportelli, mio “maestro” e – con Manuel Faé – ideatore del progetto Connection Manager, di cui faccio parte:
il marketing è una scienza, non un’accozzaglia di strumenti.
Anzi, rimodulando sul finire del 2019 potremo dire:
il marketing è una scienza, non un’accozzaglia di trend.
Ecco quello di cui dovresti tenere conto se hai un’azienda, piccola o grande che sia, e che non dovresti mai dimenticare:
- Un singolo strumento o una singola impostazione non sono la chiave del successo, perché sarebbe come dire che mettendo il motore della Ferrari nella Peugeot della mia amica che guida da pochi mesi, può andare a correre al Gran Premio di Montecarlo. Forse ci arriva a piedi, forse!
- Se non hai chiaro come i tuoi clienti comprano da te o come vorrebbero comprare, non potrai mai sapere in che modo uno strumento o una tecnologia possono andare a inserirsi nel loro processo di acquisto per velocizzarlo o incrementare le vendite. Per saperlo devi fare un’analisi e, possibilmente, indagare cosa fanno i tuoi clienti, anche chiedendoglielo, se necessario.
- Le mode passano, la strategia resta. Ogni anno ci saranno nuovi strumenti, nuove tecnologie e nuovi trend. Vuoi davvero che la tua azienda li segua tutti e ogni 31 dicembre si metta a cavalcare l’ipotetica tigre del vincitore? E se poi quella tigre prende in groppa tutti, che fai? Continui a cambiarla? Non è sostenibile, specie se fai parte della categoria delle piccole e medie imprese italiane, che a oggi, ancora, fanno questo Paese.
- Le mode costano. Cambiare costa. Se hai un budget di marketing, ancorché tu sia stato in grado di definirlo (tante aziende ancora non lo fanno), investi saggiamente e non buttare tutte le tue risorse nei trend. Mi ricordo ancora quando – e pure nel 2020 se ne parlerà – si diceva di puntare tutto sugli Influencer. In una riunione sentii un imprenditore dire che voleva investire il 70% del suo budget su due singoli influencer, per altro con profili sporcati dai bot. Ma stiamo scherzando? Spero che non serva una spiegazione per definire che questa è una follia!
- Le azioni di marketing non vanno mai viste da sole, i risultati che porta un singolo canale non potranno mai essere attribuiti con certezza solo a quel canale, a meno che tu non abbia mai fatto alcunché e sia rimasto in una sfera di cristallo fino all’investimento su quel canale. Voglio dire: il marketing è una sfera di azioni che si intersecano e incastrano, che lavorano insieme per portare a un obiettivo, solo e unico: vendere di più. Se punti a un solo canale o a una sola tecnologia, pensando che lì ci sia tutto, stai facendo tattica, non strategia, potresti vincere la battaglia, lasciando sul campo le tue migliori risorse, ma come la mettiamo con la guerra?
- Gli articoli che segnalano i trend del 2020 sono, così come questo che leggi, dei cliché. Si fanno per guadagnare posizioni su Google, per far condividere i link al proprio sito, per ammaliare potenziali nuovi clienti facendo credere che si abbia l’autorevolezza per dire che l’anno che verrà funzionerà così. Perché, diciamolo, se qualcuno si arroga il diritto di dirlo, beh, significa che è autorevole per farlo, no?
- Sette è il numero perfetto. La perfezione non esiste, ma possiamo cercare di lavorare sempre per raggiungerla, no? Se vuoi raggiungerla nel tuo settore, che sia esso franchising, multisede, local, B2C, B2B, il marketing è un processo strategico. Se hai una strategia chiara, non hai bisogno di trend, ma li userai a tuo buon pro solo se possono aver senso, testandoli, valutandone i risultati, capendo se fanno al caso tuo e decidendo se il gioco (l’investimento) vale la candela (il risultato).
Quindi? Nessun consiglio o trend per il 2020? Nemmeno per il marketing per i franchising?
Io ho tanti auguri da fare, ma non sono nessuno e non mi paragonerei mai a chi è davvero autorevole. Però, visto che ormai sono quasi 15 anni che mi occupo di vendita, marketing e comunicazione, in particolare per catene, multistore e franchising, ho una speranza, anzi, più di qualcuna. Prendetelo come un consiglio, o un augurio.
Un tempo qualcuno mi disse che un’azione che facciamo non deve per forza scatenare un maremoto, ma basta che sposti una goccia nel mare per poter innescare un cambiamento.
E io mi auguro che ci sia davvero un cambiamento nel mondo del marketing. Un cambiamento che si infischi dei trend e volga gli occhi alla strategia, finalmente. Ecco dunque cosa mi auguro per questo 2020, sperando che continui nel 2021, nel 2022 e, possibilmente, per sempre:
- più analisi di mercato e aziendale e meno improvvisazione. Audit interne ed esterne, riflessioni sul nostro cliente, sul nostro prodotto e una chiara consapevolezza di come i clienti acquistano da noi
- più strategia e meno strumenti. Un piano di marketing che coinvolga gli strumenti ma non si focalizzi solo su quelli. Un piano che sappia spostarsi anche sui trend se necessario, ma sono quando sia trasparente e lampante come questi trend si inseriscono nella strategia, quali asset spostano, quali leve muovono e come possono incidere sul risultato finale.
- più strategia e meno tattica. Gli strumenti del marketing suonano all’unisono per creare una melodia, non cantano in modo singolo. Ogni azione è concatenata. Chiunque vi dica che vi ha portato tot lead con tot investimento, prendetelo con le pinze. Chi vi dice che quei lead non siano stati smossi a monte da altre azioni, anche di mesi o anni prima? Il marketing e il processo decisionale dei clienti tra scegliervi e non scegliervi, sono percorsi, non singoli input che generano per forza un automatico output.
- più processo di acquisto e meno processo di vendita. Vorremo tutti che le persone acquistassero da noi come vogliamo noi. Non funziona così. Il processo di acquisto, come insegna il corso WMI, è determinato da tanti fattori ed essi caratterizzano un tempo e un processo decisionale che non possiamo definire a tavolino: va analizzato!
- basta pensare che il marketing online e offline siano due cose distinte. Il marketing è uno! Se non ne sei ancora convinto, osserva come i big player del mondo tech stanno usando i canali offline: carta stampata, TV, card, sono entrati di peso nelle loro azioni di marketing. Il marketing, in qualsiasi settore, è uno solo!
- influencer, ambassador, evagelist. Basta! Non è tra le braccia di una bella donna in reggiseno e perizoma che il tuo prodotto troverà il successo! Certo, ci sono anche influencer seri, eh, ma costano, e costano cari, e prima di pensare a un piano di influencer marketing con i super mega personaggi che vedi su Instagram, concentrati sui tuoi clienti. Hai mai pensato che i tuoi clienti, in realtà, siano dei micro influencer? I tuoi clienti parlano di te, anche senza che tu lo sappia. E se lavorassi con loro invece che con chi non ha mai provato il tuo prodotto?
- dati, raccogliamo i dati! E trattiamoli bene, se possibile. I dati dei clienti e di quello che comprano sono fondamentali per comprendere cosa funziona e come possiamo arrivare anche ad altri clienti. Oggi, per fortuna, esistono molti sistemi di business intelligence per analizzare e visualizzare i dati e il mio collega Fabio Piccigallo ha anche scritto un bellissimo volume sul Data Storytelling per far comprendere come rappresentare e leggere questi dati per creare il giusto piano di marketing, verificato attraverso i numeri. Marketing data driven, lo chiamano. Chiamalo come ritieni più opportuno, ma prima di affermare che una cosa non funziona o un’azione non porta risultati, analizza e dimostra!
- brand. Ama il tuo brand, proteggilo, fallo crescere, analizzalo. Il brand fa la differenza in qualsiasi piano di marketing. Spesso un’azione non funziona perché non c’è il brand. Cosa significa? Che nessuno ti conosce, sa chi sei, sa cosa fai o ha in mente una parola chiave che ti descrive, o l’inverso. Essere un punto di riferimento per la propria nicchia o per il proprio mercato sembra la banalità delle banalità, ma è qualcosa su cui, ogni giorno, nelle attività di consulenza che facciamo con Franchising Strategy e con altri colleghi, c’è ancora tanto da fare. Brand! Ricordatelo, lavoraci, fallo bene.
- non lasciarti affascinare dai guru. I guru non esistono. Nessuno ha la bacchetta magica. Qui entro in qualcosa di più filosofico e meno simpatico ai più, ma mi chiedo quanto, dietro la ricerca della parola magica del guru di turno, ci sia in realtà un bisogno di trovare all’esterno risposte che in realtà abbiamo dentro di noi (senza facili citazioni ironiche). L’azienda non funziona, il prodotto non va, le azioni di marketing che facciamo non stanno sortendo i risultati sperati: siamo sicuri che non dipenda da noi? Quanto spesso vedo che se un’azione non funziona è perché non ci si è posti la domanda su chi ci conosce, se siamo un brand o meno, se nel processo di acquisto vi sia il bisogno di una fase informativa prima di giungere a quella commerciale.
- il marketing non è creativo. Il marketing esiste, se pur sembri effimero e intangibile, all’inizio. E il marketing è fatto di strategia, non di stereotipi. Se corretta, la strategia di marketing deve partire da un’analisi proprio per consentire al professionista, che sa che ogni azienda è differente, di lavorare con te secondo quello che è la tua storia, le tue dinamiche, la tua impostazione, non quella che si è immaginata lui. Io uso spesso l’analisi SWOT e strumenti di analisi interna che coinvolgano l’azienda, anche su più reparti, ma questa è un’altra storia, perché io penso che qualsiasi azione di marketing vada contestualizzata e ne vadano capiti i perché e credo che quei perché risiedano spesso nel vivere l’azienda, dentro e fuori.
