Facebook Local: marketing su Facebook per attività locali, la App
Facebook Local è la app di Facebook che riunisce le attività locali presenti nel social media, in un’unica piattaforma che fornisce agli utenti risultati relazionali. La app consente di navigare i luoghi, gli eventi, i ristoranti e i locali per il nostro tempo libero, le nostre relazioni, i nostri incontri.
La app è da mesi attiva sugli store del mondo anglofono, ma è stata rilasciata per il mercato italiano solo negli ultimi giorni.
Vediamo insieme
- la storia di questa app,
- i suoi perché,
- le sue funzionalità,
- il legame con le pagine facebook locali,
- le possibilità di implementazione per le strategie di marketing per i piccoli imprenditori locali
- il suo legame con le attività di marketing per franchising, che hanno più punti vendita sul territorio.
Cerchiamo di capire come questa app rilanci i progetti Facebook Places e Facebook Services, di cui ho avuto modo di parlarvi in un capitolo sul marketing locale su Facebook già nel 2016 nel libro di Alessandro Sportelli, La pubblicità su Facebook, solo i numeri che contano. Vediamo, infine, la app e il suo legame con Facebook City Guide, di cui ho trattato la scorsa estate.
Cos’è Facebook Local?
La sezione di Facebook dedicata al progetto dice, testuali parole, che si tratta di
“Discover places to go and events happening near you. All powered by the people you know and trust.”, scoprire posti dove andare ed eventi che si svolgono vicino a te, il tutto “offerto” dalle persone che conosci e di cui ti fidi.
Già nella descrizione, che possiamo vedere come una mission, ci sono alcuni aspetti di comunicazione che ci portano a ragionare in modo molto attento sull’intento alla base di questo nuovo progetto del social blu. Vediamoli insieme:
- Scoprire posti in cui andare: si riunisce in questa app, quindi, la vecchia struttura di Places, lo strumento di Facebook per trovare le attività locali, che era stato integrato mesi fa nella app e nella search di Facebook, per poter supportare le ricerche che sempre più gli utenti facevano rispetto alle attività da visitare, o che si fanno consigliare, facendolo solitamente con due intenti:
- Capirne il valore attraverso le recensioni e i consigli degli amici
- Poter comunicare attraverso l’immediatezza di strumenti come Messenger
- Scoprire eventi vicino a te: esisteva una app, lanciata all’incirca a ottobre 2016, con questo nome: Facebook Events. L’intento era quello di riunire gli eventi locali in un unico posto, ma in realtà consentiva di fare di più: Facebook Events era un vero calendario a disposizione dell’utente. Un calendario innovativo, in cui le attività quotidiane si integravano con la scoperta di nuove possibilità nella propria città o in quella in cui si stava viaggiando.
- Near you: vicino a te. Facebook sa bene che le relazioni sono importanti, nasce per questo. Dove avvengono il maggior numero di relazioni? Intorno a noi. Dar loro valore aiuta il buon Mark a mantenersi utile, utilizzato, funzionale per gli utenti.
Ma la vera cosa che fa la differenza, che avevo sottolineato anche nell’articolo su Facebook City Guide, è la seconda parte della descrizione che Facebook fa del suo nuovo strumento:
- Offerto dalle persone che conosci: chi ci dà le informazioni? Quelli che conosciamo? Chi sono? I nostri amici.
I nostri amici su Facebook costruiscono le informazioni che possiamo trovare su Facebook Local. Interessante. Non solo perchè sono nostri amici, ma come dice infine Facebook, perchè di loro…
- ... Ti fidi. Questa è la vera chiave, il potere che Facebook sa di avere: la fiducia che si genera tra persone che si conoscono, e che si influenzano. Si parla sempre di più di micro-influencer, ovvero di persone che possono influenzarne altre in una cerchia ristretta, molto affine a quella che creano naturalmente. Potremo aprire un capitolo enorme sul valore dei legami forti e di quelli deboli, per citare uno dei maestri della sociologia moderna, Granovetter. Non voglio mettermi a parlare di sociologia, ma quello che accade nelle persone è per forza strettamente legato alle relazioni che creano, e Facebook lo sa. Per citare un altro maestro, ma della vendita, stavolta, tiro fuori dal cilindro anche la Legge del 250 di Joe Girard, che diceva, in sostanza, che ognuno di noi può influenzare altri 250 suoi conoscenti. E cosa fa Facebook? Fa in modo che ci possiamo influenzare, perché tra di noi ci sono rapporti di fiducia. Di più: se ci conosciamo, la fiducia è settoriale, ma la vedremo poi.
Local Marketing, perchè è importante?
Si parla di Local Marketing da anni, ormai.
Il Local Marketing, sia per Facebook che per Google, è un tema estremamente delicato. Si tratta di una declinazione del marketing che ha caratteristiche particolari e che esula dai piani di marketing tradizionali. Il marketing locale si è infatti evoluto dopo l’esplosione dell’utilizzo di dispositivi mobili.
Le nostre azioni in mobilità influenzano i nostri risultati di ricerca su Google e, piano piano, stanno influenzando anche lo sviluppo di nuove strumentazioni mobili collegate alle auto, che si chiamano App in Car. Per rendere chiaro il ragionamento, che è abbastanza semplice: Google ci propone risultati diversi se facciamo ricerche locali dal desktop di casa, solo potenzialmente con l’intenzione di andare in quel posto, oppure se lo facciamo dal nostro telefonino, magari mentre siamo molto vicini a un luogo, oppure in procinto di farci dare indicazioni stradali per andarci. Chiaro no?
Il modo in cui navighiamo da mobile è diverso da quello con cui ci muoviamo sul computer di casa, i bisogni che abbiamo sono spesso differenti.
Finora esistevano servizi interessanti, ma meno performanti e relazionali per muoversi in viaggio o nel proprio territorio, come Yelp e Tripadvisor (lo vedremo poi) e questi non avevano la componente relazionale. Google lo sa. Facebook lo stava osservando e lo sapeva più degli altri in virtù della sua capacità di creare connessioni tra persone esistenti.
Lo stava osservando in particolar modo sul local marketing perché la relazione che esiste tra brand importanti e persone e tra brand locali e persone, è decisamente diversa, laddove l’esperienza che facciamo in un luogo, ci porta a sentirci più coinvolti, a maggior ragione se abbiamo avuto modo di interfacciarci con chi lavora in quel luogo. Persone che veicolano pagine verso le persone. Teniamola lì.
Facebook Local, come funziona
Riassumiamo, riprendendo la storia del marketing per attività locali su Facebook
- Facebook aveva creato Places
- Facebook aveva creato Services
- La search di Facebook è stata subito implementata con le attività locali, integrando Places e Services per dare risposte agli utenti sulle loro ricerche locali (vi invito a vedere le schermate del capitolo sul Local Marketing su Facebook che avevo scritto per il libro di Alessandro Sportelli, dove si vedono le modalità di ricerca e di filtro per l’individuazione dei luoghi; oppure vi invito a seguire il mio intervento a Web Marketing Festival 2017)
- Facebook sviluppa e amplia le possibilità per le attività locali, introducendo nuove funzionalità come i menu, lanciando ufficialmente
- Facebook fa arrivare le City Guide
- Facebook implementa i consigli oltre alle recensioni, per chi fa check-in in un determinato luogo e chi vuole fare post per chiedere suggerimenti agli amici
- Facebook lancia la App Local.
La app di Facebook è uno strumento nuovo, utile ed estremamente intuitivo. Si può scaricare sia dall’app store di Google che da quello di Apple. Appena installata sul telefono, si collega con l’account Facebook e mostra la schermata iniziale, una dashboard con le principali funzionalità. L’app chiede subito per quale città si voglia avere le informazioni, andando a suggerire gli ultimi luoghi in cui ci si è geolocalizzati. Ho avuto modo di vedere la confusione relativa alla mia geolocalizzazione specifica, essendo spesso in trasferta per lavoro. Ho impostato, quindi, Verona. Mentre scrivevo l’articolo mi trovavo a Bologna e, nonostante la navigazione sia avvenuta su Verona, all’inizio, alla prima riapertura Facebook Local mi ha individuata su Bologna, suggerendomi quindi eventi e luoghi di questa città.
In alto viene mostrata una finestra di ricerca, per navigare tra le aree distintive della app, guarda a caso tipologie di luoghi (musei, ristoranti, caffè, bevande, attrazioni, ecc.) ma anche tipologie di esperienze/eventi (teatro, acquisti, religione, partiti, networking, musica, letteratura, salute, cause, giardinaggio, giochi, cibo, fitness, film, bevande, commedia, benessere). Il focus, in questo momento, è estremamente puntato sugli eventi, di cui ci sono tutte le declinazioni.
Sotto alla maschera di ricerca si trovano delle icone evocative, su due righe, con alcuni servizi ricercabili in maniera immediata: ristoranti, caffè, bevande, attrazioni; la seconda riga è legata agli elementi di ricerca più relazionali: nelle vicinanze, amici, segui già e la sezione “altro” che riporta alla maschera di ricerca con i suggerimenti prima esposti.
La bacheca iniziale continua con alcune scelte, allineate a menu: per te, eventi, guide. Nell’area eventi ci sono quelli che avranno luogo a breve, a seguire quelli di oggi, di stasera, dei giorni successivi. La cosa simpatica è che prima di vedere gli eventi, si vede una griglia dei giorni della settimana dove ci sono nuvole e sole, apparentemente sembrerebbe che si sia integrato il meteo, ma all’esplosione del giorno non torna il riferimento sulle previsioni, solo l’elenco eventi.
Gli Eventi su Facebook Local
È palese che nella sua forma la app, che era stata lanciata in autunno nei paesi anglofoni, si focalizzasse sugli eventi, a recupero del flop di Facebook Events. In effetti, già nei primi secondi di navigazione gli eventi hanno lo spazio maggiore.
La schermata iniziale si chiude infatti con una toolbar con tre pulsanti. Il primo tasto, la home, mostra quanto detto finora, quello centrale apre la mappa con gli eventi suggeriti, l’ultimo, con la data, rimanda a quella che sembra la vecchia versione di Facebook Events, con il calendario eventi dove è possibile aggiungere eventi di Facebook o aggiungere eventi personali, come in un calendario. Se si aggiunge un evento di Facebook si passa alla schermata di creazione, come nella app nativa, ma si possono creare solo eventi privati. Se si aggiunge un evento del calendario è possibile, invece, sincronizzare i propri calendari online, scegliendo tra quelli del telefono.
Facebook Local e le attività locali
Per navigare tra le attività locali di interesse possiamo selezionarle dalla schermata iniziale o dalla maschera di ricerca. Facebook ci propone un’area riservata a ogni categoria, come ad esempio i ristoranti, dove, in alto, compaiono i filtri di ricerca, la rilevanza, la possibilità di scegliere solo luoghi aperti ora o frequentati dagli amici. Possiamo navigare i luoghi sia da mappa che da elenco. È molto interessante che si possa da subito filtrare per luoghi visitati dagli amici.
Quando abbiamo cominciato a parlare di domanda latente, e dovevo spiegarla agli imprenditori, siccome credo che con le parole semplici e gli esempi concreti, che evocano immagini, si faccia molta più strada, mi ero chiesta come far capire le differenze tra domanda latente e domanda consapevole ai miei interlocutori. Me lo sono chiesta a tal punto che in uno degli scorsi Web Marketing Festival il mio intervento è cominciato con un siparietto che rievocava questo esempio, banalissimo, in realtà.
Ho riportato la domanda latente e la domanda consapevole indietro nel tempo. Faccio un inciso: se conosci il ConnectionFunnel® o hai sentito parlare del metodo per l’analisi del processo di acquisto alla base di una strategia di web marketing, questi termini ti saranno familiari, se non ne hai sentito parlare, tieni conto che il processo che conduce un cliente dalla scoperta del tuo prodotto/servizio all’acquisto comincia in genere dalla domanda consapevole o da quella latente. Mi spiego meglio.
Ci ricordiamo tutti come funzionava un tempo la ricerca di un ristorante? Ebbene, se lo domando a una delle mie classi in genere la gran parte mi risponde: Pagine Gialle. Qui casca un po’ l’… la memoria. Le pagine gialle sono state uno strumento utilissimo, ma erano un elenco, e lo erano della nostra città: era difficile avere quelle di altre città. Se volevo un ristorante a Milano come facevo? Beh, generalmente si chiedeva. Si chiedeva a conoscenti o amici, oppure all’ente del turismo, che ci forniva l’elenco con suggerimento velato dell’addetta, la quale non poteva sbilanciarsi in giudizi, ma poi lo faceva sempre. Ecco, questa è domanda consapevole: ho un bisogno, il ristorante, penso ai canali in cui trovare la risposta, pagine gialle, amici, iat, ecc., faccio l’azione: vado al ristorante. Domanda consapevole.
Capitava, alle volte, che fossimo a cena da amici, fuori casa a fare una passeggiata, al telefono con un parente. Nel raccontarsi esperienze vissute, magari poteva emergere che si era stati a questo o quel ristorante, così, pour parler. Ecco che, se la descrizione toccava le nostre corde (ho mangiato del pesce fantastico, non conoscevo il sushi e lo devi provare, avevano una bistecca che si tagliava con la forchetta, ecc.) fissavamo nella memoria quel luogo, per il futuro. Cosa aveva risvegliato in noi quel parente/amico? Domanda latente. Noi non stavamo cercando un ristorante, in quel preciso momento, ma lo abbiamo scoperto e fissato nella nostra memoria.
Ne deriva, lo capirete, che la domanda latente è generalmente passiva, mentre quella consapevole, per ovvie ragioni, attiva.
Ora, dopo questi esempi, cosa vi viene in mente pensando al web? Come minimo avrete pensato a una ricerca su Google per la domanda consapevole e a un annuncio su Facebook, o un post di un amico che ha visitato un ristorante, per la domanda latente.
Questo doveroso inciso sul ConnectionFunnel® e le tipologie di domande, con Facebook Local e la modalità di intervento sui luoghi, ci fa capire che Facebook sta lavorando in maniera molto pesante sulla domanda latente, andando a incrociarla con quella consapevole a un livello prima, forse, sconosciuto, quello relazionale.
Cosa non funziona, o potrebbe non funzionare, in una ricerca di un ristorante su TripAdvisor? Beh, al di là delle teorie su complotti orditi ai danni delle strutture e di tutte le recensioni false che negli anni si sono comprate, TripAdvisor, è evidente al confronto con Facebook, non ha il piano relazionale. Già due anni fa al Web Marketing Festival lo sottolineai: io non conosco chi scrive su TripAdvisor se non attraverso il suo avatar. Certo, se navigo la piattaforma posso farmi un’idea degli avatar più autorevoli, ma di fatto quello che vedo sono persone che non conosco e di cui so poco o niente, a parte un badge e i loro viaggi.
Cosa succede invece su Facebook? Su Facebook vedo quello che fanno i miei amici. Chiunque nella schiera dei suoi amici ha l’esperto di turno, no? Oppure un riferimento per determinate esperienze. Se penso al cibo in Toscana, per esempio, io mi avvalgo di Gaia e Filippo, se invece penso a un posto dove bere buona birra, la mente va subito a mio cugino. Se voglio un riferimento per lo shopping sento Alessandra, così come se sto valutando un viaggio vado con la mente ai miei amici o conoscenti che sono già stati in questa o quella località dove io vorrei andare. Chiaro no? Ecco, questo per dire che la schermata della ristorazione, dei bar, delle attrazioni, si presenta proprio così: suggerisce i luoghi, per primi, in cui sono stati i nostri amici, indipendentemente dalle recensioni che hanno. Basti vedere che su Bologna, ad esempio, il primo ristorante è stato visitato da parecchi amici, ha un punteggio di 4,7, mentre il secondo, seppur sia stato meta di molte conoscenze, ha un 3,5. L’algoritmo non si ferma qui con la proposta di risultati, ma vedremo anche questo.
Facebook Local: i risultati di ricerca
Come ragiona Facebook nella sua – chiamiamola – serp? Si sta discutendo molto sulla search di Facebook, specie oltreoceano. Sappiamo benissimo, dalle ultime dichiarazioni di Mark Zuckerberg, che
la piattaforma si sta trasformando in qualcosa di diverso dal progetto iniziale: il luogo delle discussioni e del voyerismo deve diventare un luogo di informazioni e utilità.
Facebook sta ragionando in questo senso per darci contenuti utili, informazioni preziose, risorse che ci facciano pensare al suo loghetto blu se abbiamo un preciso bisogno. Osservando i comportamenti, specie nei miei viaggi all’estero, ho visto sempre più persone che navigano Facebook in una maniera più evoluta di quella che siamo soliti tenere in Italia. Si cercano gli eventi, tantissimo, per esempio. Oppure si cercano luoghi in cui mangiare. Le prime funzionalità della search, sono proprio queste. Poi Facebook si sta evolvendo anche nella comprensione delle parole chiave, ma siamo a una ricerca che ricorda forse il Google di più di dieci anni fa, e in più non è argomento di questo articolo.
Come ci propone Facebook i risultati di ricerca? Come tutti gli algoritmi, Facebook sa bene che anche il suo è segreto, lo deve rimanere e che noi possiamo muoverci prevalentemente per supposizioni.
Ci sono una serie di fattori che aumentano il ranking, il punteggio, di una pagina rispetto a un’altra, e sono facili da intuire, specie quando si parla di Local Marketing:
- Il check-in. Le persone che si registrano in un luogo sono quelle che danno valore a quel luogo e ne aumentano la credibilità. Lo fa già Google, anche se marginalmente, con i grafici di affluenza che vediamo nelle schede di My Business. D’altro canto, viene da sé che, dai, se un luogo è frequentato, forse vale davvero la pena andarci, no? È un po’ l’effetto del ristorante pieno quando siamo in vacanza: andiamo in quello dove non c’è nessuno o rischiamo di aspettare anche una mezz’ora fuori da quello dove vediamo tanta gente, magari felice?
- Il consiglio. Quando ci registriamo in un luogo, anche se non siamo fisicamente lì, capita che Facebook ci chieda se lo consiglieremo. La risposta è un sì o un no, punto. Nell’articolo sulle guide mi sono chiesta dove finiscano questi consigli. In realtà, ancora non lo si sa bene. Ma, visto che con le recensioni ogni tanto ci facciamo a pugni per mancanza di tempo o perché non abbiamo voglia di esporci, il consiglio rimane più superficiale e può comunque essere un elemento di riprova sociale. Vedremo come verrà usato in futuro
- Le recensioni. Qui si apre un capitolo. Non importa quante e di quale spessore siano, ma tenete conto che le recensioni di una pagina vengono viste in modo relazionale da tantissimo tempo, tanto che ogni persona, di fronte a un luogo, ha le sue. Facebook ragiona in modo relazionale, quindi proponendo le recensioni di persone più vicine a noi, e in modo temporale. Se due ristoranti hanno lo stesso punteggio, anche a disparità di numero di recensioni (uno lo ha ottenuto con 200, l’altro con 400, per esempio) cerca di proporci sempre quelle più utili, andando a scandagliare, oltre che la relazione, la temporalità: recensioni più recenti hanno più peso di recensioni di tantissimo tempo fa.
- Luogo verificato. Se ne parla da tanto, ormai credo sia sdoganato: i luoghi verificati, a detta dello stesso social media, hanno più visibilità degli altri. Punto. Non c’è molto altro da dire.
La nuova app Facebook Local introduce la possibilità di scegliere i luoghi, però, anche in base alla rilevanza di uno o più di questi fattori, filtrandoli per
- rilevanza, che si basa sull’aspetto relazionale influenzato dai fattori su esposti
- valutazione, in base alle recensioni, come fanno TripAdvisor e gli altri
- distanza, in base alla vicinanza al luogo in cui ci troviamo
- popolarità, in base alle interazioni e visite degli amici, ma non solo. Questo aspetto della popolarità potrebbe riguardare in parte, a ben vederlo, quel “luoghi frequentati dalla gente del posto” che compare nelle guide di Facebook. Da studiare meglio, di sicuro. Al momento mi sbilancerei a dire che i più popolari siano luoghi frequentati e che hanno eventi programmati, ma vedremo…
Facebook Local per le Pagine Locali
Parlare di serp di Facebook può essere un abominio per molti, anche perché Facebook ci propone risultati che saranno differenti tra app e app, profilo e profilo.
Ognuno di noi ha una sua identità, per cui ognuno di noi ha il suo mondo relazionale e Facebook gestisce le sue proposte in base a quello che gli dice l’algoritmo di noi, in chiave di utilità.
Detto questo, se hai un’attività locale e non ti sei mai posto il problema di cavalcare le ricerche di Facebook, o lo hai visto solo come il social su cui postare, ora devi vederlo come uno strumento di marketing strategico che va oltre la scoperta. Da oggi, con la App di Facebook Local, se prenderà piede come pare Facebook voglia fargliene prendere, le persone ti potrebbero scoprire sul social blu in un modo diverso da quello usuale. Se prima ti scoprivano attraverso le sponsorizzazioni o attraverso i post degli amici che venivano a visitarti, oggi potrebbero farlo in modo più consapevole.
Su Facebook vado per cazzeggiare, sulla App Facebook Local vado perchè ho un bisogno informativo, sono nell’area della domanda consapevole.
Attraverso il mio bisogno consapevole, scopro qualcosa. Facciamo degli esempi:
- voglio fare qualcosa di diverso, vediamo che eventi ci sono in zona. Apro la App Facebook Local e scopro eventi
- voglio mangiare qualcosa di buono nella mia città ma non mi va di disturbare gli amici, vediamo cosa mi suggerisce Facebook in base alle mie relazioni. Apro la App
- sono in una città nuova, non so dove andare, oltre alla possibilità di chiedere un consiglio sul mio profilo, posso aprire la app e vedere chi ha visitato quel luogo
Interessante, vero?
Dunque, una piccola check list per capire se ti stai già muovendo bene in virtù di questo nuovo mondo di ricerche relazionali:
- se fai eventi, crei bene la loro scheda? Sì, lo so che poi hai 300 interessati e solo 2 partecipanti, ma cambia prospettiva, ora, lo devi fare
- hai verificato la tua pagina locale
- hai impostato bene la categoria o le categorie della tua pagina?
- stimoli la registrazione nel tuo locale?
- stimoli le recensioni? Quante ne hai?
- quando ti lasciano recensioni negative rispondi in maniera proattiva, in modo che non sia una risposta per chi ha scritto ma per gli altri n-mila che ti leggono e che devono avere il ragionevole dubbio che tu sia nella ragione?
- stimoli anche offline i like alla tua pagina in modo da ampliare il range di chi ti segue?
- hai messo gli orari giusti del tuo locale e li cambi quando cambiano?
- l’indirizzo e il numero di telefono sono corretti?
- come te la cavi su Instagram?
- usi le ads di Facebook più specifiche per le attività locali? Solo una nota, in questo: Facebook funziona ancora benino, per il local, in organico, ma senza un po’ di budget in advertising, beh, si fa poca strada.
- per altro, come va con il tracciamento delle conversioni offline?
Local Marketing, come si integra la nuova app di Facebook?
Se hai seguito la mia check list hai già fatto dei passi avanti per il Local Marketing su Facebook. In più, ti invito a
- impostare bene messenger e gli autorisponditori, specie se non puoi essere h24 su Facebook perchè il tuo locale richiede le tue attenzioni offline
- di controllare bene la tua pagina e farti aiutare a impostarla al meglio
- di verificare se puoi agire sulle recensioni, anche se è passato del tempo
Il Local Marketing non si risolve in un articolo ma credo fermamente che questa app abbia buone potenzialità per ampliare i ragionamenti che se ne faranno in futuro, e che vada osservata con attenzione nelle sue evoluzioni, specie quella con le guide e con la search.
Se hai un’attività locale dovresti sempre domandarti, in primis, il processo di acquisto dei tuoi clienti e, a naso, se lavori tanto con il passaparola, sappi che ora si è traslato davvero online. Quello che non ti ho detto finora va oltre la app: quando scopro che un amico è stato in quel luogo, infatti, Facebook Local mi consente di accedere a una scheda riassuntiva di quel profilo, collegata alla app nativa. In questo modo posso subito mandare un messaggio a un mio amico per approfondire l’esperienza che ha fatto in quel luogo. Non male, vero? Pensiamo a quando la integreranno, magari, con WhatsApp…
Marketing per Franchising su Facebook Local: cosa devi sapere
Se hai un franchising e tante sedi sul territorio, beh, come direbbe qualcuno… muoviti. La forza di un franchising è la rete e la possibilità di diffondere a livello centrale le attività di tipo locale.
Facebook Locations, lo strumento per franchising, che raggruppa sotto a un’alberatura le diverse sedi di un brand, come si può vedere in alcuni dei recenti casi che ho gestito, ad esempio Mercatopoli, Baby Bazar, o Coworking Cowo e altri, è la chiave per la gestione delle attività in rete. Le sedi sono già inserite in Facebook Local e si possono navigare in ricerca diretta, attraverso il brand. Vengono proposte solo le sedi più vicine, in genere, anche se è possibile esplodere la mappa.
Se hai letto bene quello che ho scritto avrai capito che lo strumento è qualcosa di fondamentale per le sedi di attività ristorative, per cui, prendi la mia check list e comincia a chiederti se stai facendo bene. Ricorda che questi passaggi sono delicati. Sono a disposizione per consulenze di marketing per franchising che operino sulla reale fattibilità, anche in ottica di contratti di affiliazione e manuali operativi, dell’integrazione di questi strumenti. Spesso, non è così scontato farlo, non si tratta solo di accendere un tool.
Se, d’altro canto, il tuo franchising non è nella ristorazione, ma per esempio fai eventi, non ti perdere l’occasione di farti scoprire e realizzare una scheda evento fatta bene. E poi, comunque, fatti un giro nella check list, perché la piattaforma, se parte come crediamo, avrà una sua evoluzione, e si sa che prevenire è meglio che curare.
Facebook Local: app nel futuro
Ci sono tanti temi aperti, il vaso di pandora si è scoperchiato. Quando penso a Facebook Local e alle possibilità date dai risultati relazionali mi vengono in mente le armi della persuasione, da Cialdini a Nardone, mi tornano i ragionamenti su legami di Granovetter, mi si para davanti il buon Joe Girard.
Facebook sta traslando online quelle che sono le dinamiche delle nostre relazioni e azioni offline.
Sa, però, che l’offline rimane fondamentale per le persone e non può sostituirglisi. Io credo che questa sia la chiave di lettura di questo strumento e delle azioni che Facebook sta facendo, diventando un luogo che stimola l’incontro, non solo virtuale. Riportare sul piano local questi ragionamenti consente di tornare a una rete forte, che difficilmente scindiamo e che quindi può rafforzarsi anche online. Detto questo, e potremo discuterne a lungo, anche qui o sui miei canali social, se lo volete (mi trovate in particolar modo su Facebook e LinkedIn) io credo e ipotizzo, ma soprattutto mi chiedo se per il futuro ci saranno
- integrazioni forti con Instagram
- integrazioni con WhatsApp
- possibilità di mettere in evidenza la propria attività secondo determinati parametri
- possibilità di mettere in evidenza il proprio evento, ovviamente queste ultime a pagamento
- integrazioni più forti con le guide, che attualmente sono un po’ slegate
- inserimento di riferimenti ai consigli, che al momento sono nel limbo
Anche qui, spazio alla fantasia. Ci riaggiorniamo verso l’estate, quando ci viene più voglia di eventi, locali, vita mondana e relazioni. È interessante vedere che il lancio italiano sia stato proprio ad aprile, invece che a novembre, come altrove, no?
Ora, se vi va, scaricate la app, ditemi cosa ne pensate, e se volete nuovi aggiornamenti, iscrivetevi alla mia newsletter. Non scrivo molto, purtroppo, ma quando lo faccio scrivo poco, dai… 😛
Una piccola nota: la app sembra non sia ancora disponibile per tutti, o almeno così dice Facebook nella Home di presentazione di Facebook Local. La cosa non è confermata dalle richieste di test sugli store che ho fatto fare a qualche mio contatto. Si sa, d’altronde, che Facebook in altre occasioni è arrivato un po’ lento nel riconoscere l’attivazione di alcuni strumenti, come successe con Facebook Locations… vedremo quando aggiornerà la home page per l mercato italiano, ma per il momento poco importa, provatela :).
Franchising 2018: trend, prospettive, sfide per il nuovo anno
Il 2017 se ne va e come accade spesso è ora di fare i bilanci del vecchio anno con un occhio puntato ai franchising.
Si parla di franchising 4.0, nuove possibilità, sfide da vincere e su cui rimettersi in gioco per un mondo, quello dell’affiliazione commerciale, che da quasi 50 anni dice la sua sul mercato.
I franchising nel 2017
Sono pochi gli studi che portano alla luce i veri numeri, se non quelli emersi durante il Salone del Franchising di Milano e qualche analisi di AssoFranchising. Il settore è in crescita.
Se guardiamo i dati degli scorsi anni, negli studi proprio dell’associazione nazionale, la crescita del settore si dimostra ancora più interessante.
- Nel 1989 (primo anno di cui si trovano notizie) in Italia avevamo 210 franchisor, con 1091 franchisee e una media di 43 affiliati per brand.
- Nel 2003 in Italia c’erano 628 imprese affilianti, con 41000 affiliati e una media di franchisee per ogni casa madre di 63.
- Nel 2016 siamo saliti a 950 imprese, con 50700 punti vendita.
- In Italia le imprese straniere che investono sono circa 60, mentre i brand italiani che si sono espansi anche all’estero sono 169.
- Durante la fiera di Milano è emerso che nel 2018 si prospetta che il mercato tocchi i 1000 brand affilianti, con una copertura del 7% della distribuzione e 51000 negozi attivi.
- Anche il Sole 24 ore, a ottobre scorso, ha dichiarato che il franchising è un settore in salute, con un giro d’affari di 24 miliardi di euro.
L’indotto dà lavoro a più di 160.000 persone, e Andrea Renazzi, nell’intervista ad Alessandro Ravecca, presidente FederFranchising, l’altra associazione nazionale del settore, ha riportato recentemente, in un articolo per Retail&Food (dicembre 2017), che l’affiliazione può rilanciare il ruolo dell’impresa nei territori, specie laddove si generano momenti di incontro tra le amministrazioni locali e i franchisor per lo sviluppo dei centri storici.
Tutto vero? Tante prospettive positive e tante possibilità ci sono davvero? Da quando seguo il settore, e oramai sono una decina di anni, ho notato che non è tutto oro quel che luccica – ovunque in realtà – ma soprattutto in un mondo che in Italia qualche falla ce l’ha ancora.
Franchising nel 2018
Ho provato a chiedere un po’ di opinioni in giro, tra franchisor, franchisee e chi si interfaccia con loro.
Mentre Aprire in Franchising parla dei nuovi trend e delle attività da aprire, Info Franchising gli si accoda spiegando anche perché valga la pena scegliere la forma dell’affiliazione per mettersi in proprio e AssoFranchising annuncia l’annuario 2018 con tutte le 1000 aziende attive in Italia; anche all’estero si parla di prospettive e nuovi trend e l’Entrepreneur, sempre molto attento al settore e ai suoi sviluppi, ha analizzato le over top 10 franchise categories 2018 e in altri ambiti si parla di quali siano le migliori fiere del franchising per espandersi al’estero.
Aperture, sviluppo, nuovi punti vendita, nuovi rami e nuovi distaccamenti, export, specie nei paesi asiatici. E poi ancora perché aprire e dove conviene, più i soliti temi che attanagliano le discussioni da tempi immemori: contratti e manuale operativo, ma in primis se la legge sia davvero adeguata al settore.
Sono tante le domande che si leggono online, davvero tante. Corrispondono a quelle che franchisee e franchisor si pongono quotidianamente?
Sono percezioni o realisticamente dicono e raccontano i mal di pancia di chi si sta davvero mettendo in gioco e di chi sta aiutando gli imprenditori a farlo?
Ogni volta che sfoglio un magazine del settore me lo chiedo per davvero: vedo tanti marchi promuoversi, comprare spazi, mettere in campo promesse, e quello che mi piace analizzare, e non sempre emerge facilmente, è se si tratti per davvero di brand in cui valga la pena investire.
C’è da dire che la tematica è delicata, non fosse altro per un dato: la ricerca di franchising e affiliazioni low cost è in aumento. Si tratta di franchising apribili con investimenti dai 15 ai 30 mila euro (la media va dai 30 ai 50000) e pare riguardi il 70% delle nuove aperture.
Franchising low cost per il 2018?
Moda o vera opportunità? I franchising low cost rappresentano un trend che guarda al futuro o una prospettiva pro tempore che potrebbe avere dubbie possibilità di sviluppo? Un tempo si usava dire che “chi più spende meno spende”. Nel franchising non è detto, analizzando grandi brand e franchisor attivi da tantissimi anni, che chi più spende abbia di più.
Guadagnerà di più? Aperture e chiusure lo dimostreranno attraverso i dati. Sta di fatto che
di fronte a investimenti maggiori e fee più elevate non è detto che corrispondano servizi migliori e più strutturati.
Il low cost quindi offrirà di meno a fronte di un investimento minore? Anche in questo caso, non è detto. Ci sono realtà in franchising a basso investimento, specie nel mondo delle startup, che hanno impostato strategie molto precise e si stanno muovendo molto bene anche nel confronto con l’innovazione. Saranno costi sostenibili per sempre? Lo vedremo.
Franchising nel 2018: la mia indagine
Intanto il tema è il 2018 per i franchising e come lo vedono i diversi attori. Ho cercato di dividerli per aree di intervento tra franchisee, consulenti ed esperti e franchisor.
Vediamo cosa è emerso, con una nota, una parentesi divagatoria: ha risposto anche Elena Delfino, giornalista che si occupa di franchising da quasi 20 anni. Ho recuperato un suo articolo per AZ Franchising del 2008, che si chiama 1998-2018: il franchising ieri, oggi, domani. Mi sembrava doveroso citarlo, per aprire al ragionamento, e per la stima che ho per lei, oltre che per l’anno a cui guardava, il 2018.
Ringrazio fin da ora chi si è preso qualche minuto per rispondermi, interagire in pubblico o in privato, dedicarmi il suo tempo per parlare di questo argomento e mettere un occhio verso questo 2018 ormai arrivato.
2018 e franchising: il punto di vista dei franchisor
Apro con Pietro Amico, avvocato, che da anni si occupa di comprendere il settore e strutturare interventi volti a tutelare il franchisor rispetto a tutti gli aspetti noti e poco noti di sviluppo della sua rete e della legge.
Una nota che mi sento di fare, specie quando si struttura un franchising, è non dare per scontato che basti un contratto standard per partire. Specie quando si innescano politiche di marketing molto strutturate, è bene pensare fin da subito come la strategia impatti sullo sviluppo, prevenendo, prima che curando… Il punto di vista dell’avv. Amico apre gli occhi sui passi che sta compiendo l’Unione Europea sui franchising e mette nuovi punti su un percorso che si dimostra ancora una volta da costruire.
“Nel 2018 il franchising potrebbe trovarsi ad affrontare un passaggio epocale sul piano giuridico, in quanto è atteso l’avvio dei lavori per una regolamentazione europea della materia.
Ciò significa che il settore sarà chiamato a una profonda riflessione sulle priorità da consegnare alla politica UE e sul tema mai sopito del corretto bilanciamento di interessi tra affilianti e affiliati; al tempo stesso è ipotizzabile che la normativa, una volta attuata e a regime negli Stati membri, consenta agli attori economici di poter fare affidamento per la prima volta su un quadro legale omogeneo per operare e investire in ambito transfrontaliero. All’origine di tale percorso vi sono le interessantissime considerazioni del Parlamento Europeo, secondo cui
“il franchising ha tutto il potenziale per essere un modello commerciale in grado di contribuire al completamento del mercato unico nel settore del commercio al dettaglio, in quanto può rivelarsi uno strumento utile per avviare un’impresa mediante un investimento condiviso tra affiliante e affiliato;
ed è pertanto motivo di delusione constatare che, attualmente, nell’Unione europea i risultati sono inferiori alle potenzialità, poiché il franchising rappresenta solo l’1,89 % del PIL, contro il 5,95 % negli USA e il 10,83 % in Australia, e che l’83,5 % del volume d’affari del franchising è concentrato in appena sette Stati membri, motivo per cui è importante incoraggiare una maggiore diffusione di questo modello commerciale in tutta l’Unione Europea (Risoluzione del 12 settembre 2017 sul funzionamento del franchising nel settore del commercio al dettaglio).
Nel merito si tratterà di capire se l’Unione Europea si accontenterà di una regolamentazione “de minimis” o se invece ci sarà lo slancio per affrontare l’innovazione di una disciplina contrattuale che per molti aspetti è ferma al secolo scorso, con un’idea di negozi fisici soggetti a esclusive territoriali e a pratiche commerciali “impositive” da parte dei franchisor, laddove al giorno d’oggi le affiliazioni di successo inglobano sempre più spesso piattaforme di vendita on-line ed una collaborazione integrata tra tutti i membri del network.”
Pietro Amico, avvocato d’affari e manager, si muove a livello professionale tra Udine, Milano e Malta.
La tematica del rapporto fra affiliante e affiliato è sentita moltissimo dai franchisor. Alcuni, come Alessandro Giuliani di Mercatopoli e Baby Bazar stanno puntando alla qualità degli affiliati, proprio per lavorare meglio sul brand e il suo sviluppo, dando loro maggiore supporto e formazione, anche in un ambito poco esplorato, per i franchising, come quello del web marketing. Un tema che mi è molto caro, per altro: partire dal presupposto che avere i migliori franchisee, formati e attenti, se pur crei uno sforzo enorme in fase di selezione, sia la chiave per avere successo nel tempo, con una cassa di risonanza positiva per tutto il network.
“Penso che anche per l’anno prossimo i franchisor dovranno perseguire la strada del supporto ai loro affiliati, soprattutto sul web.
Le sfide saranno molte ma partono dalla consapevolezza che un affiliato che viene seguito e guadagna è un cliente super fidelizzato.
Minore focalizzazione sulle nuove aperture e maggior supporto per gli affiliati esistenti, questa è la strada che sto perseguendo personalmente con il mio team e che porterò avanti nel 2018.”
Alessandro Giuliani, fondatore di Mercatopoli e Baby Bazar
Ed espansione, in particolare sui mercati esteri, come accennava l’avv. Pietro Amico, anche se con una tendenza ad abbracciare quelli con gli occhi a mandorla, come spiega Giovanni Monzali, che si occupa di un noto brand di caffè.
“L’ azienda per cui lavoro é in forte espansione con il franchising e ho partecipato a seminari di formazione sull’export management in Asia che mostrano ottime previsioni di crescita nella zona, grazie al traino del PIL delle economie asiatiche. Per la Camera di Commercio la vera sfida sarebbe quella di puntare sui mercati asiatici, ma non è una novità: si tratta di un progetto in atto da decenni e l’Italia si é mossa in ritardo…”
Ritardo o meno, le reti che allargano la loro maglia lo dovrebbero fare in maniera consapevole e strutturata, senza dimenticare che oggi più che mai l’accesso alle informazioni è così globale che pensare di arrancare con una struttura poco trasparente non paga e che all’estero si stanno muovendo nuovi approcci anche al franchising anche visto che, in tema di affiliazione, l’Unione Europea potrebbe ancora una volta fare la differenza, con i suoi emendamenti in materia.
Da parte mia penso che la sfida vera dei franchisor sia decidere di fare ordine nelle proprie strategie di marketing, ancora più importante se parliamo di startup.
Partire con una chiara strategia consente a legali e commercialisti di costruire manuali operativi e contratti molto più tutelanti, sia per il franchisor che per la sua rete.
C’è davvero tanta ignoranza e impreparazione, specie per chi ha una rete già costruita. Cambiare le carte in tavola in itinere non è solo una manovra commerciale, ma diventa un’operazione che può toccare gli equilibri in maniera indelebile.
Il franchising è una squadra che funziona se si innescano dinamiche collaborative e partecipative di un certo tipo. Quando ci penso o vengo contattata per lo sviluppo web marketing per un franchising, è uno degli aspetti che sento forti, e che riguarda, in realtà, una specie di evoluzione della gestione delle risorse umane, quella comunicazione interna di cui tanto si parla ma che nel nostro paese è ancora lontana dall’essere gestita.
Così come in un’azienda – lo possiamo anche chiamare welfare – i dipendenti dovrebbero essere felici di svolgere il proprio lavoro perché anno chiari i loro obiettivi e si sentono stimolati dall’appartenenza a una squadra in cui stanno bene e quindi lavorano bene, allo stesso modo
i franchisee, se pur abbiano un rapporto contrattuale diverso – e lungi da me che sia simile a quello di un dipendente – dovrebbero sentirsi parte di una famiglia che lavora insieme per uno scopo comune, laddove lo sforzo e la sinergia dell’uno sono utili alla squadra.
Marketing interno ed esterno sono dunque le vere sfide, dal mio punto di vista, e sono quelle con cui, ultimamente, mi confronto ogni giorno.
2018 e franchising: cosa pensano gli esperti
Un avvocato lo abbiamo sentito, ora tocca a chi indaga, intervista e supporta i franchising in Italia. Partiamo dalla già citata Elena Delfino, giornalista di Start Franchising, che si occupa del settore dagli anni ’90, per arrivare a uno dei massimi esperti italiani in tema di contratti etici per i franchising (e legali), che con i suoi articoli ha spesso messo in luce molte delle ombre del settore. Il suo è un punto di vista oggettivo e duro, ma è proprio la sua capacità di farci riflettere che dovrebbe dargli ancora più valore. Collaborazione e nuovi approcci alla diffusione nelle parole, invece, di Roberto Lo Russo, che su StartFranchising sta ponendo attenzione al franchising di qualità.