In sostanza,
ogni azienda è un progetto unico e meraviglioso che non ha nulla a che vedere con le mode. La chiave è il progetto.
Se ci sono un progetto solido, un’analisi strutturata e la consapevolezza delle fasi del processo d’acquisto, noi siamo il direttore d’orchestra che decide se far entrare un nuovo elemento, ma solo quando migliora la melodia.
E per i franchising?
Ho parlato di marketing in generale, senza addentrarmi nei trend del nuovo anno per i franchising, come feci qualche tempo fa, ormai. In realtà, anche per le strutture in rete e il marketing per franchising, più che di trend, preferirei parlare di auguri. Gli auguri che mi faccio sono legati al metodo di marketing di Franchising Strategy, che si basa su tre livelli strategici: B2B, B2C, interno. Mi auguro quindi, davvero:
- franchising capaci di analizzare i clienti e scegliere i franchisee che vogliono, non quelli che alimentano il portafogli e basta. Meno opportunity seeker, più affiliati in linea con i valori della casa madre
- franchisor che supportino i franchisee con una strategia locale seria, operando quasi da agenzia di comunicazione per i propri partner. Il franchisor che ha strutturato una buona strategia di marketing ha la competenza e la responsabilità di guidare i propri franchisee, che lo hanno scelto – in teoria – anche per questo
- case madri che sappiano muoversi come aziende eticamente impegnate nella strutturazione di piani di marketing interno che facciano squadra tra sede e sedi. Ritengo fondamentale gestire piani di formazione, gruppi di lavoro, momenti di confronto e condivisione per la crescita. Se un imprenditore ha scelto di affiliarsi, non è perché vuole fare l’one man band, o almeno non dovrebbe essere così. Lo si fa perché si apprezza il lavoro di squadra e se ne riconosce il potenziale.
Franchising, B2B, B2C, qualsiasi tipo di azienda, in ogni dove, anche se non ha mai fatto marketing, ha una sua visione e strategia. Non si tratta di avere un account su Instagram o Facebook, di scegliere di fare un social commerce o di avere il blog meglio posizionato per una determinata parola chiave. Non ci sono trend da seguire. C’è tanto buon senso. C’è tanto coraggio. C’è bisogno di tornare a quello che è il marketing fuori dalle chimere. Torniamo a studiare Kotler, Drucker, avviciniamoci a Ferrandina e Al Ries, a Jack Trout; torniamo a confrontarci e a mettere in discussione ogni cosa che facciamo attraverso i numeri.
In fondo, il vero trend del marketing del 2020, è che nessuno ha inventato l’acqua calda, ma nonostante gli strumenti cambino, il digital sia veloce e siamo bersagliati dalle informazioni, le persone e le aziende comprano e le aziende vendono. Da sempre. Come lo fanno, in quanto tempo, attraverso quali leve, è tutto ciò che dobbiamo sapere per muovere quelle giuste anche -volendo – quelle più di moda.
Di tutto il resto, me ne infischio.
Buon Anno di marketing strategico.
E tu cosa ne pensi dei trend del 2020?
Se ti va, commenta, o scrivimi.
Franchising di successo, come si crea?
Aprire un franchising, gestire quello esistente. Un franchising di successo non è cosa facile da costruire, e la chiave è sempre partire dalle basi giuste. Nel web spopolano articoli di vario genere su come si apre un franchising. Sono testi anche ben strutturati, con spunti utilissimi, ma che mancano spesso, a mio avviso – a parte in alcuni rari casi – di due parti concrete che l’imprenditore che si avvia verso questo percorso dovrebbe tenere in conto:
- Da imprenditore a manager. Chi vuole aprire un franchising solitamente ha sviluppato un format vincente e ci ha messo anima e corpo. Bene, se l’imprenditore vuole sviluppare in franchising, meglio che capisca da subito che il corpo starà fuori dal negozio principale, dalla sede pilota in cui ha versato tutto il suo sudore. Si deve trasformare in un manager. Non è da tutti, si sa, e si vede in moltissimi format che, già nel breve termine, non hanno saputo svilupparsi alla stregua del sogno dell’imprenditore.
- La struttura interna, sia per lo sviluppo del brand, che per quello dei franchisee. Ho già avuto modo di trattare l’argomento dei diversi target dei franchising, parlando di franchisee e di cliente finale. Ma come si deve comportare il franchisor se vuole fare bene nei confronti degli uni e degli altri?
Franchisor: da imprenditore a manager
Hai un format che funziona, lo sviluppi da anni, ci metti anima, passione e tutto l’impegno che hai. Crei una macchina perfetta, almeno ai tuoi occhi, e te lo dimostrano anche i numeri. Inoltre, chi frequenta la tua attività ti dice che di posti come il tuo dovrebbero essercene altri. Magari – dico magari – qualcuno ti consiglia il film di McDonald’s, che ti dà lo spunto per dire: perché no? E allora si accende la lampadina e pensi allo sviluppo, cominci a informarti dal commercialista, leggi articoli, magari ti imbatti in una società di consulenza. Improvvisamente, il mal di pancia che avevi e ti portava a pensare che meritavi di più, si scioglie: aprire in franchising, avere altri punti vendita come il mio! Bellissimo, chi non sogna di diventare sempre più grande, conosciuto, noto e… diffuso?
Torniamo però con i piedi per terra. Cominciamo dal tuo commercialista: se non è un esperto di franchising, lascia perdere.
Il franchising non è pane per tutti e il rischio di fare errori è elevatissimo.
Non entro qui nel merito, ma è così. Chiedi quindi al tuo commercialista se ha mai gestito strutture in rete e com’è andata, fatti dare degli esempi e se non ce ne sono, affidati a qualcuno che ne abbia.
Ammettiamo anche che il commercialista sia bravo o che tu abbia trovato una persona giusta. Ora? La prima sfida che ho visto, è con te. Ti sei rimboccato le maniche nella tua attività e se ti vuoi espandere devi prima lavorare su di te. Non sarai più operativo, se apri in franchising, o almeno non come lo intendevi fino a prima di decidere di aprire. Diventerai un manager. Gestirai un team, lo sviluppo del brand, gli affiliati e, all’inizio, forse, anche le selezioni e i controlli. Attenzione! Diventare un leader che sappia fare il proprio lavoro non è da tutti. Formati da subito, studia, frequenta dei corsi che ti possano aiutare. Ci sarà un grande cambiamento nella tua vita, specie se le cose andranno bene. Cominciare da subito è fondamentale.
Vedo, ahimè, poco lavoro di questo tipo alla base dei lanci dei franchising e lo ritengo importantissimo. Nel tempo, per quanto tu sia affezionato al primo negozio/punto vendita che hai aperto, capirai che non puoi gestire il franchising stando anche a capo di quella sede.
Struttura di un franchising: come si fa?
Un franchising è fatto di tanto lavoro, stress, sviluppo. Ho visto pochi articoli che affrontano il tema della struttura di un franchising e dei suoi costi, come se bastasse mettere un annuncio di ricerca affiliati e le cose potessero andare per conto loro. Non è così.
Il franchisor deve sapere da subito che gli serviranno persone e che si dovrà creare uno staff.
All’inizio sarà ovviamente piccolo, ma un altro tema da affrontare sono le prospettive di crescita: più si cresce più si avrà bisogno di personale e di collaborazioni per gestire tutto al meglio.
Franchising: gli obiettivi
Che obiettivi ti sei dato? Che obiettivi vuoi raggiungere con la tua rete nel breve, medio e lungo periodo? Ovviamente, se rispetto a quanto detto sopra ti sarai circondati dei giusti professionisti, avrai un commercialista o un consulente che ti faranno un ottimo business plan, in cui vedrai anche i costi del personale. Ahimè quando si parla di franchising online, pochi parlano di costi del personale per aprire. Ho trovato un articolo di Mirco Comparini che tratta l’argomento mostrando delle tabelle per il piano economico di un franchising e devo dire che è la cosa, in questo momento, più utile.
Non entro nel dettaglio del piano economico o di sfere che non mi competono, ma se penso al reparto marketing di un franchising ho due convinzioni, maturate in questi anni di lavoro:
- Delegare tutto all’esterno è un male
- Il reparto marketing ci deve essere dall’inizio
Sì, certo, il personale costa e non è semplice, sono d’accordo, ma si può partire con una struttura ibrida, per poi arrivare a regime e si può farlo senza problemi. Pensarci da subito è fondamentale. Lo è non solo perché i network hanno bisogno di piani strategici e di analisi dei processi di acquisto. No, in realtà lo è molto di più perché fin da subito c’è un tipo di comunicazione che è fondamentale in rete: la comunicazione o marketing interni. Una delle più grandi responsabilità di chi fa marketing per i franchising è infatti saper gestire al meglio la rete che si andrà a costruire, con servizi, proposte, supporto.
Dal canto mio dico sempre che i franchising, lato marketing, sono delle piccole agenzie di comunicazione per i loro affiliati. E così dovrebbe essere. Esternalizzare tutta questa parte senza riferimenti interni è rischiosissimo. All’inizio, quindi, formati, comprendi, cerca di avere tutte le informazioni che ti servono.
Marketing per franchising, cosa dovremmo fare
Il reparto marketing o il consulente (che, come detto prima ha il ruolo di guidare il manager nella costruzione del reparto) devono saper fare tante cose, in primis analisi. Specie nelle prime fasi di avvio, va studiato bene come leggere i dati, come tradurli in azioni, come costruire e confermare il processo di acquisto da cui derivano le attività che faremo sui diversi canali che sceglieremo. In seguito, va compreso come gestire la lettura dei risultati che queste azioni ci portano.
Il reparto marketing di un network non ha solo questo ruolo. Deve costruire strategie di comunicazione che si rivolgano all’interno, agli affiliati, alla gestione della loro comunicazione e del loro benessere nel brand.
L’obiettivo di ogni franchisor dovrebbe essere la felicità dei propri franchisee, il loro benessere e il loro successo.