“C’è una domanda che amici e parenti mi rivolgono puntualmente perché sanno che da anni scrivo di franchising: Elena, ma il franchising funziona davvero? Con chi mi consigli di investire?” apre così Elena Delfino, continuando: “Ecco, per il 2018 partirei con un augurio, e cioè che gli operatori di questo settore decidano di raccontarsi e raccontare questa formula di business in modo sempre più qualificato e trasparente, così da rendere le risposte a quelle domande sempre più dirette ed immediate. Con Start Franchising abbiamo deciso di impegnarci proprio in questa direzione. L’augurio però non è molto lontano dalla previsione: chiunque operi nel franchising si racconterà in modo sempre più efficace su strumenti qualificati online o offline, perché sappiamo che chi investe oggi è consapevole di poter reperire informazioni in modo più semplice e accessibile. Se non le trova, o le trova parziali o poco chiare, semplicemente cambia strada.”
Elena Delfino, giornalista esperta di franchising
“Occorrerebbe dividere il tema in due parti:
1. sfide di e sul mercato per ogni franchisor;
2. sfide per il franchising, come settore.
Se il n.1 non è tema di mia specifica competenza, per il n.2 occorre accettare e ben metabolizzare che non esiste una “sfida” o più “sfide” per il 2018. Il franchising non ha ancora affrontato, o meglio, quanto eventualmente e solo per ipotesi è stato fatto, è assolutamente inefficace. La reale sfida che doveva vincere, quella prettamente tecnico-legislativa non è vinta per niente, nonostante si voglia ancora negare questo aspetto. Ho da poco scritto sul mio blog “Il gattopardo in franchising”. Il senso è quello che riporto sinteticamente in quell’articolo.
Il franchising non ha mai trovato il modo di tenere lontani operatori poco professionali.
Non ha mai trovato il modo di non far partecipare a eventi pubblici per “vendersi” (perché questo è l’esatto termine tecnico, in Usa si dice “to buy a franchise” e in Francia “achat une franchise”).
Chi non ha una corretta impostazione del proprio sistema di franchising, che non ha sperimentato veramente la propria formula commerciale (come dice la normativa), che non significa “un punto pilota” o “per un anno” continua a esprimersi con obrobri economici: sono eresie aziendali, sono giustificazioni e motivazioni addotte semplicemente per creare “movimento” di indici di natalità e di mortalità. Tanti altri sono gli aspetti che ancora hanno grandi criticità e non hanno importanza i dati di “tenuta” del settore nel periodo di crisi, anche perché la lettura e l’interpretazione di tali dati può essere alquanto soggettiva, nonostante il palese negazionismo che ci arriva con tutta serenità. Forse la migliore conclusione è che al franchising non piace sentirsi dire tutti i tanti difetti che ancora sono stati lasciati addosso al settore e che qualcuno tende a nascondere sotto il tappeto e non sarà certo il 2018 a risolvere il tutto.
Ci sarebbe anche un altro tema interessante: è che in troppi “non tecnici”, soggetti in totale assenza di “visione di un insieme d’azienda”, pensano di essere esperti, interpretare la norma (a pro o a favore), dare indicazioni su come costruire una rete, ecc.
Ho recentemente fatto un arbitrato (io ero arbitro del franchisee) e il franchisor (che oggi ha una istanza di fallimento proprio dal franchisee che ha vinto l’arbitrato) ha serenamente dichiarato “io mi sono affidato a delle professionalità, come il mio commercialista, come uno dei più bravi avvocati, cosa avrei dovuto fare se nessuno mi ha detto niente?”. Stessa cosa vale per sviluppatore, responsabili di marketing, editori, franchisor mancati che, siccome sono stati molto “bravi”, allora pensano di dare consigli ad altri e fare i consulenti al franchising…”
Mirco Comparini, Presidente IREF Italia, Federazione delle Reti Europee di Parternariato e Franchising
Poca professionalità, tanta improvvisazione, come dar torto a Mirco vedendo certe tipologie di contratto o le strategie di marketing per franchising che non tengono conto dei due target e di una prospettiva a medio e lungo termine? Un altro tema scottante e sicuramente non dedicato solo al 2018, ma a una rivoluzione intera, che pare debba ancora venire.
Cosa si può fare? Come ci si può muovere per migliorare questa situazione? Qualcuno dice che se non crei soluzioni sei parte del problema, e così ragiona Roberto Lo Russo, dicendo che
“La prima sfida è far comprendere la formula del franchising etico sia ai Franchisor che ai Franchisee e potenziali tali; la seconda è strumentale alla prima, fare squadra tra associazioni, imprenditori del settore per fare massa critica”
Roberto Lo Russo, esperto di franchising, StartFranchising
L’approccio di Roberto, che ritroveremo alla Fiera del Franchising di Napoli, è proattivo:
non siamo più isole, dobbiamo cominciare a collaborare!
Una nota positiva arriva anche da Gianni Perbellini, commercialista, esperto di franchising.
“Sono convinto che il 2018 sarà un anno di grande accelerazione per il settore.
L’economia e i consumi in ripresa faranno ripartire le attività commerciali BtoC e il sistema Franchising garantisce un’accelerazione nello start up e buone possibilità di successo commerciale.
D’altro canto il consumatore, sempre più, tende a fidarsi ed affidarsi a format diffusi in franchising, dei quali conosce risposta qualitativa e pricing. La mobilità e le tempistiche sempre più incalzanti della vita quotidiana aiutano a creare sempre più consenso a ciò che si è dimostrato degno di fiducia ed è diffuso sul territorio. L’Italia, poi, deve recuperare il Gap che ha nei confronti degli altri Paesi Europei, per tacere degli Stati Uniti, per cui ben venga questo balzo in avanti!”
2018 e franchising: il punto di vista dei franchisee
Parliamo di sviluppo, selezione, affiliati più preparati. Sta di fatto che ci sono persone che ci hanno creduto, hanno sposato un marchio e hanno deciso di intraprendere la loro strada imprenditoriale con esso. Se può essere facile parlare di sviluppo partendo da zero o ragionando sui nuovi franchisee per il 2018, come è possibile adoperarsi per far lavorare meglio chi già è dentro a un’azienda da tempo? Ho deciso di ascoltare la voce di qualche franchisee o potenziale, per capire meglio cosa pensano.
I franchisor dovrebbero ascoltarli di più, chiedendosi cosa desiderino e facendone tesoro. Vedo pochissime situazioni win-win in cui il franchisor, come avviene invece in America, crea dei focus group con i propri franchisee, per capirne le esigenze e osservare il mercato ponendo nuove basi per il futuro. Il caso di Carpisa di quest’anno, ma anche tanti altri, sono emblematici per dimostrare che il franchisor non dovrebbe ritenersi un’isola né nei confronti dei propri simili, né tantomeno in quelli dei suoi franchisee. Ecco cosa mi hanno detto.
“Non so se sia una sfida ma il franchisor non è all’interno del negozio franchisee. Ho notato che i nostri concorrenti sono cresciuti molto quando i titolari hanno aperto uno o più punti vendita. A noi manca questo: abbiamo molta teoria ma poca pratica.”
P., franchisee di un noto brand italiano, che ha chiesto di rimanere anonimo
C’è una distanza tra il franchisor e il franchisee dunque, spesso sentita, perché il franchisee si sente mal compreso, nella gestione quotidiana e si rende conto che chi lo “governa” non si mette nei panni del proprio – di fatto – principale cliente. Molto interessante.
“Da 24enne con il “Sacro fuoco dell’imprenditoria” ma senza ‘na lira, sogno dei franchisor più preparati ad aiutare chi vorrebbe mettersi in gioco usando la propria forza per aiutare il franchisee a trovare le risorse e smettere semplicemente di fare gli appioppiatori di negozi.”
Guido Vecchioli, aspirante franchisee
“Appioppatori di negozi” è un termine nuovo, ma tante volte questo concetto è emerso:
i franchisor pensano solo alla loro espansione, a fare numeri, senza chiedersi cosa possa succedere quando i negozi chiudono, con quale impatto sul brand.
Ne abbiamo parlato prima, e lo trovo un tema su cui i franchisor dovrebbero fare sempre più attenzione.
Il Salone del Franchising ha fatto emergere che
- il 42% dei potenziali affiliati sceglie un franchising per la ricerca di un percorso autonomo,
- il 39% per testare una nuova esperienza,
- il 13% perché ha perso il lavoro
- Il 25% dei potenziali affiliati è nella fascia d’età tra i 25 e i 35 anni.
“Da franchisee, considero questo metodo di affiliazione in espansione siccome da la possibilità di intraprendere un’attività da self-employed. In periodi come questi, ‘l’imprenditore per necessità’ emerge più facilmente e può quindi trovare l’opportunità che cerca. Considero il contesto importante, poiché determina l’esperienza del franchisee e la crescita aziendale. A mio parere, in Italia c è molta diffidenza in questi sistemi poiché spesso sono accostati a concetti imprecisi. La diffusione potrebbe essere difficoltosa e per la nostra notoria bassa propensione al rischio e investimento.”
Emanuele Aversa, franchisee
Il 2018 ideale di un franchising
Come dovrebbe essere il 2018 ideale di un franchising? Recentemente mi sono messa a fare un po’ di studi sullo sviluppo imprenditoriale e uno dei temi che noto essere più semplici ma anche accantonati è quello di darsi degli obiettivi. Gli obiettivi, dice la teoria, dovrebbero essere SMART: specifici, misurabili, realizzabili, concreti/realistici, nel tempo.
Quante imprese riescono a lavorare per macro e micro obiettivi, nel breve, medio, lungo periodo, andando poi a confrontare i risultati per comprendere se vi sia stata una chiara visione o meno e imparare da ciò che ha ottenuto? Ahimè, non è facile.
I macro ambiti di intervento del 2018 però sono chiari, e ogni franchisor dovrebbe fare o aver fatto un esame di coscienza, facendosi supportare da consulenti preparati, per trovare il modo di tradurre questi concetti in obiettivi:
- Qualità e non quantità: non serve avere migliaia di affiliati scontenti, ma una quantità corretta, gestita bene e soddisfatta dei risultati che ottiene
- Basta improvvisazione. Servono consapevolezza e consulenti in grado di comprendere che questo non è un settore comune e che ha caratteristiche specifiche molto delicate da trattare, che non si possono improvvisare o affidare a un copia e incolla
- Accompagnamento. Il franchisee è il nostro principale cliente e quindi come tale va trattato. Il franchisee deve quindi essere supportato in fase di apertura ma anche in tutto il corso della vita del suo negozio.
- Contratti e manuali operativi seri, che nascano da uno studio serio e concreto. Non si scherza!
- Collaborazione, network, condivisione delle informazioni. Nonostante le molte associazioni, non c’è ancora una vera squadra in questo settore
- Un occhio aperto verso l’UE, che sta o potrebbe cambiare le carte in tavola. Prepararsi non è così scontato
E poi, visto che parlo di strategie di marketing per franchising
-
-
- Lavorare su una corretta strategia di marketing interno
- Definire una strategia di marketing globale che si occupi dei due target principali, lavorando principalmente sulla fidelizzazione, ovvero sulla soddisfazione e insoddisfazione dei propri clienti
- Fare buona pace definendo come strutturare gli strumenti online, specie Facebook Location e Google My Business
-
Ma soprattutto
- Definire degli obiettivi, che puntino prima di tutto a dare profitto agli affiliati, in modo da rinsaldare la rete e renderla forte di fronte alle sfide del mercato.
I franchising che oggi stanno dimostrando di avercela fatta sono quelli che sono stati in grado di mettersi in gioco, guardare al futuro, saper cogliere il presente nei suoi cambiamenti e fare squadra con i propri affiliati. Sviluppare reti più strutturate ed espandersi all’estero senza tenere conto di questi aspetti rischia di generare un approccio e un sentiment negativo non solo verso un brand, ma verso l’intero settore.
Approfondiremo alcuni degli aspetti trattati nei prossimi articoli. Se ti va di leggerli, seguimi sui canali social in cui mi trovi, come Facebook o LinkedIn, o iscriviti alla mia newsletter.
Grazie per aver letto fino a qui e buon 2018! In franchising, magari! 🙂
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Location per franchising: l’importanza della selezione
Qual è la zona migliore per aprire un negozio?
Come si sceglie una zona per aprire un negozio e come dovrebbe supportare il franchisor i potenziali franchisee nella scelta della location più adatta per lo sviluppo della loro attività?
Ho coinvolto alcuni professionisti, che sentiremo in seguito, in un post su LinkedIn, a inizio settembre, in cui affermavo che
“Scegliere la zona giusta per aprire il proprio negozio in franchising non è una pratica scontata. Servono analisi di mercato, conoscenza del territorio e tanto altro, perché lì si gioca il futuro del franchisee”
personalmente so che ci sono degli abissi tra la gestione italiana e straniera delle aperture, e la cosa non si ferma alla scelta della location per il franchisee, moltissime aziende non si prendono per nulla cura del proprio affiliato dopo l’apertura, purtroppo.
L’analisi del mercato, del target, della zona di apertura, non sono cose scontate. Ci sono reti che possono funzionare in determinati contesti e altre no. So per certo che un noto brand di food, ad esempio, ha scelto i centri commerciali, in Italia, perché i costi di gestione di cucine e tavoli in altre aree, come quelle urbane, sarebbero stati proibitivi rispetto al margine prospettato per gli affiliati. Ci sono prodotti che sono ok per il nord Italia ma non hanno presa al sud, e viceversa. Il franchisor queste cose dovrebbe analizzarle, prima!
Un franchisor che non si occupa di questi aspetti rischia di illudere i suoi affiliati, che vengono disincantati appena comincia l’attività, con conseguente frustrazione e riversamento di un clima sfavorevole allo sviluppo anche sul resto della rete. Nell’articolo riguardo il caso Carpisa ho già avuto modo di citare il valore della comunicazione interna con i franchisee, un terzo aspetto di marketing che una catena non può dare per scontato (insieme al marketing per l’incremento della rete e per il dialogo con i clienti).
Come si può riuscire a trovare la zona giusta?
Un’azienda che ha deciso di sviluppare la propria rete in franchising lo sa, o almeno lo dovrebbe sapere: la location giusta per il proprio affiliato fa tanto. Zona industriale o zona artigianale? Già la destinazione d’uso dei locali che si individuano, in Italia, è un problema. Magari ti trovi con un potenziale negozio in una bella area ma non puoi cambiare la sua destinazione d’uso per renderlo il tuo punto vendita. Non è così inusuale. Anche ammesso che la destinazione d’uso sia ok, decidere la zona giusta non è facile.
Meglio stare vicino a un polo commerciale o a un centro storico? Meglio la via centrale o quella più defilata? Meglio una zona poco battuta ma con una location molto bella e ampia o una zona centralissima con una location più piccola?
Che tipologia di locali ci dovrebbero essere vicino al nostro affiliato per trainarlo? Se avete fatto caso alle aperture in franchising avrete notato che sono spesso ripetitive. Capita, infatti, che in una determinata area, dove penetra un determinato marchio, inizino poi ad arrivarne anche altri. Avete notato cosa succede quando da qualche parte apre un McDonalds? Improvvisamente nasce un nuovo polo commericiale/ristorativo. Strano no? Non tanto.
Alessandro Giuliani, ideatore e direttore di Mercatopoli e Baby Bazar, un tempo la fece come battuta: dove apriamo Mercatopoli poi si installa quasi sempre una di quelle catene di pesce surgelato. Un caso? Mah! Non essendo all’interno di quel franchising, non possiamo ovviamente saperlo, ma basta girare i centri commerciali, i centri storici o le nuove zone commerciali periferiche per capire che dove si innesta un determinato tipo di attività ne sorgeranno a breve altre.
Come si capisce, dunque, se un’area è davvero interessante per lo sviluppo della propria rete?
Mi è capitato qualche mese fa di confrontarmi con una collega che si è occupata dello sviluppo di un franchising prima di internet. Lei si chiama Gaia Provvedi e si occupa di strategie di marketing da molti anni, da quando, in sostanza, non c’era ancora tutta questa focalizzazione sul digital marketing. Gaia, che spero di intervistare a breve in merito, mi ha raccontato che era andata fisicamente nelle città di potenziale sviluppo, presidiando e analizzando la zona, scandagliando le attività esistenti, talvolta intervistando i negozianti vicini.
Oggi, con internet, anche Gaia potrebbe fare meno fatica. Dati Istat, società di ricerca e sviluppo, giornali online, mappe, ecc. Per fare il primo sopralluogo della zona non serve nemmeno più andarci fisicamente, può bastare Google Maps!
Incredibile! Perfetto? Direi di no.
Si è concluso non molto tempo fa il Salone del Franchising, che ho già citato nel mio articolo sulle potenzialità e le attenzioni che un franchisor dovrebbe avere quando decide di far aprire con il suo brand e nell’articolo sulle fiere dei franchising degli scorsi mesi, e l’occasione è ghiotta per ricordare la mia esperienza dello scorso anno, quando finsi di voler aprire la mia attività con questo sistema.
Cosa ho capito al Salone del Franchising?
Chiedendo in giro a molti franchisor, rispetto alla loro visione sulle strategie di individuazione delle zone, sono rimasta abbastanza allibita: quasi nessuno si preoccupava di capire bene che implicazioni avesse scegliere una zona piuttosto che un’altra, quasi nessuno mi ha detto di avere delle società a supporto delle aperture o una visione strategica chiara sulle aree di sviluppo in Italia. Che dispiacere!
Quando si costruisce una strategia per un franchising si potrebbero addirittura individuare con anticipo le zone in cui può essere interessante espandere la propria rete, lo sapevate?
Una piccola analisi iniziale sul territorio italiano, qualora si voglia creare un network nella nostra nazione, potrebbe consentire di capire fin da subito aree no e aree sì. Certo, non è sufficiente, ma è un punto di partenza per relazionarsi con chi vuole aprire con noi, in maniera davvero professionale. Quali dati considererei per fare questa analisi?
Innanzitutto la popolazione, per capire quale bacino vi possa essere intorno al punto vendita
data la popolazione, è fondamentale farne una minima analisi qualitativa, e non fermarsi solo a quella quantitativa. Che tessuto economico c’è in quella zona, quali industrie, che incidenza ha avuto la crisi?
E ancora: quante famiglie ci sono?
Di quali età?
Capiamo benissimo che aprire un negozio di abbigliamento giovane in una zona con età media sui 70 anni potrebbe essere rischioso, come aprire un marchio di moda luxury in un’area con reddito pro capite bassissimo, sotto la media italiana. Sono estremizzazioni, ovviamente, ma rendono l’idea.
Date le informazioni precedenti, si possono studiare i dati Istat, chiedere informazioni alle Camere di Commercio, verificare se vi siano concorrenti e che tipologie di Franchising abbiano già penetrato la zona.
Una valutazione, poi, andrebbe fatta sulle arterie di comunicazione, per comprendere quanto sia raggiungibile una determinata area. Mi sono capitate richieste da paesi sperduti del centro Italia, raggiungibili solo con strade tortuose e con il primo paese significativo a 7 km di distanza ma, di fatto, 30 minuti di auto. Si capisce che se quel paese disperso non ha un via vai elevato o un tessuto economico importante, sarà difficile sviluppare un business.
Il target, il tempo di riacquisto. I dati sopra esposti hanno poco senso se non analizziamo il target che vogliamo raggiungere e ogni quanto potrebbe aver bisogno di riacquistare da noi.
Se una persona è spinta a un acquisto ricorrente di un prodotto che possediamo solo nella nostra rete, capite che potrà fare anche qualche km in più per acquistarlo.
Se apro una panetteria in franchising a quei 7 km (e 30 di strada) quando nel paese più grande ce ne sono almeno 10 più comode, capiamo bene che non ha senso mettersi a confrontarsi.
La zona dipende dal target, e dal suo bisogno del nostro prodotto o servizio
… oltre che da una serie di altri fattori.
Come scegli la zona per i tuoi franchisee, come li supporti? Come colleghi i target alla zona in cui vorresti aprire?
Nella prossima puntata ho intervistato dei professionisti di altrettanti franchising per capirlo. Se ti va di leggere il proseguo e capire meglio come, dall’interno, avvengono le scelte delle zone di apertura per gli affiliati di un franchising, iscriviti alla newsletter.
Un concorso che dice, di fatto: vi facciamo un piano di marketing con uno stagista pagato per un mese, a mio avviso, non sostiene questa filosofia, né verso il mercato, né verso gli affiliati, che meritano altro.