Certo, ciò presuppone che sappia selezionare gli affiliati giusti. Non è da tutti. Forse è la cosa più difficile, effettivamente, e non è questo il luogo per approfondire questo aspetto.
Affiliati, cosa si aspettano?
Un affiliato di un franchising rischia di sedersi sugli allori e pensare di essere passato da una forma di lavoro dipendente a un’altra (o lo fa almeno fino a che non incontra per la prima volta il commercialista :P). L’affiliato è parte integrante del franchising e diviene uno “di famiglia”. Quali servizi dunque si aspetta? Oltre a quanto detto in termini di risorse umane, il franchisee si potrebbe aspettare altro e ci sono davvero tante possibilità che una struttura in rete può offrire e costituire. Vediamone alcune:
- Gruppi di acquisto. L’unione fa la forza e, inoltre, fa il prezzo giusto. Se il franchising viene visto come una squadra, quella squadra può avere dei vantaggi nel comprare attrezzature e forniture che siano utili al suo miglioramento, anche economico. Ho intercettato franchising che hanno lavorato bene su questo, non solo fermandosi agli arredi e al materiale, ma andando a toccare anche – per esempio – le bollette della luce. Un franchising con cui ho collaborato ha lavorato tanto per l’abbattimento della tassa rifiuti, o per la gestione di corsi obbligatori come quello sulla sicurezza.
- Formazione. Dalla formazione alla vendita, alla gestione, il franchisee dovrebbe diventare l’imprenditore dei nostri sogni, quello che ci siamo immaginati a portare avanti il nostro marchio. Come possiamo pretendere di ottenere un risultato simile se non lo formiamo?
- Affitto/Location. Il franchisor può prodigarsi anche in questo, o offrire un giusto servizio, avendo il coraggio di scartare luoghi che non vanno bene ma anche di dare gli strumenti per trattare un contratto di affitto della sede locale.
- Benefit. Ce ne sono tanti che si potrebbero ottenere e, ammesso che si desideri che l’affiliato rimanga con noi il più a lungo possibile, offrirgli strumenti per il benessere di oggi, ma anche quello di domani, è la chiave. Mi viene in mente, per esempio, fare informazione sulla gestione del personale, sugli obiettivi, ma anche – semplicemente – trovare una forma di previdenza integrativa che funzioni.
Condividere, fare squadra, ottenere gli obiettivi prefissati. Nel mondo del franchising è fonte di stimolo e di miglioramento, se si tratta nella giusta maniera. Come fare? Io parto dalla mission e dalla vision, ma soprattutto dai valori. Mi capita talvolta di chiedere ai clienti come sognano che sia il network di qui a 5 o 10 anni. Chiedo che lo facciano con dovizia di particolari e li spingo a valorizzare e visualizzare ogni aspetto del loro business. Non è facile, ma mette in moto consapevolezze fondamentali per decidere come muoversi, quali servizi offrire e, quindi, come poter comunicare.
Location per franchising: l’importanza della selezione
Qual è la zona migliore per aprire un negozio?
Come si sceglie una zona per aprire un negozio e come dovrebbe supportare il franchisor i potenziali franchisee nella scelta della location più adatta per lo sviluppo della loro attività?
Ho coinvolto alcuni professionisti, che sentiremo in seguito, in un post su LinkedIn, a inizio settembre, in cui affermavo che
“Scegliere la zona giusta per aprire il proprio negozio in franchising non è una pratica scontata. Servono analisi di mercato, conoscenza del territorio e tanto altro, perché lì si gioca il futuro del franchisee”
personalmente so che ci sono degli abissi tra la gestione italiana e straniera delle aperture, e la cosa non si ferma alla scelta della location per il franchisee, moltissime aziende non si prendono per nulla cura del proprio affiliato dopo l’apertura, purtroppo.
L’analisi del mercato, del target, della zona di apertura, non sono cose scontate. Ci sono reti che possono funzionare in determinati contesti e altre no. So per certo che un noto brand di food, ad esempio, ha scelto i centri commerciali, in Italia, perché i costi di gestione di cucine e tavoli in altre aree, come quelle urbane, sarebbero stati proibitivi rispetto al margine prospettato per gli affiliati. Ci sono prodotti che sono ok per il nord Italia ma non hanno presa al sud, e viceversa. Il franchisor queste cose dovrebbe analizzarle, prima!
Un franchisor che non si occupa di questi aspetti rischia di illudere i suoi affiliati, che vengono disincantati appena comincia l’attività, con conseguente frustrazione e riversamento di un clima sfavorevole allo sviluppo anche sul resto della rete. Nell’articolo riguardo il caso Carpisa ho già avuto modo di citare il valore della comunicazione interna con i franchisee, un terzo aspetto di marketing che una catena non può dare per scontato (insieme al marketing per l’incremento della rete e per il dialogo con i clienti).
Come si può riuscire a trovare la zona giusta?
Un’azienda che ha deciso di sviluppare la propria rete in franchising lo sa, o almeno lo dovrebbe sapere: la location giusta per il proprio affiliato fa tanto. Zona industriale o zona artigianale? Già la destinazione d’uso dei locali che si individuano, in Italia, è un problema. Magari ti trovi con un potenziale negozio in una bella area ma non puoi cambiare la sua destinazione d’uso per renderlo il tuo punto vendita. Non è così inusuale. Anche ammesso che la destinazione d’uso sia ok, decidere la zona giusta non è facile.
Meglio stare vicino a un polo commerciale o a un centro storico? Meglio la via centrale o quella più defilata? Meglio una zona poco battuta ma con una location molto bella e ampia o una zona centralissima con una location più piccola?
Che tipologia di locali ci dovrebbero essere vicino al nostro affiliato per trainarlo? Se avete fatto caso alle aperture in franchising avrete notato che sono spesso ripetitive. Capita, infatti, che in una determinata area, dove penetra un determinato marchio, inizino poi ad arrivarne anche altri. Avete notato cosa succede quando da qualche parte apre un McDonalds? Improvvisamente nasce un nuovo polo commericiale/ristorativo. Strano no? Non tanto.
Alessandro Giuliani, ideatore e direttore di Mercatopoli e Baby Bazar, un tempo la fece come battuta: dove apriamo Mercatopoli poi si installa quasi sempre una di quelle catene di pesce surgelato. Un caso? Mah! Non essendo all’interno di quel franchising, non possiamo ovviamente saperlo, ma basta girare i centri commerciali, i centri storici o le nuove zone commerciali periferiche per capire che dove si innesta un determinato tipo di attività ne sorgeranno a breve altre.
Come si capisce, dunque, se un’area è davvero interessante per lo sviluppo della propria rete?
Mi è capitato qualche mese fa di confrontarmi con una collega che si è occupata dello sviluppo di un franchising prima di internet. Lei si chiama Gaia Provvedi e si occupa di strategie di marketing da molti anni, da quando, in sostanza, non c’era ancora tutta questa focalizzazione sul digital marketing. Gaia, che spero di intervistare a breve in merito, mi ha raccontato che era andata fisicamente nelle città di potenziale sviluppo, presidiando e analizzando la zona, scandagliando le attività esistenti, talvolta intervistando i negozianti vicini.
Oggi, con internet, anche Gaia potrebbe fare meno fatica. Dati Istat, società di ricerca e sviluppo, giornali online, mappe, ecc. Per fare il primo sopralluogo della zona non serve nemmeno più andarci fisicamente, può bastare Google Maps!
Incredibile! Perfetto? Direi di no.
Si è concluso non molto tempo fa il Salone del Franchising, che ho già citato nel mio articolo sulle potenzialità e le attenzioni che un franchisor dovrebbe avere quando decide di far aprire con il suo brand e nell’articolo sulle fiere dei franchising degli scorsi mesi, e l’occasione è ghiotta per ricordare la mia esperienza dello scorso anno, quando finsi di voler aprire la mia attività con questo sistema.
Cosa ho capito al Salone del Franchising?
Chiedendo in giro a molti franchisor, rispetto alla loro visione sulle strategie di individuazione delle zone, sono rimasta abbastanza allibita: quasi nessuno si preoccupava di capire bene che implicazioni avesse scegliere una zona piuttosto che un’altra, quasi nessuno mi ha detto di avere delle società a supporto delle aperture o una visione strategica chiara sulle aree di sviluppo in Italia. Che dispiacere!
Quando si costruisce una strategia per un franchising si potrebbero addirittura individuare con anticipo le zone in cui può essere interessante espandere la propria rete, lo sapevate?
Una piccola analisi iniziale sul territorio italiano, qualora si voglia creare un network nella nostra nazione, potrebbe consentire di capire fin da subito aree no e aree sì. Certo, non è sufficiente, ma è un punto di partenza per relazionarsi con chi vuole aprire con noi, in maniera davvero professionale. Quali dati considererei per fare questa analisi?
Innanzitutto la popolazione, per capire quale bacino vi possa essere intorno al punto vendita
data la popolazione, è fondamentale farne una minima analisi qualitativa, e non fermarsi solo a quella quantitativa. Che tessuto economico c’è in quella zona, quali industrie, che incidenza ha avuto la crisi?
E ancora: quante famiglie ci sono?
Di quali età?
Capiamo benissimo che aprire un negozio di abbigliamento giovane in una zona con età media sui 70 anni potrebbe essere rischioso, come aprire un marchio di moda luxury in un’area con reddito pro capite bassissimo, sotto la media italiana. Sono estremizzazioni, ovviamente, ma rendono l’idea.
Date le informazioni precedenti, si possono studiare i dati Istat, chiedere informazioni alle Camere di Commercio, verificare se vi siano concorrenti e che tipologie di Franchising abbiano già penetrato la zona.
Una valutazione, poi, andrebbe fatta sulle arterie di comunicazione, per comprendere quanto sia raggiungibile una determinata area. Mi sono capitate richieste da paesi sperduti del centro Italia, raggiungibili solo con strade tortuose e con il primo paese significativo a 7 km di distanza ma, di fatto, 30 minuti di auto. Si capisce che se quel paese disperso non ha un via vai elevato o un tessuto economico importante, sarà difficile sviluppare un business.
Il target, il tempo di riacquisto. I dati sopra esposti hanno poco senso se non analizziamo il target che vogliamo raggiungere e ogni quanto potrebbe aver bisogno di riacquistare da noi.
Se una persona è spinta a un acquisto ricorrente di un prodotto che possediamo solo nella nostra rete, capite che potrà fare anche qualche km in più per acquistarlo.
Se apro una panetteria in franchising a quei 7 km (e 30 di strada) quando nel paese più grande ce ne sono almeno 10 più comode, capiamo bene che non ha senso mettersi a confrontarsi.
La zona dipende dal target, e dal suo bisogno del nostro prodotto o servizio
… oltre che da una serie di altri fattori.
Come scegli la zona per i tuoi franchisee, come li supporti? Come colleghi i target alla zona in cui vorresti aprire?
Nella prossima puntata ho intervistato dei professionisti di altrettanti franchising per capirlo. Se ti va di leggere il proseguo e capire meglio come, dall’interno, avvengono le scelte delle zone di apertura per gli affiliati di un franchising, iscriviti alla newsletter.
Un concorso che dice, di fatto: vi facciamo un piano di marketing con uno stagista pagato per un mese, a mio avviso, non sostiene questa filosofia, né verso il mercato, né verso gli affiliati, che meritano altro.
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Fiera del Franchising 2017: da Milano a Valencia
Negli ultimi dieci giorni si sono svolte due importanti fiere per il mondo dei franchising: la fiera di Milano, il Salone del Franchising, e la fiera di Valencia, il Salón Internacional de la Franquicia.
Si tratta di due fiere del franchising storiche, l’una con i suoi 32 anni si attività, l’altra giunta ormai alla 28esima edizione.
Ho avuto la fortuna di partecipare a entrambe, potendo non solo cogliere le differenze tra il mercato italiano e quello spagnolo, ma analizzando soprattutto quale sia l’approccio in comunicazione e marketing di questo settore, nei due paesi.
La prima domanda che mi sono fatta, visitando entrambi, è come un franchising dovrebbe comunicare in fiera. La seconda riguarda un approfondimento che vorrei portare avanti sull’assenza dei big player, molto nascosti a Valencia, appena accennati a Milano.
Quando parlo di big player mi riferisco alle grandi aziende internazionali, che ormai hanno capillarmente coperto le aree commerciali e urbane di un gran numero di città nel mondo, dai marchi italiani come Calzedonia e co., fino a quelli esteri come Mc Donald o Pizza Hut.
Cosa significa partecipare a una fiera?
Partiamo da una domanda, che mi deriva dal percorso che sto seguendo con Manuel Faè ed Alessandro Sportelli, Web Marketing per Imprenditori:
le fiere sono strumenti della domanda latente o di quella consapevole?
Quando penso a una fiera di settore, ma in generale qualunque persona ci pensi, dovrebbe focalizzare la sua partecipazione cercando di comprendere in quale fase del processo di acquisto si inserisce.
Dunque, se con la tua azienda partecipi alla fiera campionaria o a quella di paese, quasi sicuramente stai intercettando domanda latente. Le persone sono lì per fare un giro, curiosare, mangiare le frittelle di Santa Lucia e tu, con il tuo stand, se sai comunicare bene, potresti incontrare il loro interesse.
Domanda latente, appunto. Genera un contatto? Non è detto!
Innesca un processo di acquisto? Forse.
Se sei bravo, ripeto, fornendo il giusto materiale o colpendo il pubblico con un messaggio davvero differenziante, o se hai la capacità di individuare in pochi istanti chi è potenzialmente un tuo cliente, potrebbe essere che a seguito di quell’incontro avvenga qualcosa di più concreto e utile per il tuo business.
Parte alta del funnel, pubblico ampio, interesse relativo. Tienine conto. Se punti tutto sulla domanda latente, spari nel mucchio, specie in eventi in cui, a meno che tu non abbia i superpoteri, c’è di tutto.
Ma le fiere di settore? Sono davvero strumenti della domanda latente? Io non credo.
Le fiere di settore, come le fiere del franchising di Valencia e Milano, sono strumenti della domanda consapevole.
Ora, se segui WMI da qualche tempo o hai letto Il succo del Web Marketing, saprai che la domanda consapevole ha diverse declinazioni.
Si parla di domanda consapevole generica, informativa o commerciale e di domanda consapevole specifica.
In fiera che tipo di domanda ti dovresti aspettare?
Chi partecipa a una fiera come quella del franchising potrebbe, in realtà, avere tutte e tre le tipologie di bisogni. Vediamo un po’.
In generale se scegli di dedicare una giornata a una fiera specifica di settore, a meno che tu non sia di Verona con i biglietti gratis per il Vinitaly per andare a bere con gli amici, sai che nella fiera troverai la gran parte delle informazioni e delle scibile di quel settore, tutto insieme, in un unico luogo e in pochi giorni! Interessante, no?
Se ti interessa un determinato ambito di sviluppo o vuoi conoscere determinate aziende, invece di doverle cercare su Google, chiedere in giro, o fare altri mille voli pindarici per intercettarle, potenzialmente le hai tutte lì, pronte per te. Domanda consapevole generica: voglio saperne di più, vado in fiera, dove potrò trovare informazioni ma addirittura vedere in faccia chi ci sia dietro un determinato business. So che il mio lavoro non va più come vorrei, sento di avere l’indole dell’imprenditore, mi attrae la possibilità di mettermi in proprio ma mi fa anche paura. Queste sono tutte leve che portano le persone a informarsi sui franchising.
In fiera possono trovare informazioni.
E se invece andassi in cerca di aprire con un determinato tipo di azienda? Magari ho la stessa spinta di chi cercava informazioni, ma di fatto, beh, vorrei aprire un ristorante, perché ho da sempre la passione per la cucina. Non so a chi rivolgermi, con chi fare l’investimento giusto, ma so che voglio cambiare la mia vita nel giro di un tot di tempo e che voglio farlo gestendo una cucina e gli avventori che vorranno cibarsi dei miei piatti. E in fiera, dunque, ho una forma di domanda più commerciale, rivolta al settore che io rappresento.
Voglio capire quale sia il franchising giusto con cui affiliarsi nel settore della ristorazione.
Ma se mi sono informato, ho letto tutte le riviste, ho ricevuto tutte le email dei funnel a cui mi sono iscritto, e mi sono dunque fatto un’idea specifica di quale sia il franchising giusto per me?
A questo punto, beh, la domanda consapevole è davvero specifica e in fiera potrò avere l’onore di prendermi del tempo per conoscere meglio chi ha inventato o porta avanti quella rete. Certo, potrei anche andare in azienda, ma la fiera è un terreno neutro, mi dà un’idea meno affettata di una sala riunioni costruita per raccontarmi quanto sia bello affiliarmi con quel brand.
Esiste la possibilità di convertire?
Se un cliente è pronto a parlare proprio con il tuo brand, sì, potrebbe essere. Se viene in fiera proprio per quello, per discutere un contratto, ci potrebbe stare. Uno dei miei clienti ha costruito un funnel molto approfondito e usa le fiere per parlare con i clienti che già hanno scelto di affiliarsi. Ma le usa anche per invitare a conoscerlo chi è ancora indeciso e sta valutando varie strade.
La fiera è un evento. Come tutti gli eventi ha un prima, un durante e un dopo e, non si capisce come mai, spesso gli eventi si dimenticano del prima e del dopo.
Non è che si scordino della becera organizzazione logistica, eh, quello no. Si scordano però della strategia che può stare dietro una fiera, nel comprendere come inserirla nel processo di acquisto, come renderla uno strumento utile del funnel di vendita, come finalizzare, poi, i contatti ricevuti.
Da Valencia a Milano, il mio punto di vista sulle fiere
Purtroppo non posso essere clemente con il Salone del Franchising di Milano e con il Salòn de la Franquicia di Valencia. Sì, perché oltre alle aziende che espongono, ci sono anche le strutture che fanno la fiera, che dovrebbero comprendere di avere due clienti importantissimi: l’espositore, e il visitatore. Senza l’uno non esiste l’altro, senza l’altro non parteciperebbe mai l’uno. Funzionano, insieme.
Le fiere del franchising di Valencia e Milano sono state, purtroppo, poco lungimiranti, sia nei confronti degli espositori che in quelli dei visitatori. Sono ancora momenti molto importanti, eventi unici nel loro genere, ma vengono comunicati e diffusi male, purtroppo, tanto che i big player ormai mancano, che le aziende si affidano a degli aggregatori dove il rapporto umano viene un po’ a mancare, e che i visitatori, talvolta, rimangono delusi dell’offerta.
Nonostante questo, organizzano incontri e momenti di formazione di valore, non solo con aziende che presentano i loro servizi, ma anche con professionisti che agevolano la focalizzazione verso il settore e le sue potenzialità, oltre che verso nuovi approcci utili al business. Non entro qui nello specifico degli interventi sul mondo del franchising che ho seguito sia in Italia che in Spagna, o nelle occasioni di confronto con franchisee o franchisor, ma di fatto – forse anche per il costo elevato di partecipazione –
alle fiere manca ancora qualcosa per affacciarsi a un nuovo modo di concepire questo canale, più moderno e vicino alle esigenze del visitatore e dell’espositore.
Non facciamo di tutta l’erba un fascio. Ci sono fiere che ancora oggi hanno dei perché molto forti, indiscutibili, come ho visto durante il mio intervento a Expo Network Forum di GRS, lo scorso luglio.
Se sei un franchising e vuoi attrarre nuovi franchisee attraverso la fiera, dunque, cosa dovresti fare?