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Fiera del Franchising 2017: da Milano a Valencia
Negli ultimi dieci giorni si sono svolte due importanti fiere per il mondo dei franchising: la fiera di Milano, il Salone del Franchising, e la fiera di Valencia, il Salón Internacional de la Franquicia.
Si tratta di due fiere del franchising storiche, l’una con i suoi 32 anni si attività, l’altra giunta ormai alla 28esima edizione.
Ho avuto la fortuna di partecipare a entrambe, potendo non solo cogliere le differenze tra il mercato italiano e quello spagnolo, ma analizzando soprattutto quale sia l’approccio in comunicazione e marketing di questo settore, nei due paesi.
La prima domanda che mi sono fatta, visitando entrambi, è come un franchising dovrebbe comunicare in fiera. La seconda riguarda un approfondimento che vorrei portare avanti sull’assenza dei big player, molto nascosti a Valencia, appena accennati a Milano.
Quando parlo di big player mi riferisco alle grandi aziende internazionali, che ormai hanno capillarmente coperto le aree commerciali e urbane di un gran numero di città nel mondo, dai marchi italiani come Calzedonia e co., fino a quelli esteri come Mc Donald o Pizza Hut.
Cosa significa partecipare a una fiera?
Partiamo da una domanda, che mi deriva dal percorso che sto seguendo con Manuel Faè ed Alessandro Sportelli, Web Marketing per Imprenditori:
le fiere sono strumenti della domanda latente o di quella consapevole?
Quando penso a una fiera di settore, ma in generale qualunque persona ci pensi, dovrebbe focalizzare la sua partecipazione cercando di comprendere in quale fase del processo di acquisto si inserisce.
Dunque, se con la tua azienda partecipi alla fiera campionaria o a quella di paese, quasi sicuramente stai intercettando domanda latente. Le persone sono lì per fare un giro, curiosare, mangiare le frittelle di Santa Lucia e tu, con il tuo stand, se sai comunicare bene, potresti incontrare il loro interesse.
Domanda latente, appunto. Genera un contatto? Non è detto!
Innesca un processo di acquisto? Forse.
Se sei bravo, ripeto, fornendo il giusto materiale o colpendo il pubblico con un messaggio davvero differenziante, o se hai la capacità di individuare in pochi istanti chi è potenzialmente un tuo cliente, potrebbe essere che a seguito di quell’incontro avvenga qualcosa di più concreto e utile per il tuo business.
Parte alta del funnel, pubblico ampio, interesse relativo. Tienine conto. Se punti tutto sulla domanda latente, spari nel mucchio, specie in eventi in cui, a meno che tu non abbia i superpoteri, c’è di tutto.
Ma le fiere di settore? Sono davvero strumenti della domanda latente? Io non credo.
Le fiere di settore, come le fiere del franchising di Valencia e Milano, sono strumenti della domanda consapevole.
Ora, se segui WMI da qualche tempo o hai letto Il succo del Web Marketing, saprai che la domanda consapevole ha diverse declinazioni.
Si parla di domanda consapevole generica, informativa o commerciale e di domanda consapevole specifica.
In fiera che tipo di domanda ti dovresti aspettare?
Chi partecipa a una fiera come quella del franchising potrebbe, in realtà, avere tutte e tre le tipologie di bisogni. Vediamo un po’.
In generale se scegli di dedicare una giornata a una fiera specifica di settore, a meno che tu non sia di Verona con i biglietti gratis per il Vinitaly per andare a bere con gli amici, sai che nella fiera troverai la gran parte delle informazioni e delle scibile di quel settore, tutto insieme, in un unico luogo e in pochi giorni! Interessante, no?
Se ti interessa un determinato ambito di sviluppo o vuoi conoscere determinate aziende, invece di doverle cercare su Google, chiedere in giro, o fare altri mille voli pindarici per intercettarle, potenzialmente le hai tutte lì, pronte per te. Domanda consapevole generica: voglio saperne di più, vado in fiera, dove potrò trovare informazioni ma addirittura vedere in faccia chi ci sia dietro un determinato business. So che il mio lavoro non va più come vorrei, sento di avere l’indole dell’imprenditore, mi attrae la possibilità di mettermi in proprio ma mi fa anche paura. Queste sono tutte leve che portano le persone a informarsi sui franchising.
In fiera possono trovare informazioni.
E se invece andassi in cerca di aprire con un determinato tipo di azienda? Magari ho la stessa spinta di chi cercava informazioni, ma di fatto, beh, vorrei aprire un ristorante, perché ho da sempre la passione per la cucina. Non so a chi rivolgermi, con chi fare l’investimento giusto, ma so che voglio cambiare la mia vita nel giro di un tot di tempo e che voglio farlo gestendo una cucina e gli avventori che vorranno cibarsi dei miei piatti. E in fiera, dunque, ho una forma di domanda più commerciale, rivolta al settore che io rappresento.
Voglio capire quale sia il franchising giusto con cui affiliarsi nel settore della ristorazione.
Ma se mi sono informato, ho letto tutte le riviste, ho ricevuto tutte le email dei funnel a cui mi sono iscritto, e mi sono dunque fatto un’idea specifica di quale sia il franchising giusto per me?
A questo punto, beh, la domanda consapevole è davvero specifica e in fiera potrò avere l’onore di prendermi del tempo per conoscere meglio chi ha inventato o porta avanti quella rete. Certo, potrei anche andare in azienda, ma la fiera è un terreno neutro, mi dà un’idea meno affettata di una sala riunioni costruita per raccontarmi quanto sia bello affiliarmi con quel brand.
Esiste la possibilità di convertire?
Se un cliente è pronto a parlare proprio con il tuo brand, sì, potrebbe essere. Se viene in fiera proprio per quello, per discutere un contratto, ci potrebbe stare. Uno dei miei clienti ha costruito un funnel molto approfondito e usa le fiere per parlare con i clienti che già hanno scelto di affiliarsi. Ma le usa anche per invitare a conoscerlo chi è ancora indeciso e sta valutando varie strade.
La fiera è un evento. Come tutti gli eventi ha un prima, un durante e un dopo e, non si capisce come mai, spesso gli eventi si dimenticano del prima e del dopo.
Non è che si scordino della becera organizzazione logistica, eh, quello no. Si scordano però della strategia che può stare dietro una fiera, nel comprendere come inserirla nel processo di acquisto, come renderla uno strumento utile del funnel di vendita, come finalizzare, poi, i contatti ricevuti.
Da Valencia a Milano, il mio punto di vista sulle fiere
Purtroppo non posso essere clemente con il Salone del Franchising di Milano e con il Salòn de la Franquicia di Valencia. Sì, perché oltre alle aziende che espongono, ci sono anche le strutture che fanno la fiera, che dovrebbero comprendere di avere due clienti importantissimi: l’espositore, e il visitatore. Senza l’uno non esiste l’altro, senza l’altro non parteciperebbe mai l’uno. Funzionano, insieme.
Le fiere del franchising di Valencia e Milano sono state, purtroppo, poco lungimiranti, sia nei confronti degli espositori che in quelli dei visitatori. Sono ancora momenti molto importanti, eventi unici nel loro genere, ma vengono comunicati e diffusi male, purtroppo, tanto che i big player ormai mancano, che le aziende si affidano a degli aggregatori dove il rapporto umano viene un po’ a mancare, e che i visitatori, talvolta, rimangono delusi dell’offerta.
Nonostante questo, organizzano incontri e momenti di formazione di valore, non solo con aziende che presentano i loro servizi, ma anche con professionisti che agevolano la focalizzazione verso il settore e le sue potenzialità, oltre che verso nuovi approcci utili al business. Non entro qui nello specifico degli interventi sul mondo del franchising che ho seguito sia in Italia che in Spagna, o nelle occasioni di confronto con franchisee o franchisor, ma di fatto – forse anche per il costo elevato di partecipazione –
alle fiere manca ancora qualcosa per affacciarsi a un nuovo modo di concepire questo canale, più moderno e vicino alle esigenze del visitatore e dell’espositore.
Non facciamo di tutta l’erba un fascio. Ci sono fiere che ancora oggi hanno dei perché molto forti, indiscutibili, come ho visto durante il mio intervento a Expo Network Forum di GRS, lo scorso luglio.
Se sei un franchising e vuoi attrarre nuovi franchisee attraverso la fiera, dunque, cosa dovresti fare?
Innanzitutto, darti un obiettivo.
Qual è lo scopo di partecipare alla fiera?
Se ne hai già fatta almeno una, è facile: cerca di fare meglio della precedente. Come? Controlla i contatti raccolti, le presentazioni fatte, le brochure distribuite, ma soprattutto, controlla quali risultati hanno avuto nel lungo periodo: hai raccolto solo contatti farlocchi? O tra chi ti ha visitato c’è stato chi ti ha poi portato una affiliazione? E di che tipo di contatti si trattava? Solo curiosi o persone veramente interessate?
Quando mi interfaccio con gli imprenditori che devono partecipare a una fiera il grande tema è: ma in fiera non c’è tempo di fare tutto quello che dici. Vero. Ho fatto per 10 anni una delle fiere più stressanti di Verona, Vinitaly: 7 giorni su 5 tra organizzazione e gestione dello stand. So bene cosa significa lo stress da fiera. So altrettanto bene che, però, se non finalizzi i tuoi obiettivi, farai presenza, come tanti altri, e allora forse ti potrebbe costare meno un commerciale che telefono a tutti i tuoi potenziali clienti per due mesi. Qualcosa raccoglie, se ha stoffa.
Ricorda allora che in fiera devi lasciare un segno di te, specie se qualcuno viene per informarsi.
Sia a Milano che a Valencia, ahimè, ho visto, oltre a una fiera del franchising, la fiera delle banalità. “Siamo i leader”, “risultati immediati”, “nessuna fee di ingresso”, “i più innovativi”.
Emanuele Maria Sacchi, consulente e formatore alla vendita, in uno dei tanti corsi in cui ho avuto la fortuna di sentirlo parlare, diceva: “ma lo puoi mettere nella carriola?”. Forse, solo ora, capisco appieno cosa intendesse. I leader. Possono dirlo tutti. Ma dimostrarlo con numeri concreti, che si possano mettere – idealmente – in una carriola, chi può farlo?
Inoltre, quando dici una cosa del tuo brand, prova a prendere un altro brand, magari tuo concorrente. Se sostituisci il tuo nome con il suo la frase ha comunque senso? È coerente? Se lo è, hai un problema, di omologazione.
In fiera potrebbero esserci tanti come te. Devi farti ricordare. E puoi farlo con una marcia in più: la tua presenza.
Le persone che incontrerai si ricorderanno del tuo brand ma anche di come ti sei posto, se sei stato convincente e credibile. Chiedono informazioni, ti sei preparato a dargliele? Ha ipotizzato la gran parte delle domande che ti potrebbero venire rivolte e hai deciso come rispondere ma, non solo, hai trasmesso a chi sta in fiera con te come ti aspetti che le diano? Non è facile. Ma fa parte della preparazione, di quel pre-fiera che non è solo decidere la posizione del bancone di accoglienza dello stand.
E poi, durante la fiera, che strumenti usi per raccogliere informazioni utili, feedback, dati?
Lì davanti a te hai il tuo cliente, probabilmente il migliore: è venuto in fiera per informarsi sui franchising. Come cerchi di raccogliere i suoi dati e le informazioni che potresti dargli? Hai un modo per raccogliere i suoi dati? E di quali dati hai bisogno?
“Non c’è tempo, Silvia”.
E’ sempre questa la scusa. Leggi sopra:
se pensi che non ci sia tempo, stai sprecando il tuo tempo lanciando ami in un lago in cui non sai se ci siano pesci.
Se hai investito in una fiera, investi in un/a ragazzo/a, carino/a e formato/a, che ti faccia da segretaria e raccolga i dati. Tu ti potrai dedicare ai clienti, lui/lei a questa parte burocratica. È un’idea, ma un modo si trova.
Perché dovresti raccogliere i dati in fiera?
Il funnel di cui parlavamo ha diversi livelli. Alcuni sono più lontani dall’acquisto, altri meno. Un potenziale cliente che viene in fiera potrebbe essere più vicino all’acquisto di quanto immagini. Vuoi perdertelo? Io penso di no. E in fiera potrebbe non essere pronto a firmare un contratto di affiliazione, ma magari, di lì a poco, nei giorni successivi, potrebbe rielaborare quanto visto e volerne sapere di più. Farai in modo di ricordargli da subito che tu sei interessato a lui/lei o aspetterai come gli ebrei che scenda la manna dal cielo? Non so se quello lassù sia ancora così magnanimo…
Se hai i dati dei tuoi clienti, qualcosa potresti fare, fra le altre, creando credibilità nel tuo cliente, che a ben vedere, tra qualcuno che non si fa più vivo e tu – magari meno interessante sulla carta – che ti fai sentire e dimostri di avere una strategia, potrebbe decidere per te.
Post evento. Come lo curi? Come continui una relazione che possa provare ad accompagnare la persona che hai incontrato sempre più vicina alla conversione?
Ti dirò di più. Una persona decide di abbandonarti. Dopo averti visitato in fiera, dopo aver letto qualche email, dopo averti sentito al telefono alla fine dell’evento per valutare l’affiliazione al tuo marchio, ti dice che non è più interessata. E tu pace, la lasci andare così, senza proferire parola. Ma come? Ti è mai venuto in mente che chi non sceglie per te potrebbe darti informazioni utili per migliorarti? Se hai creato un rapporto, perché non provi a chiedergli un feedback che magari ti può essere utile come autoanalisi?
Se sei un franchising emergente, se hai appena scelto, dopo un test su uno o più punti vendita pilota, di diventare un franchisor, i feedback sono importantissimi, anche quelli negativi.
La fiera è utile solo per i franchising in fase di startup?
Ahimè, entriamo nella seconda parte della mia analisi delle due fiere di Valencia e di Milano. I big player non c’erano. In questo caso, mi sono ripromessa di fare un approfondimento specifico.
Alla fiera di Parigi sono ricomparsi, mi ha detto Elena Delfino di StartFranchising. Al Salone del Franchising di Milano e al Salòn de la Franquicia di Valencia, però, non c’erano, oppure erano velatamente presenti attraverso le associazioni – specie in Spagna – di Franchise.
Nessuna scoperta del brand che c’è dietro, del team che mi supporterà, del mondo a cui potrei andarmi ad affiliare. È triste, ma ha il suo perché.
Le aziende grandi hanno innescato un processo di inbound marketing in cui la forza e riconoscibilità del brand, la sua diffusione e capillarità, rendono i potenziali affiliati alla ricerca dell’affiliazione. Sono strutture talmente consolidate che in genere si possono permettere un’altissima selezione, non hanno bisogno di aprire qualsiasi porta al mercato, di farsi conoscere. Le persone che vogliono aprire la loro attività alle volte fanno a gara per accaparrarsi una zona per aprire in franchising ancora libera.
Un’altra storia, che non voglio approfondire qui, dove già mi sono dilungata abbastanza, tra Spagna ed Italia.
I due mercati sono uguali?
No. In Spagna c’è molta più fiducia nei franchisor, in questo sistema di imprenditorialità guidata. In Italia c’è ancora dubbio, sfiducia, un po’ di resistenza.
Il settore si è macchiato, negli anni, per colpa di imprenditori poco accorti, tanto che oggi anche i più etici, quando partono, fanno fatica, e le obiezioni comuni sono sempre quelle.
In Italia, poi, c’è un tema scottante, che anche il Salone di Milano ha portato alla luce:
manca la visione imprenditoriale. Chi apre in franchising, spinto spesso dalle possibilitià offerte da un TFR, pensa che il franchising sia una forma di lavoro dipendente. Non lo è.
Quando si parla di contratto di franchising si parla di collaborazione, di esperienza, di know how. Affiliarsi e diventare franchisee però non significa stare dietro una scrivania. Mi ha fatto specie una domanda, uscita proprio a Milano durante uno degli interventi sul diventare franchisee: cosa significa essere imprenditori? Bella domanda. Una bellissima domanda su cui i Franchisor dovrebbero interrogarsi prima di affiliare, per arrivare a scegliere la persona giusta, quella che porterà davvero avanti il proprio brand, anche – perché no? – con la possibilità di costituire fra gli affiliati dei percorsi ancora poco sviluppati nel nostro paese, ma ben consolidati in Spagna o in America, per esempio, per diventare Master franchisor.
Ma questa è un’altra storia.
Da Valencia, e Milano, è tutto, e quindi – come si dice – linea allo studio.
Se ti interessa approfondire il mondo dei franchising o desideri supporto per la tua strategia di marketing per franchising, scrivimi o iscriviti alla newsletter. Grazie di essere arrivato a leggere fino a qui. A presto!
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Franchising: cosa significa? Nasce prima il brand o il network?
Il Franchising ha compiuto gli anni qualche giorno fa. Almeno in Italia. Pare che il primo a creare un franchising in Italia sia stata la Gamma D.I., con 55 punti vendita, il 18 settembre 1970. Non importa quanti anni abbia questo tipo di business, sta di fatto che, ancora oggi, c’è da fare un po’ di chiarezza.
Ho provato a spiegare meglio cosa sia un franchising, almeno sulla carta. Ho cercato di recuperare le varie definizioni che si trovano in giro, per dar loro un senso, ampliando il ragionamento fino a un’annosa questione: è più importante il cliente o il franchisee? Infine, ho cercato di ragionare sul perché, sia per il cliente che per il franchisee, prima di tutto sia importante far nascere il brand, e sostenerlo.
Cosa significa Franchising?
Franchising è la derivazione di una parola francese: franchise, che significa franchigia, privilegio.
Secondo Google, la definizione corretta, in italiano, è: “Contratto mediante il quale un’azienda concede il diritto di commercializzare i suoi prodotti o servizi usando il suo nome o marchio ad un’altra azienda, dietro pagamento di un canone.”
Secondo Wikipedia, invece: “Il franchising, o affiliazione commerciale, è una formula di collaborazione tra imprenditori per la produzione o distribuzione di servizi e/o beni, indicata per chi vuole avviare una nuova impresa, ma non vuole partire da zero, e preferisce affiliare la propria impresa ad un marchio già affermato.”
La legge italiana, dal canto suo, dice così, parlando di affiliazione commerciale: “contratto, comunque denominato, fra due soggetti giuridici, economicamente e giuridicamente indipendenti, in base al quale una parte concede la disponibilità all’altra, verso corrispettivo, di un insieme di diritti di proprietà industriale o intellettuale relativi a marchi, denominazioni commerciali, insegne, modelli di utilità, disegni, diritti d’autore, know how, brevetti, assistenza o consulenza tecnica e commerciale, inserendo l’affiliato in un sistema costituito da una pluralità di affiliati distribuiti sul territorio, allo scopo di commercializzare determinati beni o servizi”.
Chiaro, no? Ehm…
Gli elementi di un franchising sono dunque
- affiliazione
- marchio già esistente
- collaborazione tra imprenditori
In cui si prevedono l’uso e la fruizione di
- marchi
- modelli
- diritti d’autore
- know how
brevetti - assistenza
- consulenza tecnica e commerciale
Con scopo di
- avviare una propria impresa
- commercializzare prodotti e/o servizi
Eppure, quando usiamo questa parola, non sempre lo facciamo “a proposito”. Ci sono diverse tipologie di franchising, in Italia, e non solo, tanto che si parla di affiliazione o, in maniera più ampia, di network, alle volte addirittura, in maniera forse un po’ impropria, di network franchising.
Sotto a questi cappelli, quello che conta è il fatto che ci sia una sede centrale che, capillarmente, si distribuisce attraverso una rete, su un territorio. Di fatto, anche una rete (network) commerciale ha, se vogliamo, dinamiche simili a un franchising, laddove i franchisee sono i commerciali, appunto, che l’azienda dovrebbe attirare a sé per avere la migliore rete possibile sul mercato.
La caratteristica principale, semplificando, è quella che vi sia
un marchio che deve distribuirsi su un territorio e che, se da un lato deve trovare chi l’aiuta a farlo (la rete), deve supportare anche questa rete con una strategia capace di attrarre clienti finali verso i punti vendita, perché dia risultati utili alla sede.
Contorto? Insomma. Di fatto è un circolo.
Franchisee o cliente finale, chi viene prima?
Un brand che si deve diffondere deve essere appetibile a chi lo può diffondere ma anche a chi, attraverso quei contatti, compra i suoi prodotti, interagisce con il marchio, vi si affida e vi si fidelizza.
Dunque è più importante per un brand essere credibile e avere tanti affiliati, ovvero una rete commerciale forte, oppure avere clienti finali che rendono quella rete funzionale?
È un po’ come chiedersi se sia nato prima l’uovo o la gallina, e potremmo disquisirne all’inverosimile. È più importante avere clienti finali o una rete strutturata?