Innanzitutto, darti un obiettivo.
Qual è lo scopo di partecipare alla fiera?
Se ne hai già fatta almeno una, è facile: cerca di fare meglio della precedente. Come? Controlla i contatti raccolti, le presentazioni fatte, le brochure distribuite, ma soprattutto, controlla quali risultati hanno avuto nel lungo periodo: hai raccolto solo contatti farlocchi? O tra chi ti ha visitato c’è stato chi ti ha poi portato una affiliazione? E di che tipo di contatti si trattava? Solo curiosi o persone veramente interessate?
Quando mi interfaccio con gli imprenditori che devono partecipare a una fiera il grande tema è: ma in fiera non c’è tempo di fare tutto quello che dici. Vero. Ho fatto per 10 anni una delle fiere più stressanti di Verona, Vinitaly: 7 giorni su 5 tra organizzazione e gestione dello stand. So bene cosa significa lo stress da fiera. So altrettanto bene che, però, se non finalizzi i tuoi obiettivi, farai presenza, come tanti altri, e allora forse ti potrebbe costare meno un commerciale che telefono a tutti i tuoi potenziali clienti per due mesi. Qualcosa raccoglie, se ha stoffa.
Ricorda allora che in fiera devi lasciare un segno di te, specie se qualcuno viene per informarsi.
Sia a Milano che a Valencia, ahimè, ho visto, oltre a una fiera del franchising, la fiera delle banalità. “Siamo i leader”, “risultati immediati”, “nessuna fee di ingresso”, “i più innovativi”.
Emanuele Maria Sacchi, consulente e formatore alla vendita, in uno dei tanti corsi in cui ho avuto la fortuna di sentirlo parlare, diceva: “ma lo puoi mettere nella carriola?”. Forse, solo ora, capisco appieno cosa intendesse. I leader. Possono dirlo tutti. Ma dimostrarlo con numeri concreti, che si possano mettere – idealmente – in una carriola, chi può farlo?
Inoltre, quando dici una cosa del tuo brand, prova a prendere un altro brand, magari tuo concorrente. Se sostituisci il tuo nome con il suo la frase ha comunque senso? È coerente? Se lo è, hai un problema, di omologazione.
In fiera potrebbero esserci tanti come te. Devi farti ricordare. E puoi farlo con una marcia in più: la tua presenza.
Le persone che incontrerai si ricorderanno del tuo brand ma anche di come ti sei posto, se sei stato convincente e credibile. Chiedono informazioni, ti sei preparato a dargliele? Ha ipotizzato la gran parte delle domande che ti potrebbero venire rivolte e hai deciso come rispondere ma, non solo, hai trasmesso a chi sta in fiera con te come ti aspetti che le diano? Non è facile. Ma fa parte della preparazione, di quel pre-fiera che non è solo decidere la posizione del bancone di accoglienza dello stand.
E poi, durante la fiera, che strumenti usi per raccogliere informazioni utili, feedback, dati?
Lì davanti a te hai il tuo cliente, probabilmente il migliore: è venuto in fiera per informarsi sui franchising. Come cerchi di raccogliere i suoi dati e le informazioni che potresti dargli? Hai un modo per raccogliere i suoi dati? E di quali dati hai bisogno?
“Non c’è tempo, Silvia”.
E’ sempre questa la scusa. Leggi sopra:
se pensi che non ci sia tempo, stai sprecando il tuo tempo lanciando ami in un lago in cui non sai se ci siano pesci.
Se hai investito in una fiera, investi in un/a ragazzo/a, carino/a e formato/a, che ti faccia da segretaria e raccolga i dati. Tu ti potrai dedicare ai clienti, lui/lei a questa parte burocratica. È un’idea, ma un modo si trova.
Perché dovresti raccogliere i dati in fiera?
Il funnel di cui parlavamo ha diversi livelli. Alcuni sono più lontani dall’acquisto, altri meno. Un potenziale cliente che viene in fiera potrebbe essere più vicino all’acquisto di quanto immagini. Vuoi perdertelo? Io penso di no. E in fiera potrebbe non essere pronto a firmare un contratto di affiliazione, ma magari, di lì a poco, nei giorni successivi, potrebbe rielaborare quanto visto e volerne sapere di più. Farai in modo di ricordargli da subito che tu sei interessato a lui/lei o aspetterai come gli ebrei che scenda la manna dal cielo? Non so se quello lassù sia ancora così magnanimo…
Se hai i dati dei tuoi clienti, qualcosa potresti fare, fra le altre, creando credibilità nel tuo cliente, che a ben vedere, tra qualcuno che non si fa più vivo e tu – magari meno interessante sulla carta – che ti fai sentire e dimostri di avere una strategia, potrebbe decidere per te.
Post evento. Come lo curi? Come continui una relazione che possa provare ad accompagnare la persona che hai incontrato sempre più vicina alla conversione?
Ti dirò di più. Una persona decide di abbandonarti. Dopo averti visitato in fiera, dopo aver letto qualche email, dopo averti sentito al telefono alla fine dell’evento per valutare l’affiliazione al tuo marchio, ti dice che non è più interessata. E tu pace, la lasci andare così, senza proferire parola. Ma come? Ti è mai venuto in mente che chi non sceglie per te potrebbe darti informazioni utili per migliorarti? Se hai creato un rapporto, perché non provi a chiedergli un feedback che magari ti può essere utile come autoanalisi?
Se sei un franchising emergente, se hai appena scelto, dopo un test su uno o più punti vendita pilota, di diventare un franchisor, i feedback sono importantissimi, anche quelli negativi.
La fiera è utile solo per i franchising in fase di startup?
Ahimè, entriamo nella seconda parte della mia analisi delle due fiere di Valencia e di Milano. I big player non c’erano. In questo caso, mi sono ripromessa di fare un approfondimento specifico.
Alla fiera di Parigi sono ricomparsi, mi ha detto Elena Delfino di StartFranchising. Al Salone del Franchising di Milano e al Salòn de la Franquicia di Valencia, però, non c’erano, oppure erano velatamente presenti attraverso le associazioni – specie in Spagna – di Franchise.
Nessuna scoperta del brand che c’è dietro, del team che mi supporterà, del mondo a cui potrei andarmi ad affiliare. È triste, ma ha il suo perché.
Le aziende grandi hanno innescato un processo di inbound marketing in cui la forza e riconoscibilità del brand, la sua diffusione e capillarità, rendono i potenziali affiliati alla ricerca dell’affiliazione. Sono strutture talmente consolidate che in genere si possono permettere un’altissima selezione, non hanno bisogno di aprire qualsiasi porta al mercato, di farsi conoscere. Le persone che vogliono aprire la loro attività alle volte fanno a gara per accaparrarsi una zona per aprire in franchising ancora libera.
Un’altra storia, che non voglio approfondire qui, dove già mi sono dilungata abbastanza, tra Spagna ed Italia.
I due mercati sono uguali?
No. In Spagna c’è molta più fiducia nei franchisor, in questo sistema di imprenditorialità guidata. In Italia c’è ancora dubbio, sfiducia, un po’ di resistenza.
Il settore si è macchiato, negli anni, per colpa di imprenditori poco accorti, tanto che oggi anche i più etici, quando partono, fanno fatica, e le obiezioni comuni sono sempre quelle.
In Italia, poi, c’è un tema scottante, che anche il Salone di Milano ha portato alla luce:
manca la visione imprenditoriale. Chi apre in franchising, spinto spesso dalle possibilitià offerte da un TFR, pensa che il franchising sia una forma di lavoro dipendente. Non lo è.
Quando si parla di contratto di franchising si parla di collaborazione, di esperienza, di know how. Affiliarsi e diventare franchisee però non significa stare dietro una scrivania. Mi ha fatto specie una domanda, uscita proprio a Milano durante uno degli interventi sul diventare franchisee: cosa significa essere imprenditori? Bella domanda. Una bellissima domanda su cui i Franchisor dovrebbero interrogarsi prima di affiliare, per arrivare a scegliere la persona giusta, quella che porterà davvero avanti il proprio brand, anche – perché no? – con la possibilità di costituire fra gli affiliati dei percorsi ancora poco sviluppati nel nostro paese, ma ben consolidati in Spagna o in America, per esempio, per diventare Master franchisor.
Ma questa è un’altra storia.
Da Valencia, e Milano, è tutto, e quindi – come si dice – linea allo studio.
Se ti interessa approfondire il mondo dei franchising o desideri supporto per la tua strategia di marketing per franchising, scrivimi o iscriviti alla newsletter. Grazie di essere arrivato a leggere fino a qui. A presto!
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Franchising: cosa significa? Nasce prima il brand o il network?
Il Franchising ha compiuto gli anni qualche giorno fa. Almeno in Italia. Pare che il primo a creare un franchising in Italia sia stata la Gamma D.I., con 55 punti vendita, il 18 settembre 1970. Non importa quanti anni abbia questo tipo di business, sta di fatto che, ancora oggi, c’è da fare un po’ di chiarezza.
Ho provato a spiegare meglio cosa sia un franchising, almeno sulla carta. Ho cercato di recuperare le varie definizioni che si trovano in giro, per dar loro un senso, ampliando il ragionamento fino a un’annosa questione: è più importante il cliente o il franchisee? Infine, ho cercato di ragionare sul perché, sia per il cliente che per il franchisee, prima di tutto sia importante far nascere il brand, e sostenerlo.
Cosa significa Franchising?
Franchising è la derivazione di una parola francese: franchise, che significa franchigia, privilegio.
Secondo Google, la definizione corretta, in italiano, è: “Contratto mediante il quale un’azienda concede il diritto di commercializzare i suoi prodotti o servizi usando il suo nome o marchio ad un’altra azienda, dietro pagamento di un canone.”