I franchising lavorano o dovrebbero lavorare su due piani: creare la capillarità e allo stesso tempo generare profitto rivolgendosi al cliente finale.
In un precedente articolo sul perché aprire in franchising abbiamo visto questo aspetto e come, nel nostro paese, non sia semplice individuare e lavorare su entrambi i clienti di un franchising.
Io credo che ci sia una questione anche etica, di fondo, da analizzare, che entra a pieno in quello che denominiamo franchising ma che spesso non lo è.
Come si struttura un franchising?
Partiamo dalla strutturazione del business.
I franchising propriamente detti sono realtà che, attraverso un contratto, affiliano degli imprenditori che si vogliono dotare di quel brand e del suo know how per aprire sul territorio.
Esistono anche formule diverse di affiliazione, ad esempio quelle in cui un franchisor partecipa in parte allo sviluppo di quella attività (franchising proprietari o in co-proprietà). In sostanza, il franchisee può detenere al 100% le quote della sua attività o condividerne una parte con il franchisor, o meglio, viceversa, è il franchisor che – in genere – concede una gestione totale o parziale, per quanto, parlando di questa tipologia di attività, sia veritiera una gestione totale.
Un brand ha diverse sedi sul territorio lo sa bene, seppur spesso applichi forme diverse di gestione. Dal lato del franchisee cambiano le tipologie di responsabilità e, internamente, cambia la tipologia di gestione e, per esperienza, la tutela del brand.
Non è facile affidare ad altri la propria immagine, laddove per immagine si intendono una serie di aspetti molto importanti di corporate identity. È un po’ come – l’ho già scritto in precedenza – affidare la propria figlia a un uomo: se sarà quello giusto per la vita, beh, per quanto ci vogliamo credere, non possiamo saperlo. Se la tratterà bene finché morte non li separi, rimane un’incognita. Se, in itinere, scoprirà che è attratto da altre donne, non possiamo saperlo. Certo, nei contratti di franchising ci sono tantissime clausole, ma per esperienza, a seconda di esse, fatta la legge, trovato l’inganno. Non è semplice da spiegare, ma sono diverse le capacità di tutela e di gestione, sia a seconda dell’affiliato, sia a seconda dell’affiliazione. E, senza entrare nel merito del tipo di contratto, cosa che magari avremo modo di approfondire in futuro, di fatto c’è anche un senso di partecipazione, derivato dagli interessi in essere e dalla modalità di affiliazione.
Esistono dei franchising, per esempio, che non occupano tutta l’attività, o che forniscono sono dei corner, all’interno delle attività già esistenti e avviate con un proprio marchio. Capita spesso che, chi vi si affilia, lo faccia per diversi interessi. Se, nello stesso punto vendita, ci sono altri corner, anche non concorrenziali fra loro, è una bella faccenda da sbrigare.
Come fai ad essere certo che il tuo affiliato valorizzerà allo stesso modo te e l’altro brand, come puoi tutelare la tua reputazione, che inevitabilmente passa attraverso la gestione di quel punto vendita?
Nel rapporto, a diverso titolo, con il cliente, ne va dell’immagine del brand, sia verso i propri clienti finali che verso i potenziali franchisee che possiamo attrarre.
Se un brand si sviluppa in questo modo, dovrà creare una rete commerciale e di supporto molto forte, offrire dei servizi, garantire uno sviluppo costante, dare supporto ai suoi franchisee. Pena, considerata l’alta concorrenza che ormai è presente in tutti i settori, che per interesse e profitto, il franchisee si rivolga altrove. Leggevo in un sito di un noto Franchising “Con il suo staff di qualificati professionisti, Calzedonia assiste l’affiliato prima e dopo l’apertura del punto vendita. Consulenti di Area e Zona (1 persona ogni 10 punti vendita circa) sono presenti periodicamente nel negozio per confrontarsi e dare consigli in collaborazione con l’azienda.”
Franchising e comunicazione interna
Io non credo che le dinamiche di affiliazione di questo tipo di settore si allontanino molto da quelle di comunicazione interna, da quella teoria che dice che le aziende di domani (oggi!) sono quelle che attirano le loro risorse, in chiave simile a quella commerciale. Ne ha accennato Annalisa Galardi nel primo articolo sul caso Carpisa, “il tema centrale è come si costruisce l’appartenenza, la fiducia in un brand di cui possa voler essere ambassador”.
Sei un professionista di valore e sai che in un’azienda si sta bene, che ti può far crescere, che fa quel che dice? Se ti ritieni capace, vuoi crescere, o semplicemente valorizzare le tue capacità, desidererai di lavorare in aziende che ti valorizzino, in cui ti puoi sentire a tuo agio, sceglierai le aziende che fanno al caso tuo. Ne parla anche Paolo Gallo, direttore risorse umane del World Economic Forum nel suo libro: La bussola del Successo. Senza star qui a parlare del volume, che consiglio a tutti, dipendenti e aziende, funziona in modo simile per i franchisee o per chi pensa di poter ampliare il proprio business: cercherò aziende che mi consentano di farlo, che siano credibili, che mi diano dei servizi, oltre che prodotti eccellenti. Una strategia di marketing per franchising dovrebbe tenere conto anche di questo.
Se un tempo un franchisor poteva preoccuparsi relativamente poco dell’operato di un suo affiliato, oggi, con la cassa di risonanza che può avere il web, se ne deve preoccupare eccome.
Questa presentazione dei franchising vuole essere una fotografia sulla situazione attuale, che avremo modo di approfondire. La modalità di affiliazione e i bisogni dietro all’apertura di un franchising, o corner franchising che sia, sono talmente tante che non basta un articolo.
Scegliere l’affiliato giusto, che diventi un brand ambassador
Capire da subito le intenzioni del proprio affiliato è la chiave, per una buona strategia di marketing. E non è facile realizzarla. Molti franchisor non se ne preoccupano, rischiando notevoli danni di immagine. E il cliente finale, seppur possiamo disquisire all’infinito su uovo e gallina, è la chiave.
Soddisfatto o insoddisfatto che sia, il cliente finale parlerà del brand, attirando potenziali affiliati o potenziali clienti, sui due piani di diffusione del franchising.
Che il negozio, o il corner, o la produzione, si trovino a Canicattì o a Trepalle, il web non ha confini, e la gente parla, specie se è insoddisfatta.
Online non esistono confini. Se hai un marchio e ne stai curando la distribuzione commerciale dovresti saperlo, e premurarti di operare affinché i tuoi affiliati siano in grado di attrarre e servire clienti soddisfatti.
Il successo di uno, in questo caso, è inevitabilmente il successo di molti.
Brand reputation di un franchising
Curare la reputazione di un brand in franchising è molto complesso, proprio per la diversità di risorse che si mettono in gioco per affiliarsi. Ne ho parlato la scorsa settimana analizzando il caso del Concorso Carpisa, che ha rischiato di minare la reputation del brand.
Strategicamente, un franchisor dovrebbe avere le antenne sempre alzate, per carpire malumori, bisogni e generare una rete che operi al meglio. Un reparto marketing ben strutturato può saperlo fare, ma potrebbe essere necessario un monitoraggio esterno, un’analisi del sentiment che va oltre le semplici recensioni, addirittura richiedendo studi sociologici o clienti misteriosi che forniscano feedback sui punti vendita.
Se stai aprendo un franchising o ne stai gestendo uno e ti ritrovi con queste problematiche, o hai compreso quanto sia importante tutelare il tuo brand, ci sono tecniche e approcci che possono aiutarti: non c’è da aver paura, semplicemente, è bene curare da subito, e in fretta, la giusta strategia di marketing e comunicazione per il tuo marchio e la tua rete.
Questo articolo tocca marginalmente argomenti più ampi sulla corporate identity di un franchising. Grazie per essere arrivato fino a qui.
Il mondo dei franchising è complesso e multisfaccettato, riassumerlo in poche righe non è semplice. Se vuoi rimanere aggiornato sui prossimi articoli sull’argomento, iscriviti alla newsletter (e, se ti va, condividi queste analisi con chi potrebbe essere interessato).
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Carpisa, un franchising che avrebbe potuto (o) voluto mettersi in gioco (seconda parte)
Parlavamo di Carpisa, nella prima parte di questo articolo sui concorsi per franchising, e di un’opportunità mancata per un franchising, di mettersi davvero in gioco e fare la differenza, facendo parlare di sé con notevoli impatti – positivi – sul suo business.
Carpisa, dicevamo, vanta staff giovane, politiche del lavoro innovative e ha fiutato, con questa iniziativa, un modo nuovo di fare un concorso. Fiutato, non sfruttato. Come mai? Cosa avrebbe potuto fare Carpisa e di cosa dovrebbero tener conto i franchising quando fanno iniziative simili?
Riprendiamo da dove eravamo rimasti…
6. La gestione di un concorso per un franchising e il ruolo dei franchisee
Innanzitutto i franchising sono realtà particolari. Come dicevo nell’articolo su Aprire in Franchising dove ho cercato di sottolineare l’importanza di capire che i macro target di un franchising sono due e possono essere ben diversi tra loro (franchisee e cliente finale), è fondamentale non dimenticare mai le azioni che si svolgono su questi due piani e programmarle in maniera strutturata.
Non entro nel merito della gestione specifica del concorso per Carpisa, di cui non posso valutare le dinamiche interne, ma mi ha molto toccato, entrando in uno dei negozi, sentire una commessa che diceva “noi abbiamo detto subito che era un’idea pessima, difatti non ne stiamo parlando per nulla ai clienti”. Mi ha colpito per due motivi, questo approccio:
- Se hai un franchising dovresti preoccuparti di come i franchisee e i loro dipendenti parlano di te. Anche questa è diffusione del brand. Non è la prima volta che nei negozi, specie delle grandi catene, sento persone che si lamentano degli orari impossibili, dei turni che precludono il tempo libero con la famiglia e cose simili. Questa cosa, però, fa male, sia al brand che a chi ci lavora, nei punti vendita. E la sede centrale dovrebbe attivare politiche di monitoraggio del sentiment interno, se vuole attrarre nuovi clienti sui due piani di cui parlavo.
- Se hai un franchising e pensi a una bellissima iniziativa per i clienti finali, dovresti per prima cosa far in modo che i tuoi franchisee la sposino e la diffondano. Un’iniziativa come un concorso, in primis. I franchisor spesso si preoccupano solo di proporre ad alcuni negozi il progetto, chiedendo loro di aderire in cambio di un costo di gestione dell’iniziativa straordinaria progettata dalla sede. Questo crea già di per sé qualche problema: in primis perchè in genere non tutti aderiscono, così da creare confusione nella clientela (come mai da te posso partecipare e da quell’altro no?); e poi perché la percezione del franchisee è che ci siano talmente tanti costi aggiuntivi caricati su di lui che un’iniziativa in più non abbia sempre il focus giusto per fare la differenza e portare nuova clientela in negozio. E torniamo lì: perché aderire?
Ripeto, questo potrebbe non essere il caso di Carpisa, visto che i franchising hanno modalità diverse di invogliare la partecipazione alle iniziative di marketing (c’è chi prevede un costo annuale fisso, chi coinvolge gli affiliati, chi invece propone costi aggiuntivi una tantum, ecc.) ma
quando una realtà con più sedi decide di operare nei confronti del cliente finale, se vuole agire come brand, deve trovare il modo che la diffusione e il coinvolgimento nel progetto sia massimo.
Mi auguro che Carpisa, almeno, abbia tentato questa strada e che tutti i negozi abbiano aderito, se non altro per coerenza. Poi, d’altro canto, mi chiedo se non sarebbe stato possibile fare una specie di sondaggio tra franchisee e loro dipendenti per capire che sentiment potesse generare l’iniziativa, che se tanto mi da tanto, viste le reazioni dell’opinione pubblica, un “due più due” avrebbero potuto farlo prima di lanciarla.
7. L’analisi, prima di tutto. Come si può sfruttare la rete per capire pro e contro di un progetto di comunicazione. Anche a costo zero
Questionario, dicevo prima, anche a costo zero. Tra i propri clienti, visto che Carpisa ha una card, ad esempio, con tutti i dati. Ma anche interno, un questionario, tra franchisee e dipendenti degli stessi, o tra i suoi dipendenti in sede. Possibile che non fosse davvero capace, un brand così attento, di comprendere se una iniziativa di marketing avrebbe potuto dare poco o molto lustro alla sua reputation?
Carpisa ha 600 punti vendita nel mondo. Quanti saranno in Italia? Chi si occupa di ricerca potrà pur dirmi che i sondaggi, per avere valore, devono abbracciare un certo numero di persone, ma io mi chiedo davvero se un’azienda che vanta di avere delle policy interne di gestione del personale di un certo tipo non si sia posta minimamente il problema di offendere i giovani con questo progetto.
Ormai non è più difficile analizzare il mercato, organizzare gruppi di ricerca, fare dei sondaggi di opinione per capire se quello che abbiamo in mente possa funzionare o meno.
Ci vengono spesso tante belle idee creative rispetto a modi inusuali di dialogare con il mercato. Funzioneranno? Come possono essere visti all’esterno? Alle volte, semplificando, possono bastare 5 minuti di dialogo con 3 persone diverse per capire che se ci fermiamo a quanto sia bello un progetto sulla carta, rischiamo di farci male. E per un franchising la questione, a mio avviso, è ancora più delicata. Il franchisor non solo ha la responsabilità dei franchisee, ma della loro reputation di fronte ai clienti e al brand, e sono strettamente correlati, considerato che
gli affiliati, nei loro negozi, sono l’avamposto del marchio, prodotto o servizio, diventano la sua carta d’identità, la sua faccia di fronte a chi compra.
Soprattutto, con i franchising con cui mi interfaccio, noto spesso questa voglia di fare cose innovative a tutti i costi, per poi scoprire, dall’analisi, che mancano attività di base come la gestione di un CRM dei clienti, la corretta gestione degli strumenti di marketing online per franchising, una carta dei valori condivisa, la capacità di analizzare il territorio per le aperture e tante altre cose che non è il caso di trattare qui.
Carpisa avrebbe dunque potuto fare un’analisi veloce e avere risposte immediate sulla fattibilità di questo concorso e i risvolti che avrebbe potuto avere sull’opinione pubblica, aggiustando il tiro prima di lanciarlo? A mio avviso sì. Come ho detto nella prima parte, questo concorso poteva essere un’opportunità.
Quando ho cominciato a valutare l’impatto sociologico di un prodotto o di un servizio, cercando di capirne il posizionamento sul mercato, anche grazie alla figura di un sociologo bolognese dell’Università di Verona che ho tanto odiato ai tempi dell’Università e tanto apprezzato, poi, sul lavoro, Domenico Secondulfo, mi si sono aperti dei mondi sulle possibilità di comunicazione dei franchising, e oggi metto sempre in discussione la percezione che posso avere io rispetto al mercato e quello che invece il mercato sente o pensa di un prodotto o di un servizio. Siamo esseri umani influenzati, a mio avviso, da tantissimi input. Viviamo però di cliché e preconcetti e non è facile farci cambiare idea su alcune cose, specie se sono radicate nella nostra cultura.
Chiederci a monte cosa rappresentiamo o possiamo rappresentare per il nostro cliente è un passo che viene ancora prima del posizionamento della nostra marca nella loro mente. Le parole chiave che ci rappresentano cosa significano per loro? Cosa significa stage per un ragazzo? Cosa significa lavoro per chi ha da 18 ai 30 anni? Cosa significa realizzare un progetto creativo e che quel progetto venga realizzato? Un giovane vorrebbe avere la possibilità di fare dei progetti per un’azienda? E come vorrebbe che gli venissero riconosciuti? Queste cose avrebbe dovuto chiedersi Carpisa, se non altro se l’obiettivo del suo concorso voleva essere quello di abbracciare quel target di mercato, i ragazzi dai 18 ai 30 anni. Quale vero obiettivo vi sia dietro a questa iniziativa e come lo stiano misurando, ahimè, non lo sapremo – forse – mai.
8. Lanciarsi nel vuoto, senza paracadute. Perchè se sviluppi il tuo brand, prima ancora di un concorso, si potrebbe pensare a investire altrove. Tra brand reputation e community management
Dicevo che vengo coinvolta in progetti molto creativi per le aziende. Concorsi, campagne spettacolari, storytelling creativi con costi imponenti. E poi scopro che gli strumenti di Facebook per i franchising non sono settati, che non ci si è chiesti come fare un piano editoriale nazionale con degli obiettivi concreti, che mancano le sedi sulle mappe di Google e che Google My Business non è mai stato impostato.
Ancora peggio, capisco che non ci sono politiche di tutela del brand nei contratti, per l’online, laddove mancano le giuste voci che parlano di utilizzo dei social e dei siti internet. Magari, ancora peggio, mi rendo conto che alcuni franchisee, sconfortati da una mancanza di gestione interna, si sono organizzati con siti propri, che hanno sviluppato progetti paralleli che possono generare forme di concorrenza interna o – anche – mettono in discussione la credibilità del franchisor agli occhi degli altri franchisee.
Io credo che oggi i franchising dovrebbero per prima cosa mettere in ordine gli strumenti e dotarsi di risorse che li aiutino a gestire in maniera organizzata e strutturata tutti gli strumenti, dall’offline all’online.
In Italia ci sono tante lacune su questi aspetti, troppe. Se un brand lascia un’immagine buona di sé verso il suo cliente finale, il cliente si rivolgerà a quel brand, esso otterrà un buon posizionamento, i franchisee arriveranno proprio perché il brand può garantire clientela di un certo tipo.
Ho visto molte lacune negli strumenti online utilizzati da Carpisa, una gestione dubbia dei CRM e della Marketing Automation, tensioni nei negozi. Ho visto gruppi su Facebook che ne parlano parecchio male, commenti online difficili da gestire, una reputation sul prodotto abbastanza dubbia.
Al di là che il concorso potesse essere una bella opportunità, io credo che prima di questo ci sarebbero state delle cosine da sistemare, e che debba essere uno degli obiettivi di tutti i franchisor, non solo per una forma di rispetto dei franchisee, che vi si affidano, ma anche per una corretta gestione della propria presenza e della propria brand reputation, su cui non possono permettersi di sgarrare.
Quello che un tempo poteva essere un punto vendita “pecora nera” in un paesino sperduto, di cui nessuno sapeva nulla, oggi, con l’online, è visto in maniera universale e influenza anche tutti gli altri franchisee.
9. Il concorso perfetto. Ecco cosa avrebbe potuto fare Carpisa, aumentando l’investimento ma, potenzialmente, incrementando visibilità e credibilità aziendale
Quale poteva essere il concorso Carpisa perfetto, dunque? Proviamo a ripercorrere un piano strategico, partendo dall’obiettivo, ipotetico.
Obiettivo: voglio ampliare la percezione del brand Carpisa verso le ragazze più giovani
Come lo raggiungo? Ho pensato al concorso per un progetto creativo sul brand di Penelope Cruz. Idea: offro uno stage a chi mi presenta il miglior progetto così con 500 euro magari ottengo qualcosa di buono. Al massimo, ci avrò perso 500 euro e i costi di gestione del concorso. Questo è quello che hanno fatto, anche con scarsa fiducia nei giovani.
Come avrei operato?
- Visto che si tratta di un concorso, avrei cercato di capire se il premio sarebbe stato allettante. A chi lo chiedo? Al target. Come lo trovo? Online, ma anche nei miei negozi o nei miei uffici, o tra i figli dei miei dipendenti o franchisee. Un po’ di pensiero laterale, please.
- Mi sarei chiesta se questo premio rispettasse i valori del brand. Uno dei dati che oggi ho in mano di Carpisa è quello relativo alle notizie, diffuse dalla stessa azienda, su politiche di HR innovative, inserimento di lavoratori giovani e apertura a un mercato del lavoro più smart e young. Insomma, non mi immagino un Big G dei franchising, con piscina interna e tanti benefit (siamo pur sempre in Italia) ma un’azienda che nel suo piccolo ha questi principi.
- Avrei cercato di capire se, fuori, vi siano iniziative simili o vi siano state e avrei chiesto a chi le ha organizzate – potendo – la loro opinione. Ci sono le società che organizzano hackhaton che sono molto preparate sul tessuto sociale dei giovanissimi e la loro predisposizione rispetto a questo tipo di iniziative.
- Dai risultati, avrei tratto spunto per trasformare il progetto in una iniziativa non solo di promozione su un target, ma di storydoing, per raccontare la mia azienda e la sua vision, oltre che il tessuto interno, sposando la comunicazione interna e quella esterna in un progetto di storytelling che andasse a raccontare non solo il pre del concorso, ma anche il durante e, dopo, lo stage, trasformando il ragazzo o – più presumibilmente – la ragazza, in una specie di testimonial “de noantri”, una persona che veramente vive l’azienda e i suoi valori e li può trasmettere. In un mese? Direi di no… ecco, quello no.