Secondo Wikipedia, invece: “Il franchising, o affiliazione commerciale, è una formula di collaborazione tra imprenditori per la produzione o distribuzione di servizi e/o beni, indicata per chi vuole avviare una nuova impresa, ma non vuole partire da zero, e preferisce affiliare la propria impresa ad un marchio già affermato.”
La legge italiana, dal canto suo, dice così, parlando di affiliazione commerciale: “contratto, comunque denominato, fra due soggetti giuridici, economicamente e giuridicamente indipendenti, in base al quale una parte concede la disponibilità all’altra, verso corrispettivo, di un insieme di diritti di proprietà industriale o intellettuale relativi a marchi, denominazioni commerciali, insegne, modelli di utilità, disegni, diritti d’autore, know how, brevetti, assistenza o consulenza tecnica e commerciale, inserendo l’affiliato in un sistema costituito da una pluralità di affiliati distribuiti sul territorio, allo scopo di commercializzare determinati beni o servizi”.
Chiaro, no? Ehm…
Gli elementi di un franchising sono dunque
- affiliazione
- marchio già esistente
- collaborazione tra imprenditori
In cui si prevedono l’uso e la fruizione di
- marchi
- modelli
- diritti d’autore
- know how
brevetti - assistenza
- consulenza tecnica e commerciale
Con scopo di
- avviare una propria impresa
- commercializzare prodotti e/o servizi
Eppure, quando usiamo questa parola, non sempre lo facciamo “a proposito”. Ci sono diverse tipologie di franchising, in Italia, e non solo, tanto che si parla di affiliazione o, in maniera più ampia, di network, alle volte addirittura, in maniera forse un po’ impropria, di network franchising.
Sotto a questi cappelli, quello che conta è il fatto che ci sia una sede centrale che, capillarmente, si distribuisce attraverso una rete, su un territorio. Di fatto, anche una rete (network) commerciale ha, se vogliamo, dinamiche simili a un franchising, laddove i franchisee sono i commerciali, appunto, che l’azienda dovrebbe attirare a sé per avere la migliore rete possibile sul mercato.
La caratteristica principale, semplificando, è quella che vi sia
un marchio che deve distribuirsi su un territorio e che, se da un lato deve trovare chi l’aiuta a farlo (la rete), deve supportare anche questa rete con una strategia capace di attrarre clienti finali verso i punti vendita, perché dia risultati utili alla sede.
Contorto? Insomma. Di fatto è un circolo.
Franchisee o cliente finale, chi viene prima?
Un brand che si deve diffondere deve essere appetibile a chi lo può diffondere ma anche a chi, attraverso quei contatti, compra i suoi prodotti, interagisce con il marchio, vi si affida e vi si fidelizza.
Dunque è più importante per un brand essere credibile e avere tanti affiliati, ovvero una rete commerciale forte, oppure avere clienti finali che rendono quella rete funzionale?
È un po’ come chiedersi se sia nato prima l’uovo o la gallina, e potremmo disquisirne all’inverosimile. È più importante avere clienti finali o una rete strutturata?
I franchising lavorano o dovrebbero lavorare su due piani: creare la capillarità e allo stesso tempo generare profitto rivolgendosi al cliente finale.
In un precedente articolo sul perché aprire in franchising abbiamo visto questo aspetto e come, nel nostro paese, non sia semplice individuare e lavorare su entrambi i clienti di un franchising.
Io credo che ci sia una questione anche etica, di fondo, da analizzare, che entra a pieno in quello che denominiamo franchising ma che spesso non lo è.
Come si struttura un franchising?
Partiamo dalla strutturazione del business.
I franchising propriamente detti sono realtà che, attraverso un contratto, affiliano degli imprenditori che si vogliono dotare di quel brand e del suo know how per aprire sul territorio.
Esistono anche formule diverse di affiliazione, ad esempio quelle in cui un franchisor partecipa in parte allo sviluppo di quella attività (franchising proprietari o in co-proprietà). In sostanza, il franchisee può detenere al 100% le quote della sua attività o condividerne una parte con il franchisor, o meglio, viceversa, è il franchisor che – in genere – concede una gestione totale o parziale, per quanto, parlando di questa tipologia di attività, sia veritiera una gestione totale.
Un brand ha diverse sedi sul territorio lo sa bene, seppur spesso applichi forme diverse di gestione. Dal lato del franchisee cambiano le tipologie di responsabilità e, internamente, cambia la tipologia di gestione e, per esperienza, la tutela del brand.
Non è facile affidare ad altri la propria immagine, laddove per immagine si intendono una serie di aspetti molto importanti di corporate identity. È un po’ come – l’ho già scritto in precedenza – affidare la propria figlia a un uomo: se sarà quello giusto per la vita, beh, per quanto ci vogliamo credere, non possiamo saperlo. Se la tratterà bene finché morte non li separi, rimane un’incognita. Se, in itinere, scoprirà che è attratto da altre donne, non possiamo saperlo. Certo, nei contratti di franchising ci sono tantissime clausole, ma per esperienza, a seconda di esse, fatta la legge, trovato l’inganno. Non è semplice da spiegare, ma sono diverse le capacità di tutela e di gestione, sia a seconda dell’affiliato, sia a seconda dell’affiliazione. E, senza entrare nel merito del tipo di contratto, cosa che magari avremo modo di approfondire in futuro, di fatto c’è anche un senso di partecipazione, derivato dagli interessi in essere e dalla modalità di affiliazione.
Esistono dei franchising, per esempio, che non occupano tutta l’attività, o che forniscono sono dei corner, all’interno delle attività già esistenti e avviate con un proprio marchio. Capita spesso che, chi vi si affilia, lo faccia per diversi interessi. Se, nello stesso punto vendita, ci sono altri corner, anche non concorrenziali fra loro, è una bella faccenda da sbrigare.
Come fai ad essere certo che il tuo affiliato valorizzerà allo stesso modo te e l’altro brand, come puoi tutelare la tua reputazione, che inevitabilmente passa attraverso la gestione di quel punto vendita?
Nel rapporto, a diverso titolo, con il cliente, ne va dell’immagine del brand, sia verso i propri clienti finali che verso i potenziali franchisee che possiamo attrarre.
Se un brand si sviluppa in questo modo, dovrà creare una rete commerciale e di supporto molto forte, offrire dei servizi, garantire uno sviluppo costante, dare supporto ai suoi franchisee. Pena, considerata l’alta concorrenza che ormai è presente in tutti i settori, che per interesse e profitto, il franchisee si rivolga altrove. Leggevo in un sito di un noto Franchising “Con il suo staff di qualificati professionisti, Calzedonia assiste l’affiliato prima e dopo l’apertura del punto vendita. Consulenti di Area e Zona (1 persona ogni 10 punti vendita circa) sono presenti periodicamente nel negozio per confrontarsi e dare consigli in collaborazione con l’azienda.”
Franchising e comunicazione interna
Io non credo che le dinamiche di affiliazione di questo tipo di settore si allontanino molto da quelle di comunicazione interna, da quella teoria che dice che le aziende di domani (oggi!) sono quelle che attirano le loro risorse, in chiave simile a quella commerciale. Ne ha accennato Annalisa Galardi nel primo articolo sul caso Carpisa, “il tema centrale è come si costruisce l’appartenenza, la fiducia in un brand di cui possa voler essere ambassador”.
Sei un professionista di valore e sai che in un’azienda si sta bene, che ti può far crescere, che fa quel che dice? Se ti ritieni capace, vuoi crescere, o semplicemente valorizzare le tue capacità, desidererai di lavorare in aziende che ti valorizzino, in cui ti puoi sentire a tuo agio, sceglierai le aziende che fanno al caso tuo. Ne parla anche Paolo Gallo, direttore risorse umane del World Economic Forum nel suo libro: La bussola del Successo. Senza star qui a parlare del volume, che consiglio a tutti, dipendenti e aziende, funziona in modo simile per i franchisee o per chi pensa di poter ampliare il proprio business: cercherò aziende che mi consentano di farlo, che siano credibili, che mi diano dei servizi, oltre che prodotti eccellenti. Una strategia di marketing per franchising dovrebbe tenere conto anche di questo.
Se un tempo un franchisor poteva preoccuparsi relativamente poco dell’operato di un suo affiliato, oggi, con la cassa di risonanza che può avere il web, se ne deve preoccupare eccome.
Questa presentazione dei franchising vuole essere una fotografia sulla situazione attuale, che avremo modo di approfondire. La modalità di affiliazione e i bisogni dietro all’apertura di un franchising, o corner franchising che sia, sono talmente tante che non basta un articolo.
Scegliere l’affiliato giusto, che diventi un brand ambassador
Capire da subito le intenzioni del proprio affiliato è la chiave, per una buona strategia di marketing. E non è facile realizzarla. Molti franchisor non se ne preoccupano, rischiando notevoli danni di immagine. E il cliente finale, seppur possiamo disquisire all’infinito su uovo e gallina, è la chiave.
Soddisfatto o insoddisfatto che sia, il cliente finale parlerà del brand, attirando potenziali affiliati o potenziali clienti, sui due piani di diffusione del franchising.
Che il negozio, o il corner, o la produzione, si trovino a Canicattì o a Trepalle, il web non ha confini, e la gente parla, specie se è insoddisfatta.
Online non esistono confini. Se hai un marchio e ne stai curando la distribuzione commerciale dovresti saperlo, e premurarti di operare affinché i tuoi affiliati siano in grado di attrarre e servire clienti soddisfatti.
Il successo di uno, in questo caso, è inevitabilmente il successo di molti.
Brand reputation di un franchising
Curare la reputazione di un brand in franchising è molto complesso, proprio per la diversità di risorse che si mettono in gioco per affiliarsi. Ne ho parlato la scorsa settimana analizzando il caso del Concorso Carpisa, che ha rischiato di minare la reputation del brand.