- Avrei cercato di chiedermi con dei formatori o dei coach come costruire un progetto di stage di valore, in modo che anche fuori dall’azienda, vincitore o vincitrice potessero mantenere alto il concept dell’iniziativa, anche dopo.
- Avrei cercato di capire quale fosse il vero premio in denaro adatto a quello che chiedevo.
In sostanza, come ho già accennato prima, avrei fatto un concorso diverso, dove l’analisi, che sto facendo ora ma che un colosso come Carpisa avrebbe sicuramente potuto fare a monte, trasformasse davvero un’idea in un’opportunità, non solo per il marchio ma anche per i franchisee.
Immaginiamoci un concorso tipo:
Ti piacciono le borse della collezione Cruz? Ti piacerebbe diventare il responsabile del prossimo progetto Carpisa e sviluppare un tuo piano marketing internamente all’azienda, coadiuvato dal nostro reparto marketing, per imparare veramente come avviene il lancio di un prodotto e avere la possibilità di firmarlo con il tuo nome?
Carpisa cerca te! Candidati online (senza obbligo di comprare una borsa!) e presentaci il tuo progetto, in base a questo brief (e qui un brief dettagliato). Inviaci un documento che abbia al suo interno almeno queste caratteristiche (con la definizione del formato e uno standard di presentazione, uno schema). Una giuria di esperti composta da (nomi e cognomi o quantomeno ruoli, tipo direttore marketing Carpisa, presidente, un esponente universitario, per esempio, ecc.) valuterà gli elaborati e i 10 migliori verranno chiamati in Carpisa per presentare il progetto alla giuria (spesati dall’azienda, con visita interna e presentazione delle iniziative, ecc. ecc.) che valuterà il candidato ideale per uno stage di 6 mesi per lo sviluppo del progetto, a Napoli, con rimborso spese e vitto e alloggio a carico dell’azienda. Il progetto vincitore riceverà un premio di x euro (qui da quantificare) mentre gli altri nove riceveranno dei – buoni? – da spendere in Carpisa (?) oppure altri micro premi per aver partecipato ed essere stati a Napoli, tipo (da valutare, insomma). La giuria valuterà in base a questi parametri (e giù un elencone molto chiaro). Gli obiettivi dello stage saranno … (e anche qui il valore aggiunto di dire: posso mettere nel CV di aver fatto questo tipo di esperienza, e non farò uno stage a fare fotocopie…).
A fronte di questo sarebbero stati da raccontare tutti i momenti pre, fino all’inserimento in azienda dello stagista e una specie di diario di bordo delle sue giornate.
Costoso? Complesso? Certo! Ma quanto verranno pagate le Cruz per mettere la loro firma su una linea di borse? Io credo che al di là del progetto il valore aggiunto di un concorso simile vada ben oltre un tentativo di dialogo con questo target. Quanti marketer, riviste, giornali, avrebbero potuto parlare dell’iniziativa, se l’avessero realizzata così?
10. Purché se ne parli. Ha stancato. Ma funziona?
Ormai è risaputo che il trend degli haters è uno dei nuovi trend delle strategie di marketing e che ci sono delle iniziative che nascono dalla conoscenza delle dinamiche dell’ingerenza dell’opinione pubblica per lanciare un prodotto o un’iniziativa e farne parlare più a lungo possibile. Ne abbiamo disquisito a lungo sul caso Buondì Motta, che non è la sede giusta per parlarne, e sinceramente non vorrei qui arrivare a creare una parentesi così lunga da abbracciare anche questa tematica.
Io non credo, per la reazione di Carpisa, che questo sia uno di quei casi in cui si è deciso di far leva sugli haters per trascinare un pubblico. Si entra troppo in un ambito delicato come quello del lavoro su cui i giovani non vogliono per nulla scherzare.
Vedremo se Carpisa saprà cavalcare l’onda, trasformare questo miserrimo mese in una vera opportunità per ribaltare la percezione che continua a persistere di questo concorso. Vedremo se, tra tante righe scritte in merito, oltre che rispondere con poche righe da ufficio stampa, sarà in grado di ribaltare una percezione diffusa, che passa dallo sfruttamento di chi lavora nei negozi e arriva a uno stage sottodimensionato per ripagare un’idea.
Vedremo, dicevo, perché le iniziative di marketing vanno comunque valutate sui numeri, e sono pronta a ricredermi, che magari il tessuto sociale intorno a Carpisa si sia mosso in maniera proattiva rispetto a questo progetto.
Al di là di questo, per costi, modalità, gestione, approccio, non avrei mai proposto un’iniziativa così, come l’abbiamo vista sulla carta, a un mio cliente, specie se si tratta di un franchising, laddove spesso anche i franchisor più attivi e capaci vengono visti con sospetto perché è ormai diffuso che i franchisee vengono attratti, carpiti, contrattualizzati e poi abbandonati al loro destino.
Se un franchising in Italia vuole fare la differenza credo debba passare dalla percezione della gestione dei suoi franchisee, offrendo strategie locali di creazione della clientela e sua fidelizzazione,
accompagnando un imprenditore a diventare tale, dando tutti gli strumenti a chi si fa da promotore del suo brand sul territorio per avere introiti tali da giustificare l’investimento, creando dinamiche di partecipazione e coinvolgimento che siano in grado di supportare anche i franchisee meno attivi, come in una famiglia, in cui proprio perché si crede nel brand, si sostiene chi lo porta all’esterno.
Un concorso che dice, di fatto: vi facciamo un piano di marketing con uno stagista pagato per un mese, a mio avviso, non sostiene questa filosofia, né verso il mercato, né verso gli affiliati, che meritano altro.
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Carpisa, un franchising che avrebbe potuto (o) voluto mettersi in gioco (prima parte)
Più che Carpisa, un franchising che avrebbe voluto mettersi in gioco, questo articolo potrebbe intitolarsi: la dignità del lavoro e lo stage all’ufficio marketing di Carpisa. E tutti vi aspetterete che, data l’indignazione generale sul tema, io mi accodi al ben-pensare generale.
Questo articolo, da questo punto di vista, deluderà.
Mi sono decisa a parlare di Carpisa e del suo concorso tanto discusso solo perchè è per me uno spunto per parlare di strategie di marketing per franchising che, in questo caso, a dirla tutta, strizza l’occhio non solo ai network.
Non voglio mettermi a discutere sulla strategia di Carpisa, sui suoi fatturati, sull’espansione di un marchio che in pochi anni ha raggiunto i 600 punti vendita e conquistato il mondo con le sue borse. Se sono arrivati fino a qui, è palese che qualcosa di buono e strategico lo abbiano fatto.
Aprire un franchising non è facile, pensare di svilupparlo ancora meno, far in modo che i negozi traggano profitto e si distinguano nei luoghi in cui vengono aperti, non è scontato.
Quello che mi preme analizzare rispetto a Carpisa è la mancata occasione di raccontare e raccontarsi.
In questi ultimi tempi, anche se c’è un po’ di confusione in merito, è – di fatto, per usare termini “markettari” – la mancata occasione di fare “storytelling” e “storydoing”. Cercherò dunque di fare da subito ordine, spiegando il mio punto di vista sul progetto, con una nota finale: questi soldi avrebbero potuto investirli meglio o altrove?
Beh, dall’analisi di Carpisa qualche strategia strutturale poteva venir fuori, prima di un concorso, apparentemente, abbozzato. E, così dall’esterno, pare che Carpisa abbia optato per la tanto agognata visibilità senza tener conto di un’analisi sociologica iniziale che avrebbe potuto creare una vera opportunità per il marchio (sia chiaro, non penso minimamente che dopo questo fail avranno gravi ripercussioni, semplicemente che avrebbero potuto sfruttare alla grande un’opportunità, segnando in qualche modo “una storia”).
Vediamo dunque quali sono gli aspetti che ho analizzato e andremo ad analizzare.
- L’idea. Un concorso che sia qualcosa di diverso. Dagli hackaton a Carpisa, qualcosa di innovativo c’è, per fortuna, e si può fare.
- Storydoing. La possibilità di un brand di raccontarsi dall’interno, senza favolette. Se puoi farlo, ci puoi costruire dell’ottimo storytelling funzionale ad attirare franchisee e clienti.
- Il lavoro, e la dignità. Perché poteva essere una possibilità invece di apparire come puro sfruttamento.
- Le idee si pagano. Quanto? Come? Possibili sviluppi.
- I concorsi, nel piano di marketing. Utili? Inutili? Ma quanto costano?
- La gestione di un concorso per un franchising e il ruolo dei franchisee
- L’analisi, prima di tutto. Come si può sfruttare la rete per capire pro e contro di un progetto di comunicazione. Anche a costo zero.
- Lanciarsi nel vuoto, senza paracadute. Perché se sviluppi il tuo brand, prima ancora di un concorso, si potrebbe pensare a investire altrove. Tra brand reputation e community management, specie in caso di crisi (reale o presunta).
- Il concorso perfetto. Ecco cosa avrebbe potuto fare Carpisa, aumentando l’investimento ma, potenzialmente, incrementando visibilità e credibilità aziendale.
- Purché se ne parli. Ha stancato, anche se talvolta funziona.
1. L’idea. Un concorso che sia qualcosa di diverso. Dagli hackaton a Carpisa, qualcosa di innovativo c’è, per fortuna, e si può fare.
Concorsi, concorsi, concorsi, e poi gare. Che senso hanno per un brand? Spesso, senza una giusta strategia, hanno senso solo per far perdere tanto denaro. Ho visto, negli anni in agenzia, avviare concorsi senza un piano strategico. Promozione, raccolta dati, estrazione. Stop. Come finalizzare poi tutta quella mole di dati?
Le agenzie che creavano i concorsi, anche quando sono stata in azienda, non mi hanno quasi mai fornito una visione così a lungo termine: tutto si fermava alla consegna del premio.
Veniamo ai concorsi di idee, a quelli che sono concorsi per il coinvolgimento di persone, attivamente, in un progetto. Non stupiamoci se esistono, perché ci sono dalla notte dei tempi. Anzi, se non erro – non sono un’esperta e lascio spesso a società più preparate la gestione di questa cosa burocraticamente molto complessa – esistono proprio dei concorsi in cui portare un’idea, qualcosa di creativo, non comporta tutto l’iter tradizionale con versamenti di fideiussioni e coinvolgimenti di notai. Semplicemente, le persone, presentano un pezzo musicale, un testo scritto, un ballo, un dipinto, una foto e, per aver messo in campo la loro opera intellettuale ricevono un compenso.
Il caso di Carpisa, apparentemente, sembra questo.
È il caso anche di molti di quelli che stanno diventando sempre più di moda, oggi: gli hakathon e i concorsi di idee. Si tratta di weekend, per lo più, in cui gruppi di persone passano molte ore (anche due o tre giorni) insieme per sviluppare un’idea o un progetto per un brand. Chi vince, prende un premio, alle volte in denaro, altre in altri generi di benefit. Esistono anche per ricevere denaro per propri progetti: li sviluppi sempre nel weekend e poi lo sponsor di turno o la società che ha deciso di investire in questa iniziativa, ti dà un supporto per queste cose.
Personalmente, ho partecipato a una call for ideas lo scorso aprile, a Verona, per un noto brand assicurativo. Il gruppo vincitore ha ricevuto un premio di 5.000 euro, se non ricordo male (non era il mio, ahimè, anche se ce la siamo cavata benone dopo quasi 48 ore senza dormire). Non vedo grandi differenze in quanto proposto da Carpisa, se non con le dovute critiche sulle modalità di approccio e di sviluppo che vedremo andando avanti.
Di fatto, non ci vedo nulla di male se un brand decide di coinvolgere dei giovani in un progetto e poi lo paga:
succede anche all’università o in altri contesti e in America avviene da sempre… che poi qualcuno in Italia ne approfitti è un altro paio di maniche… non parliamo del lavoro di alcuni ricercatori che esce a nome del professore di turno, vero?
Di certo, invece del solito concorso in cui si vince un viaggio – apprezzatissimo, per carità – qui si è provato a fare sviluppo. Un’azienda che si mette in gioco, che apre le porte, che si fa conoscere anche per la parte lavorativa.
Cosa mancava rispetto agli hakathon americani? Ho chiesto un parere a chi lavora con progetti simili, focalizzati sui giovani, da “qualche” anno.
“Trovo interessante e di valore l’idea di Carpisa, se fossi un giovane in target vorrei assolutamente cogliere quest’ opportunità”, dice Sara che oggi segue molti giovani in cerca di opportunità professionale che desiderano lavorare allo sviluppo continuo della propria impiegabilità. “Se fossi un giovane interessato al concorso, son certa ce ne siano molti, però mi potrebbero essere utili alcune ulteriori informazioni e specifiche che non risultano immediatamente chiare.
Mi sarebbe utile ad esempio conoscere quali saranno gli indicatori precisi sui quali si basa la valutazione del progetto: cosa si intende esattamente per qualità? Conoscere gli indicatori mi aiuterebbe infatti a tarare al meglio il mio lavoro e a confidare in un processo “scientifico” di valutazione che penserei quindi non solo come frutto di “mera” discrezionalità, benché assolutamente lecita. A meno che il criterio sia proprio quello di stupire e rischiare senza precisi indicatori di risultato, ma anche in questo caso mi piacerebbe che ci fosse una chiara dichiarazione di intenti.
Oggi, inoltre, ai giovani in cerca di opportunità professionali viene sempre più richiesto di identificare in sé e nella propria esperienza quelle caratteristiche e competenze distintive che possono fare la differenza per essere “il candidato giusto” per quella specifica posizione e anche in questo caso, se fossi un potenziale candidato, mi sarebbe utile qualche specifica in più sulle capabilities e le caratteristiche richieste per la posizione offerta. Insomma, vorrei giocarmi al meglio l’opportunità su tutti i fronti e non lasciar nulla al caso nella mia proposta di valore.
Troppo spesso raccolgo dai giovani che incontro e che seguo la percezione di un mercato del lavoro che sfrutta, prendendo le tue energie e anche le tue idee senza restituirti nulla ma soprattutto senza poi coinvolgerti in un percorso di crescita e di sviluppo reale.
Molte volte è così che purtroppo vengono lette da parte loro le iniziative di open innovation, call4Ideas etc quando, anche con le migliori intenzioni da parte di aziende serie e solide come in questo caso,
si tralascia di essere più trasparenti e chiari possibili nelle richieste e nell’offerta di opportunità, rischiando il boomerang di una leva di reputation che, specie quando si parla con i giovani, può tornare indietro tanto velocemente.
Ma in tutto questo… nulla impedisce ai giovani interessati e che magari stanno leggendo queste mie riflessioni di mostrare intraprendenza, proattività e reale motivazione per chiamare, scrivere a Carpisa per reperire tutte quelle informazioni che potrebbero farvi essere IL CANDIDATO!”
Una bella idea, dunque, con un alto potenziale, sviluppata male.
2. Storydoing. La possibilità di un brand di raccontarsi dall’interno, senza favolette. Se puoi farlo, ci puoi costruire dell’ottimo storytelling funzionale ad attirare franchisee e clienti
Si parla di franchising, di aziende, e di potenziale. Si parla, negli ultimi tempi, anche di storydoing.
Attenzione! Storytelling e Storydoing sono cose ben diverse.
Ho cercato di capirlo da una delle esperte italiane della materia, che presenterà l’argomento al prossimo festival della Comunicazione di Camogli, questo weekend, Annalisa Galardi. Cerco di esprimere al meglio quello che, tradotto in parole semplici, è un argomento molto complesso, in realtà, specie nel suo sviluppo operativo, etico, consapevole. Qui si cambiano veramente le aziende, dal basso, dall’interno.
In pratica, storytelling è il racconto di un’impresa, una favola. Può essere vera, ispirata al vero, inventata. Si possono raccontare valori, pensieri, storie di antenati o di attività presenti. Non è detto che siano vere. Certo, se un’azienda lo fa bene devono essere almeno coerenti, perché se narro all’esterno che tutto va bene e che l’azienda è la migliore del mondo ma all’interno ci sono casse integrazioni e situazioni di disagio, beh, anche se provo a nasconderle, prima o poi… con notevole ricaduta di immagine.
Lo storydoing invece è il fare, l’operare fin dall’interno per creare una storia. Olivetti, in sostanza, faceva storydoing. Lo storytelling ne è un suo strumento, in sostanza. Diciamo che, per farla semplice – e non me ne voglia la dott.ssa Galardi –
potremo dire che lo Storytelling è un film, lo storydoing è un documentario, se vivono separatamente. Se li facciamo coesistere, come lei fa con i suoi clienti, lo storytelling diventa il regista giusto per raccontare in maniera efficace la storia (vera).
Cosa c’entrano Storytelling e Storydoing con un franchising come Carpisa che lancia un concorso per l’assunzione di uno stagista? Dal mio punto di vista inserire una persona in azienda può essere un’ottima occasione per fare queste attività e dimostrare – a onor del vero – che quello che si scrive dell’azienda che sta dietro a questo marcio (staff giovane, ambiente dinamico, ecc.) è vero. Con notevoli ricadute positive sul brand.
Ho chiesto ad Annalisa di darmi il suo punto di vista sull’iniziativa. Cosa avrebbe potuto fare Carpisa per dare valore a questo progetto, per davvero, come opportunità? Ci sono dinamiche che un franchising potrebbe trarre dallo storydoing, e come, secondo te, si riversare su franchisee e clientela?
“Come compare scritto nel sito di Carpisa, l’azienda si vuole presentare come “Un gruppo in cui tutti sono attori e sentono partecipi di una storia vincente”.
Le storydoing companies sono proprio le aziende vincenti, che “fanno la storia” e generano appartenenza nei clienti e, nel caso di franchising, nei franchisee.
Quindi il tema centrale è come si costruisce l’appartenenza, la fiducia in un brand di cui possa voler essere ambassador. Metterei in evidenza almeno due caratteristiche: autenticità e rilevanza.
C’è un grande bisogno di autenticità e verità, tanto che il “basta che se ne parli” non regge più.
Ed essere autentici e veri è faticoso perché ci richiede uno sforzo costante, oltre il racconto, oltre a quello che è scritto sul sito e che ho formato i venditori perché sappiano esporlo in modo efficace. Per questo lo storydoing è un approccio strategico che inizia a monte rispetto a quando solitamente si attiva un’agenzia di comunicazione per il lancio di un prodotto o di un’iniziativa. La coerenza tra quello che diciamo e quello che facciamo è proprio la chiave per la costruzione di un commitment profondo, che ci tiene legati non solo per convenienza. In un flusso che parte dall’interno dell’organizzazione per portarsi fuori, guadagnando forza e credibilità.
La rilevanza riguarda invece la capacità di leggere gli interlocutori e il contesto in cui si opera. Solo se la mia storia incontra la storia dei miei “pubblici” e li aiuta a far evolvere la propria narrazione, le persone a cui mi rivolgo saranno le prime a sostenermi. In un’epoca in cui la sensibilità per nuove modalità consumo si è fatta strada, un brand come Patagonia – ad esempio – ha potuto lanciare la una campagna pubblicitaria si invitano le persone a comprare una nuova giacca solo se ne hanno davvero bisogno. Chi si avvicina a quel brand, compra un prodotto e la sua storia e ne acquista forza per la propria storia personale.
Insomma,
un franchising potrebbe trarre spunto da queste riflessioni per costruire un solido legame con i franchisee e, attraverso di loro, coi propri clienti rafforzando la consapevolezza della propria core story,
invitandoli a tradurla in azioni capaci di darle forza e in un racconto caldo e coinvolgente. Non dovrebbe, poi, mai mancare un’attenta lettura del contesto e degli interlocutori per costruire narrazioni che possano far crescere sia la storia del brand sia quella di chi lo sostiene. A partire dalle proprie persone.”
Un’altra opportunità persa, insomma. Peccato.
3. Il lavoro, e la dignità. Perché poteva essere una possibilità invece di apparire come puro sfruttamento.
Lavoro, opportunità. Ne parliamo ogni giorno ma, per un giovane, continuano lo stesso a brulicare gli annunci in cui si richiedono tot anni di esperienza oppure le esperienze che ti mettono a dura prova con salari ridicoli, se non, addirittura, in stage non pagati.
Il lavoro va pagato. In Italia abbiamo questo strano principio del risparmio su quello che fanno… gli altri.
I giovani, d’altro canto, l’ho visto nella collaborazione con Progetto di Vita, realtà veronese che si occupa della creazione di percorsi di sviluppo per studenti, laureati e lavoratori tra i 18 e i 35 anni, sono ormai disillusi da un ambiente che non premia più nessuno, da uno sfruttamento diffuso, dalla difficoltà di crearsi delle prospettive.
Oggi come oggi, inserire giovani in azienda non sempre viene vista come un’opportunità, ma come un risparmio rispetto all’inserimento di figure senior, con notevole impoverimento, spesso, dei contenuti dell’azienda.