Strategicamente, un franchisor dovrebbe avere le antenne sempre alzate, per carpire malumori, bisogni e generare una rete che operi al meglio. Un reparto marketing ben strutturato può saperlo fare, ma potrebbe essere necessario un monitoraggio esterno, un’analisi del sentiment che va oltre le semplici recensioni, addirittura richiedendo studi sociologici o clienti misteriosi che forniscano feedback sui punti vendita.
Se stai aprendo un franchising o ne stai gestendo uno e ti ritrovi con queste problematiche, o hai compreso quanto sia importante tutelare il tuo brand, ci sono tecniche e approcci che possono aiutarti: non c’è da aver paura, semplicemente, è bene curare da subito, e in fretta, la giusta strategia di marketing e comunicazione per il tuo marchio e la tua rete.
Questo articolo tocca marginalmente argomenti più ampi sulla corporate identity di un franchising. Grazie per essere arrivato fino a qui.
Il mondo dei franchising è complesso e multisfaccettato, riassumerlo in poche righe non è semplice. Se vuoi rimanere aggiornato sui prossimi articoli sull’argomento, iscriviti alla newsletter (e, se ti va, condividi queste analisi con chi potrebbe essere interessato).
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Carpisa, un franchising che avrebbe potuto (o) voluto mettersi in gioco (seconda parte)
Parlavamo di Carpisa, nella prima parte di questo articolo sui concorsi per franchising, e di un’opportunità mancata per un franchising, di mettersi davvero in gioco e fare la differenza, facendo parlare di sé con notevoli impatti – positivi – sul suo business.
Carpisa, dicevamo, vanta staff giovane, politiche del lavoro innovative e ha fiutato, con questa iniziativa, un modo nuovo di fare un concorso. Fiutato, non sfruttato. Come mai? Cosa avrebbe potuto fare Carpisa e di cosa dovrebbero tener conto i franchising quando fanno iniziative simili?
Riprendiamo da dove eravamo rimasti…
6. La gestione di un concorso per un franchising e il ruolo dei franchisee
Innanzitutto i franchising sono realtà particolari. Come dicevo nell’articolo su Aprire in Franchising dove ho cercato di sottolineare l’importanza di capire che i macro target di un franchising sono due e possono essere ben diversi tra loro (franchisee e cliente finale), è fondamentale non dimenticare mai le azioni che si svolgono su questi due piani e programmarle in maniera strutturata.
Non entro nel merito della gestione specifica del concorso per Carpisa, di cui non posso valutare le dinamiche interne, ma mi ha molto toccato, entrando in uno dei negozi, sentire una commessa che diceva “noi abbiamo detto subito che era un’idea pessima, difatti non ne stiamo parlando per nulla ai clienti”. Mi ha colpito per due motivi, questo approccio:
- Se hai un franchising dovresti preoccuparti di come i franchisee e i loro dipendenti parlano di te. Anche questa è diffusione del brand. Non è la prima volta che nei negozi, specie delle grandi catene, sento persone che si lamentano degli orari impossibili, dei turni che precludono il tempo libero con la famiglia e cose simili. Questa cosa, però, fa male, sia al brand che a chi ci lavora, nei punti vendita. E la sede centrale dovrebbe attivare politiche di monitoraggio del sentiment interno, se vuole attrarre nuovi clienti sui due piani di cui parlavo.
- Se hai un franchising e pensi a una bellissima iniziativa per i clienti finali, dovresti per prima cosa far in modo che i tuoi franchisee la sposino e la diffondano. Un’iniziativa come un concorso, in primis. I franchisor spesso si preoccupano solo di proporre ad alcuni negozi il progetto, chiedendo loro di aderire in cambio di un costo di gestione dell’iniziativa straordinaria progettata dalla sede. Questo crea già di per sé qualche problema: in primis perchè in genere non tutti aderiscono, così da creare confusione nella clientela (come mai da te posso partecipare e da quell’altro no?); e poi perché la percezione del franchisee è che ci siano talmente tanti costi aggiuntivi caricati su di lui che un’iniziativa in più non abbia sempre il focus giusto per fare la differenza e portare nuova clientela in negozio. E torniamo lì: perché aderire?
Ripeto, questo potrebbe non essere il caso di Carpisa, visto che i franchising hanno modalità diverse di invogliare la partecipazione alle iniziative di marketing (c’è chi prevede un costo annuale fisso, chi coinvolge gli affiliati, chi invece propone costi aggiuntivi una tantum, ecc.) ma
quando una realtà con più sedi decide di operare nei confronti del cliente finale, se vuole agire come brand, deve trovare il modo che la diffusione e il coinvolgimento nel progetto sia massimo.
Mi auguro che Carpisa, almeno, abbia tentato questa strada e che tutti i negozi abbiano aderito, se non altro per coerenza. Poi, d’altro canto, mi chiedo se non sarebbe stato possibile fare una specie di sondaggio tra franchisee e loro dipendenti per capire che sentiment potesse generare l’iniziativa, che se tanto mi da tanto, viste le reazioni dell’opinione pubblica, un “due più due” avrebbero potuto farlo prima di lanciarla.
7. L’analisi, prima di tutto. Come si può sfruttare la rete per capire pro e contro di un progetto di comunicazione. Anche a costo zero
Questionario, dicevo prima, anche a costo zero. Tra i propri clienti, visto che Carpisa ha una card, ad esempio, con tutti i dati. Ma anche interno, un questionario, tra franchisee e dipendenti degli stessi, o tra i suoi dipendenti in sede. Possibile che non fosse davvero capace, un brand così attento, di comprendere se una iniziativa di marketing avrebbe potuto dare poco o molto lustro alla sua reputation?
Carpisa ha 600 punti vendita nel mondo. Quanti saranno in Italia? Chi si occupa di ricerca potrà pur dirmi che i sondaggi, per avere valore, devono abbracciare un certo numero di persone, ma io mi chiedo davvero se un’azienda che vanta di avere delle policy interne di gestione del personale di un certo tipo non si sia posta minimamente il problema di offendere i giovani con questo progetto.
Ormai non è più difficile analizzare il mercato, organizzare gruppi di ricerca, fare dei sondaggi di opinione per capire se quello che abbiamo in mente possa funzionare o meno.
Ci vengono spesso tante belle idee creative rispetto a modi inusuali di dialogare con il mercato. Funzioneranno? Come possono essere visti all’esterno? Alle volte, semplificando, possono bastare 5 minuti di dialogo con 3 persone diverse per capire che se ci fermiamo a quanto sia bello un progetto sulla carta, rischiamo di farci male. E per un franchising la questione, a mio avviso, è ancora più delicata. Il franchisor non solo ha la responsabilità dei franchisee, ma della loro reputation di fronte ai clienti e al brand, e sono strettamente correlati, considerato che
gli affiliati, nei loro negozi, sono l’avamposto del marchio, prodotto o servizio, diventano la sua carta d’identità, la sua faccia di fronte a chi compra.
Soprattutto, con i franchising con cui mi interfaccio, noto spesso questa voglia di fare cose innovative a tutti i costi, per poi scoprire, dall’analisi, che mancano attività di base come la gestione di un CRM dei clienti, la corretta gestione degli strumenti di marketing online per franchising, una carta dei valori condivisa, la capacità di analizzare il territorio per le aperture e tante altre cose che non è il caso di trattare qui.
Carpisa avrebbe dunque potuto fare un’analisi veloce e avere risposte immediate sulla fattibilità di questo concorso e i risvolti che avrebbe potuto avere sull’opinione pubblica, aggiustando il tiro prima di lanciarlo? A mio avviso sì. Come ho detto nella prima parte, questo concorso poteva essere un’opportunità.
Quando ho cominciato a valutare l’impatto sociologico di un prodotto o di un servizio, cercando di capirne il posizionamento sul mercato, anche grazie alla figura di un sociologo bolognese dell’Università di Verona che ho tanto odiato ai tempi dell’Università e tanto apprezzato, poi, sul lavoro, Domenico Secondulfo, mi si sono aperti dei mondi sulle possibilità di comunicazione dei franchising, e oggi metto sempre in discussione la percezione che posso avere io rispetto al mercato e quello che invece il mercato sente o pensa di un prodotto o di un servizio. Siamo esseri umani influenzati, a mio avviso, da tantissimi input. Viviamo però di cliché e preconcetti e non è facile farci cambiare idea su alcune cose, specie se sono radicate nella nostra cultura.
Chiederci a monte cosa rappresentiamo o possiamo rappresentare per il nostro cliente è un passo che viene ancora prima del posizionamento della nostra marca nella loro mente. Le parole chiave che ci rappresentano cosa significano per loro? Cosa significa stage per un ragazzo? Cosa significa lavoro per chi ha da 18 ai 30 anni? Cosa significa realizzare un progetto creativo e che quel progetto venga realizzato? Un giovane vorrebbe avere la possibilità di fare dei progetti per un’azienda? E come vorrebbe che gli venissero riconosciuti? Queste cose avrebbe dovuto chiedersi Carpisa, se non altro se l’obiettivo del suo concorso voleva essere quello di abbracciare quel target di mercato, i ragazzi dai 18 ai 30 anni. Quale vero obiettivo vi sia dietro a questa iniziativa e come lo stiano misurando, ahimè, non lo sapremo – forse – mai.
8. Lanciarsi nel vuoto, senza paracadute. Perchè se sviluppi il tuo brand, prima ancora di un concorso, si potrebbe pensare a investire altrove. Tra brand reputation e community management
Dicevo che vengo coinvolta in progetti molto creativi per le aziende. Concorsi, campagne spettacolari, storytelling creativi con costi imponenti. E poi scopro che gli strumenti di Facebook per i franchising non sono settati, che non ci si è chiesti come fare un piano editoriale nazionale con degli obiettivi concreti, che mancano le sedi sulle mappe di Google e che Google My Business non è mai stato impostato.