Laddove c’è equilibrio si crea spesso una magia.
Non è facile, però, costruirsi le opportunità giuste e l’università non ci prepara affatto alla costruzione di un personal branding e di un network che sia funzionale alla nostra carriera. C’è chi si fa da sé, chi invece va all’estero.
E chi rimane e ha ottime qualità ma non le sa spendere sul mercato? Potrebbe trarre beneficio da un concorso come questo? Io penso di sì.
Penso però, anche, che un mese di stage sia una cosa ridicola. Come si fa a sviluppare un progetto in un mese, cercando di imparare qualcosa? L’errore più grande, in questo senso, specie perché il bando era per giovani tra i 20 e i 30 anni (velatamente una ricerca di un apprendista?!?) è quello di dare un tempo così ristretto al vincitore. 500 euro al mese, con vitto e alloggio (anche per il weekend) per 6 mesi. Come l’avrebbe vista il mondo del lavoro, là fuori? Magari abbassando l’età: 20-25 anni… 20-27… Quanto pagano certi stage, facendoti fare solo fotocopie? Manca però un tassello, lo ha evidenziato Sara, sopra: cosa imparerò durante lo stage? Di fatto, di un mese o di 6, lo stage dovrebbe essere, cito L’Accademia della Crusca, “un periodo di formazione o perfezionamento professionale trascorso presso un’università o un’azienda, in particolare per acquisire la preparazione professionale necessaria a svolgere un’attività”. Formazione. Perfezionamento. Preparazione. Come me li dai? Ripeto, che sia un mese o un anno, devono essere chiari gli obiettivi. Senza, potrei pensare anche di fare fotocopie. Per altro, nota a margine, nessuno cita nel regolamento che verrà dato seguito al progetto proposto, durante questo fatidico stage…
Ho chiesto, in questo caso, ad Emiliano Galati, segretario regionale Felsa Cisl (Federazione lavoratori somministrati autonomi atipici), che si occupa del monitoraggio, tutela e informazione di tutti i lavori di domani, dal lavoro somministrato alla Partita IVA. Cosa pensi di questo bando e lo vedresti un modo diverso di fare una selezione in azienda, se avesse le carte in regola?
Penso che lo stage sia per definizione un periodo di formazione sul campo che deve però essere ben distinto dall’attività lavorativa vera e propria.
4. Le idee si pagano. Quanto? Come?
Di questo argomento si è sempre discusso moltissimo. Portami un’idea poi vedo se mi va bene, te la approvo e te la pago, semmai. Quanti potenziali clienti fanno così?
L’idea in realtà è qualcosa di preziosissimo e spesso inquantificabile.
Nella vita continuano a venirci idee, spesso buone, altre volte meno. Se qualcuno ci presenta un’idea di comunicazione e marketing, che abbia un senso rispetto a un brief iniziale, il suo lavoro va retribuito. Questa persona avrà investito tempo, alle volte anche denaro, nella realizzazione dell’idea. Quanto la valuto? Non di certo uno stage a 500 euro.
A mio modesto avviso qui andava pagata l’idea. Poi lo stage, ma intanto il vincitore doveva ricevere il premio per la miglior idea. A meno che, visto quanto dicevo prima, l’azienda non creda che usciranno idee interessanti – e a pensar male, spesso… – ovvero che i giovani in questione non saranno in grado di formulare qualcosa di utile. In effetti, non dice che l’idea sarà sviluppata nel fatidico mese, non si propone di dargli un seguito. Io me li vedo i direttori marketing che pensano che usciranno delle cavolate… invece spero saranno sorpresi, me lo auguro tanto.
5. I concorsi, nel piano di marketing. Utili? Inutili? Ma quanto costano?
I concorsi hanno senso nel piano marketing e i concorsi per franchisee, di cui parleremo nella seconda parte di questo articolo, come vanno trattai?
I concorsi sono strumenti di scoperta importanti e interessanti. Ma sono davvero utili e, soprattutto, al di là di quelli di cui abbiamo parlato in precedenza, quanto costano? I concorsi costano tanto. Innanzitutto costano perché la legge italiana è complessa ed è un attimo sbagliare e trovarsi sanzioni elevatissime.
Quindi, per fare bene un concorso c’è da affidarsi a un esperto, o a un’agenzia che fa solo quello.
Anche un avvocato può essere utile, da coinvolgere. Poi ci sarà da interpellare il notaio, da investire tempo nella creazione dei contenuti, da mettere risorse nella ricerca del premio o dei premi. Tanti soldi, insomma, dall’inizio, più le risorse interne. Da ultimo, ma non per importanza, la promozione. Per far vivere un concorso e ottenere i risultati sperati, va promosso. E per promozione non intendo solo le ads di Facebook o la campagna in TV o sulla carta stampata. Per promozione intendo far conoscere in ogni dove del concorso, a qualsiasi persona, anche rivisitando i pack di un prodotto, se necessario, per inserire il concorso (e in un franchising questa operazione deve coinvolgere anche i franchisee e prepararli attentamente). Consulenza, premi, promozione,… anche se costa meno la parte iniziale, funzionano ovunque, hanno un costo comunque.
Quanto sarà? Un concorso ben fatto può costare sui 3000 euro, a mio avviso, di sola consulenza (sto andando a memoria di certe operazioni seguite, non me ne vogliano gli esperti del settore).
La promozione va calibrata in base al tempo, compresi i costi vivi di click e ads.
Se hai un franchising, poi, questo costo come lo gestisci? Si spalma nel piano annuale di marketing degli affiliati, che è già esiguo, in genere? Faccio fatica a vederla come una mossa strategica…
I punti che ho sviluppato sono molti più di questi ma per leggibilità uscirà nei prossimi giorni il secondo articolo per approfondirli… sei curioso? Iscriviti alla mia newsletter o seguimi su Facebook e LinkedIn. A presto!
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Aprire in franchising, con te, ma perché? Chi sono i tuoi clienti?
Franchising, e clienti. Quanti e quali sono? Qual è il tuo target?
I Franchising hanno dinamiche strane, rispetto agli altri business, perché hanno due tipologie di clienti: i franchisee e i clienti dei franchisee. Spesso i master franchisor si concentrano solo sui franchisee, dimenticando i clienti finali.
Proviamo a capire cosa muove un franchisee, partendo da un’esperienza pratica: lo scorso Salone del Franchising di Milano. Vedremo insieme, con qualche riflessione:
- le leve che muovono un potenziale franchisee
- la zona dove apre e la confusione di alcuni franchisor
- i motivi per cui il cliente finale attrae anche nuovi franchisee, aiutando lo sviluppo della rete
Perché le persone pensano al franchising?
Aprire una propria attività, scegliere di mettersi in proprio, magari realizzare il desiderio di una vita, oppure cercare la strada per una vita diversa da quella impiegatizia. Negli ultimi anni, dal 2008 in poi, anno fatidico di quella che ormai – è certo – non si può più chiamare solo crisi, sono molti gli italiani che hanno pensato che era giunto il momento, o era necessario, mettersi in proprio, cambiare. Verso cosa?
Sono aumentate, esponenzialmente, le richieste di aprire in franchising. Se hai un brand che si sviluppa su più sedi, dovresti saperlo.
Quale strada percorrere per aprire in franchising?
Una conoscenza un tempo mi disse: se hai un entourage di dipendenti, difficile che ti siano utili per capire come metterti in proprio.
Se vuoi consigli per fare l’imprenditore, chiedi a un imprenditore di successo.
Sacrosante parole. Sei un franchisor? Ci hai mai riflettuto?
Se il sogno imprenditoriale dei tuoi potenziali clienti è quello di avere un negozio, un ristorante, un bar, stando a contatto con il pubblico, vedendo quotidianamente i risultati del proprio operato, ma a casa propria non c’è nessuno che li aiuti a capire come fare, non è semplice.
Franchising come possibilità di mettersi in proprio…
Ho collaborato con una realtà che si occupa di aiutare i giovani a creare il proprio progetto di vita. Lì ti consigliano di metterti in contatto con qualcuno che diventi il tuo mentore. Facile? Difficile? Non così tanto come può sembrare, l’ho provato sulla mia pelle. Sta di fatto che la cosa migliore sarebbe poter provare, fare il vecchio lavoro del garzone di bottega. In realtà, molti ambiti hanno ancora questa dinamica, basti pensare ai parrucchieri, alle estetiste, ai muratori, ecc. In questi lavori è abbastanza comune cominciare da apprendisti (non solo contrattualmente, ma con il vero valore che il termine ha) e poi, raggiunta una certa indipendenza o una consolidata sicurezza (alle volte anche solo economica), aprire qualcosa in proprio. Se si è stati fortunati, in genere, si sono apprese non solo le tecniche del mestiere, ma anche capacità imprenditoriali come gestione dei conti, della comunicazione, delle vendite, ecc.
Lo so, non sempre è così. Idealmente lo era un tempo e dovrebbe esserlo ora.
Questo articolo lo scrivo dall’Irlanda, dove ci sono tante esperienze (experience = visite) nelle fabbriche delle birre e del whiskey. In ognuna di esse ti viene mostrata l’arte del bottaio: 7 o più anni di prove e riprove per smarcarsi dal maestro e poter lavorare in proprio (alle volte sposandone la figlia). Si chiama anche passaggio generazionale, e un tempo non veniva fatto solo coi propri figli.
OK, chiudiamo la parentesi “apprendistato”.
Cosa succede se qualcuno le caratteristiche per fare l’imprenditore non ce le ha? O meglio, se non si sente pronto? Personalmente credo fermamente che non si nasca qualcosa o qualcuno, ma che si sia in un divenire di mutazioni e cambiamenti che ci portano a costruire cosa siamo, in base a quello che desideriamo. Chiudiamo anche questa parentesi, altrimenti divento troppo filosofica.
Ho una mia teoria, dunque, non comprovata, spesso, ahimè, dai fatti, che se si ha quella spinta interiore a fare qualcosa di diverso e mettersi in proprio e non se ne ha il coraggio, ancora, il franchising sia un passaggio intermedio di aiuto. Uso il condizionale, d’obbligo, perché dopo aver studiato il sistema dei network franchising americani, qualche dubbio sull’impostazione di quelli italiani mi è venuto.
Ho avuto la fortuna di lavorare per un po’ di anni per un franchising che, per fortuna – dicevo -, ha un approccio formativo, di squadra, verso i propri franchisee, ma guardandomi intorno, quando ho scelto di fare da consulente per le aziende di questo settore, in particolare per quelle con una rete di filiali sul territorio, devo dire che sono rimasta basita.
Il Salone del Franchising e i fuffa – franchisor
Lo shock più grande mi è arrivato dal Salone del Franchising dello scorso anno.
Mi occupo di marketing per franchising da tanto tempo e ho raggiunto la consapevolezza che i franchising siano un mondo molto particolare, in cui si incrociano due livelli di comunicazione, branding e target. A spiegarlo fuori dall’Italia si tratta di ovvietà, ma qui da noi, per nulla, e in fiera ne ho avuto la dimostrazione.
Cosa ho fatto? Beh, come per ogni fiera che si rispetti, ho girato molto, raccolto brochure, fatto domande. Inizialmente avevo un approccio più commerciale, poi ho scelto di fare qualcosa di diverso: fingermi un potenziale franchisee.
Mi sono detta: e se mi mettessi nei panni del mio potenziale affiliato?
Mettersi nei panni del proprio cliente, analizzando il suo processo di acquisto, è una cosa che dovrebbero fare tutte le aziende
e che trovi spiegata molto bene nel libro che suggerisco a tutti gli imprenditori con cui mi confronto, scritto da due dei miei “mentori” (non me ne vogliano se li chiamo così), Manuel Faè e Alessandro sportelli (Il succo del Web Marketing).
Mettersi nei panni del proprio affiliato
Dunque, io sono un cliente esigente, o meglio ho una mia idea del cliente ideale del franchising. Giusta o sbagliata, dovendo percorrerne una, ho scelto questa: persona che si informa, legge, studia, approfondisce tecniche di vendita e di comunicazione e che ha questa spinta primordiale nella pancia verso la voglia di avere qualcosa di suo. Mi sono così approcciata ai vari stand per chiedere informazioni. Quando dicevo che avevo intenzione di aprire, tutti molto molto disponibili, ovviamente. Poi arrivava il momento di chiedere per la zona. Qui già cominciavano le prime falle del sistema: pochi mi sapevano dire se avrei avuto esclusiva o meno, alcuni me la garantivano a parole ma non mi assicuravano una formula scritta, altri mi dicevano che era così da contratto ma con clausola di modifica nel caso in cui il franchising si fosse espanso.
Quale bacino serve al tuo franchisee per aprire?
Prima nota quindi: quale bacino serve al tuo franchisee per aprire? Quale target dovrebbe raggiungere? In che zona si trova il target e come puoi fare per aiutarlo a capire se sia giusta o meno la zona che ti propone?
Io credo che questa sia una cosa basilare, no? Una delle idee che avevo, fin dall’inizio, sui franchising, è che dovrebbero aiutarti a fare una cosa ottimale per il business che vuoi aprire, che è anche sinonimo di protezione del proprio brand.
Avete mai visto cosa fanno le grandi catene di supermercati, per esempio? Guardate un po’ la pagina di Lidl, o spulciate i giornali, talvolta.
Se Lidl ha individuato un bacino ottimale per l’apertura di uno dei suoi store si attiva per cercare capannoni o aree edificabili per realizzarlo. Viceversa, altri Super o colossi del settore, valutano l’area e decidono se poi aprire. Guarda caso, in quelle aree poi ci nascono degli interessanti poli commerciali, buoni o cattivi per l’economia locale, che siano.
Insomma, dietro al reparto sviluppo di big brand come Lidl, Esselunga, McDonald e altri, ci sono servizi di ricerca delle aree, di studio del territorio, ecc.
Come si fa a capire se quella zona è ok o meno per dare l’ok all’apertura al proprio potenziale franchisee?
Beh, ci sono delle società di consulenza che fanno questi studi. Costano. Certo. Però, di fronte alle risposte vaghe e disomogenee degli imprenditori o commerciali incontrati al Salone del Franchising, che dire? Io credo che il gioco valga la candela.
Ad ogni modo, ogni tanto mi chiedo come si facesse un tempo, quando internet non aiutava. Ebbene, interpellando qualche commerciale con un paio di annetti di esperienza sulle spalle, ho scoperto che un tempo i costi di apertura di un franchising o di un supermercato erano ancora più elevati, se paragonati a quelli odierni.
Di fatto la persona che si occupava dello sviluppo andava fisicamente nella zona in cui si doveva aprire, la studiava, andava nelle biblioteche e negli archivi (questi sconosciuti) a documentarsi sul tessuto sociale ed economico di quel territorio, studiava la sezione economica dei giornali locali, con un occhio a qualche articolo interessante, se presente, a livello nazionale.
E poi chiedeva: si facevano dei sondaggi, per capire meglio quale fosse l’impatto di una nuova attività su quell’area, come fossero gli introiti di realtà simili nella zona, ecc.
Qualsiasi informazione era utile per stendere una relazione ineccepibile per la sede, con un verdetto finale: apriamo o no?
Oggi ci sono i software, le società di consulenza, alcune per altro, molto competenti. Ci sono anche gli archivi online, libri, giornali, notizie e, spesso, i quotidiani locali hanno un sito con molte news. Alla luce di questo si può dunque capire fin da subito se ci sia un tessuto interessante per muovere un’attività verso quel paese o quella zona? Io direi di sì.
I due target di un franchising
Alla base, però, c’è da tener conto del target. L’affiliato? No!
Il cliente dell’affiliato. Almeno principalmente.
I franchising, ma qualsiasi realtà con più sedi, hanno due anime: una rivolta a chi li aiuta a svilupparsi, gli affiliati, o soci, o franchisee; l’altra rivolta a chi aiuterà loro a campare, ovvero il cliente finale.
Senza cliente finale non sussisteranno i negozi, senza negozi che si sostengono anche il franchising morirà.
È così difficile da comprendere?
Franchisee e suo cliente: queste due anime possono essere spesso molto differenti e distanti.
Se, ad esempio, ho una catena di negozi per bimbi, non è detto che l’imprenditore che apre con me debba essere una mamma. Il mio cliente finale, invece, per lo più lo sarà. Certo, il canale mamme/bimbi è più facile, ma anche molto competitivo e saturo, direi.
Come si fa a capire il target di un negozio in franchising?
Si analizza, tutto.
In azienda spesso si detengono dati che nemmeno si immaginava di avere, o – se non ci sono – semplicemente si fa ricerca, una sana ricerca.
Se un brand che apre in franchising non si muove in questo senso, eticamente, ha qualche problema. Una delle ricerche online che ho incrociato spesso riguarda “causa contro franchising”. Non servono spiegazioni ulteriori – vero? – per capire che nel nostro paese ci sono più attività che aprono solo con l’intento mordi e fuggi (o piglia i soldi e scappa) che franchisor intenzionati a crescere, mantenersi, far davvero in modo che i propri franchisee aumentino i loro fatturati, raggiungano il break even e diano buon lustro al marchio che portano. Lo ha dimostrato la mia visita al salone.
La promozione di un affiliato sul territorio
In una fase successiva a quella di richiesta di apertura ho cercato di capire come si svolgesse la promozione sul territorio della nuova attività aperta. Purtroppo, ho ricevuto molte idee e poche strategie: chi mi diceva che fanno advertising, chi affermava che avrebbero dato in mano a un’agenzia, chi, con supponenza, mi rispondeva solo con “certo, il nostro reparto marketing fa promozione!”. Quando ho cercato di approfondire sul fatidico reparto marketing, sul tipo di promozione, o sulla strategia, nulla, il vuoto più assoluto. E questo capitava sia per le startup che per i franchising con qualche anno sulle spalle.
Certo, diversa sarà la situazione in cui i franchisor mettono degli investimenti nei negozi. Io in questo momento parlo di franchising con richiesta di investimento totale da parte dal potenziale imprenditore. Un tempo si parlava di win win… in questo tipo di affiliazione ne ho vista poca, di questa teoria, applicata.
Il fatto è che in Italia, ahimè, quando nascono delle imprese, si pensa sempre che la parte commerciale, di vendita, sia quella preponderante e che il responsabile commerciale, o addirittura il titolare, possano accollarsi la parte di marketing. In realtà, le due dovrebbero convivere e dovrebbero lavorare insieme per costruire un percorso che sia utile al commerciale per il suo lavoro (che dovrebbe essere sempre più “inbound” che a freddo, ma ne parleremo in una prossima intervista) e al capo per affermare il brand.
Che tu stia creando un franchising da zero o che ne abbia uno avviato, se non hai un reparto marketing che ti supporti a lavorare sui due canali di acquisizione dei tuoi clienti, qualcosa non sta funzionando,
a meno che il tuo intento non sia fare soldi subito, sulle spalle dei franchisee, di persone che hanno creduto alle tue parole e alle tue promesse pensando di potersi creare un’impresa con te. Io non lo so, ma a me verrebbe un pochino di mal di pancia a lavorare così.
La mission di un franchisor
Se hai ideato un brand e hai creduto che la diffusione in franchising fosse la strada da perseguire, in teoria dovresti volergli bene come a una figlia, che fai sposare con il miglior uomo possibile.
Io penso che questa sia una delle mission che un franchisor potrebbe far propria: capire che chi apre, forse, è una persona che ancora non ha il coraggio di spiccare il volo da sola e che, lavorandoci bene, possiamo darle le ali. Volerà via o tornerà al nido? Non importa, l’importante è che il brand ne risenta positivamente, che il lavoro svolto sia buono e possa attrarre altri franchisee.
Nel mio lavoro aiuto le imprese con più sedi a capire il loro target e a definire la giusta strategia per diffondersi, su entrambi i canali. Non è un lavoro facile, non è veloce, non è immediato. Se stai aprendo un franchising non si può creare entro domani. Se, però, ti interessa approfondire, puoi lasciarmi la tua email, così da ricevere i prossimi articoli che pubblicherò su questi argomenti: marketing e comunicazione per franchising e imprese con più sedi.
Grazie di aver letto fino a qui e se ti fa piacere, condividi l’articolo con chi pensi possa trovarlo utile.
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Facebook City Guide: in vacanza, con le guide di Facebook.
Vai in vacanza? Conosci Facebook City Guides o lo hai mai usato? Cerchiamo di capire come usare lo strumento e come renderlo un’opportunità per il tuo business locale.
Nei tuoi viaggi cerchi informazioni su dove mangiare o quali esperienze vivere? Di solito ti avvali di Tripadvisor, delle care vecchie guide cartacee o delle ricerche su Google? Se vuoi fare un’esperienza diversa in vacanza, potresti trovare interessanti le guide di Facebook, che propongono un’esperienza diversa da fare in vacanza, ma non solo, anche alla scoperta della tua città. Le Facebook City Guides sono attive solo per alcuni luoghi nel mondo e se hai un business locale come un ristorante, o un bar, oppure gestisci un luogo di interesse, beh, credo che ti dovrebbe interessare capire come scalare la “serp” di questo nuovo strumento di ricerca di Facebook, evoluzione del caro e vecchio Facebook Places ancora attivo da desktop e precursore di Facebook Local, la app di Facebook per le attività locali e gli eventi, da poco arrivata anche in Italia.