Ancora peggio, capisco che non ci sono politiche di tutela del brand nei contratti, per l’online, laddove mancano le giuste voci che parlano di utilizzo dei social e dei siti internet. Magari, ancora peggio, mi rendo conto che alcuni franchisee, sconfortati da una mancanza di gestione interna, si sono organizzati con siti propri, che hanno sviluppato progetti paralleli che possono generare forme di concorrenza interna o – anche – mettono in discussione la credibilità del franchisor agli occhi degli altri franchisee.
Io credo che oggi i franchising dovrebbero per prima cosa mettere in ordine gli strumenti e dotarsi di risorse che li aiutino a gestire in maniera organizzata e strutturata tutti gli strumenti, dall’offline all’online.
In Italia ci sono tante lacune su questi aspetti, troppe. Se un brand lascia un’immagine buona di sé verso il suo cliente finale, il cliente si rivolgerà a quel brand, esso otterrà un buon posizionamento, i franchisee arriveranno proprio perché il brand può garantire clientela di un certo tipo.
Ho visto molte lacune negli strumenti online utilizzati da Carpisa, una gestione dubbia dei CRM e della Marketing Automation, tensioni nei negozi. Ho visto gruppi su Facebook che ne parlano parecchio male, commenti online difficili da gestire, una reputation sul prodotto abbastanza dubbia.
Al di là che il concorso potesse essere una bella opportunità, io credo che prima di questo ci sarebbero state delle cosine da sistemare, e che debba essere uno degli obiettivi di tutti i franchisor, non solo per una forma di rispetto dei franchisee, che vi si affidano, ma anche per una corretta gestione della propria presenza e della propria brand reputation, su cui non possono permettersi di sgarrare.
Quello che un tempo poteva essere un punto vendita “pecora nera” in un paesino sperduto, di cui nessuno sapeva nulla, oggi, con l’online, è visto in maniera universale e influenza anche tutti gli altri franchisee.
9. Il concorso perfetto. Ecco cosa avrebbe potuto fare Carpisa, aumentando l’investimento ma, potenzialmente, incrementando visibilità e credibilità aziendale
Quale poteva essere il concorso Carpisa perfetto, dunque? Proviamo a ripercorrere un piano strategico, partendo dall’obiettivo, ipotetico.
Obiettivo: voglio ampliare la percezione del brand Carpisa verso le ragazze più giovani
Come lo raggiungo? Ho pensato al concorso per un progetto creativo sul brand di Penelope Cruz. Idea: offro uno stage a chi mi presenta il miglior progetto così con 500 euro magari ottengo qualcosa di buono. Al massimo, ci avrò perso 500 euro e i costi di gestione del concorso. Questo è quello che hanno fatto, anche con scarsa fiducia nei giovani.
Come avrei operato?
- Visto che si tratta di un concorso, avrei cercato di capire se il premio sarebbe stato allettante. A chi lo chiedo? Al target. Come lo trovo? Online, ma anche nei miei negozi o nei miei uffici, o tra i figli dei miei dipendenti o franchisee. Un po’ di pensiero laterale, please.
- Mi sarei chiesta se questo premio rispettasse i valori del brand. Uno dei dati che oggi ho in mano di Carpisa è quello relativo alle notizie, diffuse dalla stessa azienda, su politiche di HR innovative, inserimento di lavoratori giovani e apertura a un mercato del lavoro più smart e young. Insomma, non mi immagino un Big G dei franchising, con piscina interna e tanti benefit (siamo pur sempre in Italia) ma un’azienda che nel suo piccolo ha questi principi.
- Avrei cercato di capire se, fuori, vi siano iniziative simili o vi siano state e avrei chiesto a chi le ha organizzate – potendo – la loro opinione. Ci sono le società che organizzano hackhaton che sono molto preparate sul tessuto sociale dei giovanissimi e la loro predisposizione rispetto a questo tipo di iniziative.
- Dai risultati, avrei tratto spunto per trasformare il progetto in una iniziativa non solo di promozione su un target, ma di storydoing, per raccontare la mia azienda e la sua vision, oltre che il tessuto interno, sposando la comunicazione interna e quella esterna in un progetto di storytelling che andasse a raccontare non solo il pre del concorso, ma anche il durante e, dopo, lo stage, trasformando il ragazzo o – più presumibilmente – la ragazza, in una specie di testimonial “de noantri”, una persona che veramente vive l’azienda e i suoi valori e li può trasmettere. In un mese? Direi di no… ecco, quello no.
- Avrei cercato di chiedermi con dei formatori o dei coach come costruire un progetto di stage di valore, in modo che anche fuori dall’azienda, vincitore o vincitrice potessero mantenere alto il concept dell’iniziativa, anche dopo.
- Avrei cercato di capire quale fosse il vero premio in denaro adatto a quello che chiedevo.
In sostanza, come ho già accennato prima, avrei fatto un concorso diverso, dove l’analisi, che sto facendo ora ma che un colosso come Carpisa avrebbe sicuramente potuto fare a monte, trasformasse davvero un’idea in un’opportunità, non solo per il marchio ma anche per i franchisee.
Immaginiamoci un concorso tipo:
Ti piacciono le borse della collezione Cruz? Ti piacerebbe diventare il responsabile del prossimo progetto Carpisa e sviluppare un tuo piano marketing internamente all’azienda, coadiuvato dal nostro reparto marketing, per imparare veramente come avviene il lancio di un prodotto e avere la possibilità di firmarlo con il tuo nome?
Carpisa cerca te! Candidati online (senza obbligo di comprare una borsa!) e presentaci il tuo progetto, in base a questo brief (e qui un brief dettagliato). Inviaci un documento che abbia al suo interno almeno queste caratteristiche (con la definizione del formato e uno standard di presentazione, uno schema). Una giuria di esperti composta da (nomi e cognomi o quantomeno ruoli, tipo direttore marketing Carpisa, presidente, un esponente universitario, per esempio, ecc.) valuterà gli elaborati e i 10 migliori verranno chiamati in Carpisa per presentare il progetto alla giuria (spesati dall’azienda, con visita interna e presentazione delle iniziative, ecc. ecc.) che valuterà il candidato ideale per uno stage di 6 mesi per lo sviluppo del progetto, a Napoli, con rimborso spese e vitto e alloggio a carico dell’azienda. Il progetto vincitore riceverà un premio di x euro (qui da quantificare) mentre gli altri nove riceveranno dei – buoni? – da spendere in Carpisa (?) oppure altri micro premi per aver partecipato ed essere stati a Napoli, tipo (da valutare, insomma). La giuria valuterà in base a questi parametri (e giù un elencone molto chiaro). Gli obiettivi dello stage saranno … (e anche qui il valore aggiunto di dire: posso mettere nel CV di aver fatto questo tipo di esperienza, e non farò uno stage a fare fotocopie…).
A fronte di questo sarebbero stati da raccontare tutti i momenti pre, fino all’inserimento in azienda dello stagista e una specie di diario di bordo delle sue giornate.
Costoso? Complesso? Certo! Ma quanto verranno pagate le Cruz per mettere la loro firma su una linea di borse? Io credo che al di là del progetto il valore aggiunto di un concorso simile vada ben oltre un tentativo di dialogo con questo target. Quanti marketer, riviste, giornali, avrebbero potuto parlare dell’iniziativa, se l’avessero realizzata così?
10. Purché se ne parli. Ha stancato. Ma funziona?
Ormai è risaputo che il trend degli haters è uno dei nuovi trend delle strategie di marketing e che ci sono delle iniziative che nascono dalla conoscenza delle dinamiche dell’ingerenza dell’opinione pubblica per lanciare un prodotto o un’iniziativa e farne parlare più a lungo possibile. Ne abbiamo disquisito a lungo sul caso Buondì Motta, che non è la sede giusta per parlarne, e sinceramente non vorrei qui arrivare a creare una parentesi così lunga da abbracciare anche questa tematica.
Io non credo, per la reazione di Carpisa, che questo sia uno di quei casi in cui si è deciso di far leva sugli haters per trascinare un pubblico. Si entra troppo in un ambito delicato come quello del lavoro su cui i giovani non vogliono per nulla scherzare.
Vedremo se Carpisa saprà cavalcare l’onda, trasformare questo miserrimo mese in una vera opportunità per ribaltare la percezione che continua a persistere di questo concorso. Vedremo se, tra tante righe scritte in merito, oltre che rispondere con poche righe da ufficio stampa, sarà in grado di ribaltare una percezione diffusa, che passa dallo sfruttamento di chi lavora nei negozi e arriva a uno stage sottodimensionato per ripagare un’idea.
Vedremo, dicevo, perché le iniziative di marketing vanno comunque valutate sui numeri, e sono pronta a ricredermi, che magari il tessuto sociale intorno a Carpisa si sia mosso in maniera proattiva rispetto a questo progetto.
Al di là di questo, per costi, modalità, gestione, approccio, non avrei mai proposto un’iniziativa così, come l’abbiamo vista sulla carta, a un mio cliente, specie se si tratta di un franchising, laddove spesso anche i franchisor più attivi e capaci vengono visti con sospetto perché è ormai diffuso che i franchisee vengono attratti, carpiti, contrattualizzati e poi abbandonati al loro destino.
Se un franchising in Italia vuole fare la differenza credo debba passare dalla percezione della gestione dei suoi franchisee, offrendo strategie locali di creazione della clientela e sua fidelizzazione,
accompagnando un imprenditore a diventare tale, dando tutti gli strumenti a chi si fa da promotore del suo brand sul territorio per avere introiti tali da giustificare l’investimento, creando dinamiche di partecipazione e coinvolgimento che siano in grado di supportare anche i franchisee meno attivi, come in una famiglia, in cui proprio perché si crede nel brand, si sostiene chi lo porta all’esterno.
Un concorso che dice, di fatto: vi facciamo un piano di marketing con uno stagista pagato per un mese, a mio avviso, non sostiene questa filosofia, né verso il mercato, né verso gli affiliati, che meritano altro.
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