Capita che testi spesso alcune nuove funzionalità di Facebook e che spesso, alcune, rimangano un mistero o vengano attivate solo alcune volte, a random, su profili che non sono miei. Facebook è una piattaforma in continua trasformazione. Come dar torto al buon Mark, d’altronde? Chi si ferma è perduto…
Due anni fa a Social Media Strategies a Bologna e quest’anno (più di 12 mesi dopo!) ho tenuto uno speech che toccava, fra gli argomenti, anche la (!) piattaforma Facebook Places. Misconosciuta ai più, si trattava di una vera e propria guida di viaggio. Accedendo dalla maschera di ricerca, infatti, era possibile vedere il luogo, i suggerimenti su quello che vi si poteva fare, gli eventi e tutta una serie di cose che in quel luogo potevano essere “divertenti” da fare. Era? In realtà è. Facebook Places esiste ancora e oggi è stato tradotto nelle ricerche di Facebook, che sono sempre più strutturate per argomenti. L‘evoluzione, di stampo più turistico, sviluppata in particolare da mobile (anche se nella vecchia struttura le funzionalità sono visionabili anche da desktop) si è tradotta in quella che oggi si chiama Facebook City Guides.
In vacanza con le guide di Facebook
Quante volte siamo andati in vacanza e abbiamo tentato di fare quello che poteva distinguere la nostra vacanza in quel luogo? Quante volte ci siamo chiesti quali fossero i ristoranti o i locali meno turistici e come raggiungerli? Eppure, seppur le più famose guide turistiche mondiali, come la Guide de Routard o la Lonely Planet ci raccontavano dei migliori ristoranti e delle migliori attrazioni turistiche, di fondo noi facevamo un atto di fiducia, chiedendoci e sperando che quella fosse la verità non solo per chi l’aveva scritta ma anche per noi.
Certo, come dissi al Web Marketing Festival (edizione 2016), per scegliere cosa fare in un determinato luogo non ci siamo mai affidati alle pagine gialle, ma spesso quelle sono state il modo di raggiungere la domanda consapevole specifica: chi cercava veramente la nostra attività. Ma come ne era venuto/a a conoscenza? Come si era risvegliata la consapevolezza di quel ristorante da cercare sulle pagine gialle? Ho intervistato un po’ di gente intorno a me, di età diversa, e tutti sono concordi: in un modo o nell’altro, erano (sono!) le conoscenze o gli amici che ci instradavano verso un’esperienza.
Tu uscivi una sera, facevi conversazione e toh! Un amico ti diceva di aver scoperto quel posto interessante, dove si mangia bene e dove si paga il giusto. Cibo + denaro + posto… wow! Se queste erano le mie leve decisionali per scegliere un locale, ovvio che mi appuntavo nella mente quell’attività, per ripescarla poi, al bisogno (i miei amici risvegliavano la mia domanda latente, insomma).
Oppure succedeva che si voleva mangiar fuori e, a meno che non foste tecnicamente dotati di uno schedario per biglietti da visita come quello che aveva mia mamma, davvero inguardabile, si chiamava quell’amico o conoscente più mondano degli altri, o l’amico/parente camionista (i camionisti nell’immaginario comune mangiano sempre bene), oppure semplicemente si chiedeva a qualcuno del posto. Ho parlato recentemente con un amico che gira in moto e mi dice che ovunque sia andato, anche ultimamente, ha sempre trovato molto utili le informazioni dei “locals”, sia per dormire che per mangiare. Ancora, se ci trovavamo a dormire in un B&B o in un hotel, capitava che chiedessimo consigli sui migliori luoghi da visitare o dove mangiare, affidandoci al proprietario o al concierge di turno.
Oggi esistono Tripadvisor, Booking, i blog e, ancora affidabili – pare – le guide turistiche cartacee, insieme a una serie di app e di altri strumenti. Utili? Certo! Affidabili? Mah! Cosa manca loro? La conoscenza della persona che ha scritto il consiglio o ha valutato la struttura/ristorante/esperienza.
Come facciamo a fidarci di Tripadvisor, per esempio, se non conosciamo la persona che ha scritto quella recensione? Spesso è difficile, andiamo a naso. Un’amica irlandese mi ha detto che lei va usa una tecnica molto personale: guarda per prime le recensioni negative, poi va a vedere il profilo del recensore. Se si rende conto che è un “lamentone” di natura a cui non va mai bene niente, non gli dà molta credibilità, se invece da quello che legge è una persona affidabile, gli crede, o comunque lo ritiene interessante, autorevole, insomma.
Cosa significa autorevolezza nelle recensioni?
Nel marketing parliamo spesso di mettere nomi, professioni, età, luoghi di provenienza nelle nostre recensioni, per renderle il più possibile credibili. Ognuno di noi, in realtà, nella sua rete di amicizie sa di avere una persona autorevole in diversi ambiti. Lo chiameremo influencer, ma in fondo siamo tutti influencer. Nel mio caso, per esempio, chiedetemi informazioni sull’Irlanda, dove sono ora, e, beh, le avrete.
Nella mia cerchia di amici so bene, però, che se voglio andare a Firenze e mangiare bene dovrei chiedere a Gaia, o che se voglio conoscere buoni posti dove bere e mangiare bene dovrei interpellare Manuel o che, ancora, se desidero sapere cosa visitare a Venezia, dovrei chiamare un vecchio amico che ci ha vissuto per una vita. Devo continuare con gli esempi? Ognuno di noi credo ne abbia una lista. Facciamo l’esempio delle vacanze, visto che siamo nel loro momento clou. Un amico posta foto della Croazia? Chiederò a lui informazioni per la mia prossima vacanza, se esplorando le foto che posta, posso riconoscere un’esperienza che mi piacerebbe fare. Qualcuno scrive di una vacanza a New York? Chiederò a lei/lui.
Quanti di noi in questo periodo vengono influenzati dalle esperienze degli altri guardando i post che condividono durante le ferie?
Ebbene Facebook ha deciso di implementare le Guide delle città, uno strumento per visualizzare quello che succede o è successo nella città che stiamo visitando. Annunciate a marzo e implementate man mano in diversi Paesi, sono oggi disponibili anche in Italia.
Quali città comprendono le guide di Facebook?
Innanzitutto dobbiamo sottolineare che, a differenza di Places che ci consentiva di esplorare qualsiasi città/paese, Facebook Guide è attivo solo per alcuni città, in Italia, ad esempio, solo per 5: Firenze, Venezia, Roma, Napoli e Milano.
In cosa consiste Facebook City Guides?
Facebook City Guides è uno strumento che ci consente di interagire con una città, scoprendone le bellezze, a due livelli:
- Possiamo vedere quali dei nostri amici sono stati in quel luogo e dove si sono registrati
- Possiamo vedere cosa fanno le persone del posto
In pratica, possiamo interagire con le attività svolte e i luoghi visitati dai nostri amici ma scoprire, in particolar modo, quali sono le usanze delle persone che abitano veramente quella città. Se siamo alla ricerca di esperienze che vanno oltre il solito approccio turistico, beh, direi che il valore aggiunto di questa novità è chiaramente comprensibile.
Cosa mostrano le Facebook City Guides?
Vediamolo nel dettaglio, partendo dalla copertina, che riporta una foto della città con orario, temperatura, condizioni meteo. Subito sotto, due scelte. Partendo dalla prima tab (ce ne sono due), che si chiama “suggerimenti”, abbiamo:
- Innanzitutto ci sono le immagini dei nostri amici, che possiamo cliccare per vedere i loro check in
- Segue l’area “esplora [città]“, dove sono elencati:
- ristoranti
- vita notturna
- caffè
- attrazioni
- shopping
- arte e cultura
- bar
- parchi e giardini
- Vengono quindi i “luoghi frequentati dalla gente del posto” che comprendono:
- ristoranti
- vita notturna
- attrazioni
- bar/caffè
- acquisti
- arte e cultura
- parchi e giardini
- bar
- Trovano quindi spazio gli eventi in programma
- Seguono le attrazioni popolari
- Concludono la lista le “altre città” che, per il momento, non danno alcun privilegio alla geolocalizzazione ma servono solo a scoprire gli altri luoghi classificati nella piattaforma.
La seconda tab, che contiene gli elementi salvati, consente di visionare tutto quello che abbiamo “tappato” per tenerne memoria. Se la apriamo vedremo detti elementi su una mappa, per poterli esplorare in base a dove ci troviamo. Non è ancora attiva, ma auspico lo sia a breve, una suddivisione per categorie degli elementi salvati.
Come vengono presentati i diversi record da Facebook?
Nei miei test ho cercato di comprendere quale priorità desse Facebook ai risultati che emergono nelle guide delle città. Innanzitutto, ogni utente ha una “serp” diversa, non solo nell’area degli amici, ma anche in quella delle persone che vivono in quel luogo. Le attività degli amici vengono mostrate in base a quelli con cui interagiamo, generalmente, di più. Facebook, in sostanza, cerca di mostrarci le evidenze che potrebbero essere più influenti per noi. Perché? Per due motivi, in realtà:
- Se interagiamo maggiormente con queste persone potremo essere portati ad ascoltare la loro opinione più degli altri
- Se interagiamo maggiormente con loro potremo volergli chiedere maggiori informazioni, al bisogno, anche – probabilmente – offline
Come dicevo, vengono mostrati i luoghi in cui i nostri amici hanno fatto il check in. Ciò significa che non emergono solo qui luoghi in cui ci siamo registrati volontariamente, ma anche quelli in cui lo abbiamo fatto tramite l’accesso a una rete wifi che prevedeva alcune funzionalità collegate con Facebook.
Passiamo ora all’area dei luoghi da esplorare. In questo caso la faccenda si fa più complessa e le evidenze, oltre ad essere differenti da utente a utente, sono molto diverse anche tra le due aree che possiamo navigare: “esplora” e “luoghi visitati dalla gente del posto”.
Nell’area di esplorazione vengono mostrati risultati, dai test che ho condotto, in base a un mix di parametri:
- numero di recensioni
- tempo della recensione (più o meno recenti)
- check in
- amici che si sono registrati in quel luogo
- valore complessivo delle recensioni
- luogo verificato
- categoria/e della pagina
Nell’area dei “luoghi visitati dalla gente del posto” a quanto elencato qui sopra si aggiungono le recensioni e i check in della gente del posto (chi risulta, in base ai suoi movimenti o alle dichiarazioni esplicite, vivere in quella città.
La cosa curiosa è che, apparentemente, Facebook sta dando più valore ai check in che alle recensioni. Mi spiego: capita che tra i record vi siano anche, e in posizioni alte, evidenze senza le recensioni attive. Curioso no? Mi sono chiesta diverse volte come mai e sono giunta alla conclusione che, per le recensioni, Facebook sia talvolta ancora acerbo, mentre è più semplice ed automatico per una persona registrarsi in un determinato luogo, specie se usa Instagram. Cambiano i risultati in base a Instagram? Su questo non ci sono certezze, allo stato attuale non siamo ancora in grado di analizzare questo dato. Sta di fatto che Facebook, apparentemente, ha più dati di registrazioni che di recensioni, ma penso che la cosa sia destinata a cambiare.
E per gli eventi come funziona?
Per primi vengono quelli su cui abbiamo espresso la nostra partecipazione. Seguono quelli salvati, e poi quelli più popolari, ovvero con il maggior numero di conferme e salvataggi. Ad esempio, nel momento in cui scrivo, per Milano, mi compare tra i primi risultati l’addio al nubilato di Chiara Ferragni, che conta 4,8 mila partecipanti, 21.000 persone interessate e più di 550 condivisioni. Interessante: chissà dove la mette tutta questa gente… 😀
Anche le attrazioni, infine, sul fondo della guida, seguono l’iter dei luoghi.
Come si attivano i luoghi di Facebook?
Se non li hai ancora scoperti e hai la fortuna di visitare una delle città in cui sono già attivi, magari durante queste vacanze, puoi attivarli registrandoti nel luogo, o meglio, nella città. Quando sono arrivata a Dublino è stato Facebook stesso a chiedermi di registrarmi per potermi avvalere della guida. Altrimenti, scrivendo un post con registrazione nella città, se attiva, si può cliccare sull’elemento in fondo al post, una volta pubblicato.
Se hai già dei luoghi salvati e pensi possano appartenere al progetto, ti basta andare, da mobile, nelle impostazioni di Facebook. Per aprirle ti serve solo cliccare sulla città che hai salvato, così da scoprire se è nel progetto o meno.
Ora che hai attivato le Guide, come puoi usarle?
Uso le guide delle città di Facebook da aprile, e le ho usate per la prima volta a Firenze. E’ curioso come vengano proposti i risultati, in chiave relazionale. Su quello che proponeva a me, Facebook non ha mai sbagliato un colpo, seguendo le mie relazioni. I suggerimenti, proprio perché arrivavano da amici/conoscenti autorevoli, sono stati funzionali all’obiettivo: mangiare bene o visitare i migliori luoghi della città.
Prima di una vacanza, o di qualche giorno fuori, cerco di usare le guide per appuntarmi i luoghi in cui vorrei andare. Averli tutti sulla mappa aiuta. Inoltre, curioso su quello che hanno fatto i miei amici e chiedo loro consigli e suggerimenti sulle migliori aree da vivere e da visitare.
Durante la vacanza consulto di rado la ricerca di Facebook perché la trovo ancora limitata sotto diversi aspetti, mentre mi avvalgo dei luoghi salvati, che scopro in base a dove sto andando, richiamando dalla mappa quelli più vicini a me.
Tripadvisor e Google già lo fanno: luoghi intorno a te. Facebook lo fa in modo limitato: attualmente non è possibile fare ricerche sui posti intorno a me, ma lo sarà, si auspica.
Sono un imprenditore che ha un business locale in una delle città citate, o in altre, alla fine il principio è similare. Cosa dovrei fare per far in modo che le persone mi scelgano?
A dire il vero, leggendo sopra, è abbastanza chiaro. Faccio comunque una to do list di controllo:
- verifica la pagina
- stimola i check in e le foto con check in, scegli tu come, anche inserendo dei piccoli accorgimenti
- comincia subito a raccogliere le recensioni, anche usando buone tecniche di community management
- “sfrutta” dapprima il tuo network per stimolare le attività sulla tua pagina
- registra i tuoi eventi, in modo che le persone che ti seguono o ti potrebbero seguire, possano venirne a conoscenza. E fornisci tutte le informazioni per partecipare. Non ti lamentare se nessuno viene se non hai messo, ad esempio, informazioni sul costo di partecipazione.
Certo, sono cose che nel mondo dei social media si dicono spesso, queste, ma se Facebook fa parte della tua strategia, hai inserito queste dinamiche? Ad esempio potresti mandare un’email ai tuoi clienti più fedeli, o un messaggio broadcast, per invitare a condividere foto o video della visita tua attività o stimolare la raccolta di recensioni. Oppure potresti implementare la registrazione a Facebook per il tuo wifi, con richiesta di registrazione. Ho visto che all’estero lo fanno in tanti.
Se hai una piccola attività o grande, emergere in questa ricerca relazionale non è facile, i contenuti non sono uguali per cui non è agevole comparire sulle schede altrui. Comincia a pensare che la tua rete si può espandere e che se agisci bene sulla tua community hai qualche possibilità in più di aumentare la tua visibilità in questo elenco. Il buon Joe Girard (Come vendere tutto a tutti, Gribaudi, 2012) diceva che ogni persona ne conosce almeno 250, con cui può decidere di parlare bene di te o male. Ecco, se lo traduci sul web, beh, questo dato può aumentare esponenzialmente. Se la tua attività funziona bene e i tuoi clienti sono soddisfatti, siano essi turisti o locali, puoi provarci. Se sono “locals” è più facile, perché sono abituè della tua attività: comincia da loro.
Un buon consulente di web marketing ti potrà aiutare a gestire il tuo database e la tua community ma anche a sviluppare delle attività intelligenti per poter aumentare le tue recensioni e registrazioni ed ottenere, di conseguenza, ottime referenze. Ricorda sempre che questo fa parte di un’azione di marketing e che stai lavorando, finalmente, su quello che è più importante per il tuo business: i tuoi clienti.
Facebook City Guides, sviluppi futuri, pensieri e piccoli desideri
Chi mi conosce sa che spesso fantastico sulle possibilità che potrebbero avere in futuro determinati strumenti. Anche in questo caso ho fatto qualche volo pindarico, tra il serio e il faceto, per provare a immaginarmi un mondo di Facebook City Guide ancora migliore. Come tutte le cose, Facebook esce con progetti interessanti che hanno ampi margini di miglioramento.
- Ricerca “around you”. Se sono in una città e voglio una risposta immediata rispetto al mio bisogno di mangiare o di vivere un’esperienza, dovrei poter capire meglio quali sono le cose più interessanti ma anche più vicine a me
- Salvataggio dei luoghi per tipologia di ricerca. In questo modo, se sono in un luogo e ho salvato prima quello che volevo esplorare, posso richiamarlo in base al bisogno del momento.
- Aggiunta di tag o note ai salvataggi, per renderli più personalizzati, magari con la possibilità di renderli pubblici, al bisogno
- Inserimento degli hotel. Ebbene sì, sono i grandi assenti di questa piattaforma, ve ne siete resi conto? Compaiono solo nell’area delle registrazioni degli amici, ma non nell’area di esplorazione. Ha senso che manchino tra i record di chi vive la città, che giustamente non ha bisogno di dormirci, ma se voglio programmare un viaggio è una lacuna.
- Possibilità di fare ricerche più specifiche. Ad esempio se cerco il brunch a Dublino dovrei poter fare una ricerca solo in quel luogo. Oggi è possibile nella ricerca di Facebook ma non qui.
- Integrazione con il “trova wifi” che Facebook ha già sviluppato e implementato (se non ce l’hai attiva naviga le impostazioni da mobile)
- Miglioramento della visibilità delle pagine verificate, che oggi sono marginali nei risultati (forse perché molti business non hanno ancora idea di cosa significhi verificare la pagina)
- Inserimento di locations, in modo che gli utenti già fedeli a un brand possano vedere anche i luoghi di quel franchising in quella sede
- Sviluppo della piattaforma per tutti i luoghi su Facebook. Attualmente, guardando all’Italia, sono poche davvero le città. Ho provato a salvare altri luoghi ma emergono con i vecchi risultati, ovvero la precedente versione di places. Ci vuole poco in fondo a fare il salto successivo, che forse è più grafico che altro, così come sarebbe auspicabile poter scoprire attività nei paesi veramente vicini a quel luogo.
- Integrazione con le foto su Instagram
Facebook Guides, quale futuro?
Innazitutto non credo che Facebook possa ancora scalfire il valore di Google Trips, anche se a Google, specie ultimamente, oltre che a Plus sono venute a mancare le recensioni. Ad ogni modo, considerato che Google detiene il potere sulle mappe, ci potranno essere sicuramente integrazioni future. Mi chiedo invece che valore abbia questo se pensiamo a Tripadvisor e alle sue recensioni. Credo che solo AirBnB, oggi, stia facendo un’operazione simile, anche se ancora acerba.
Le nostre relazioni e le persone che conosciamo ci influenzano più degli sconosciuti, per quanto possano essere blogger famosi, ad esempio, con un largo seguito.
In che scala potremo mettere gli amici che abbiamo e che ci potrebbero indirizzare verso la giusta vacanza, o verso il miglior ristorante per una cena romantica? E se, non potendoli contattare, decidessimo di fare due ricerche, una su Tripadvisor, per esempio, e l’altra su Facebook, laddove su TA trovassimo solo recensioni di sconosciuti e su Facebook tre recensioni e due registrazioni di amici? Cosa faremo? Su quale piattaforma ci concentreremo di più per scegliere la nostra meta?
Ti lascio con queste domande, ti ringrazio di esser giunto fino a qui e spero che proverai a viaggiare con Facebook City Guide, condividendo la tua esperienza con questo strumento nei commenti.
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Local Marketing su Facebook: perché i dati sono importanti?
Facebook ama il local? In genere mi piace dirlo ai corsi di formazione e davanti alle imprese locali. E non mi piace farlo perché vorrei vendere un servizio tanto per…, mi piace sottolinearlo perché è vero: Facebook ama le attività locali, o meglio cerca di incentivare la loro presenza sulla piattaforma.
Prima ancora di capire come mai le ami e le voglia spingere, andando oltre al fatto che più pagine ci sono più Facebook guadagna, partiamo da un presupposto, che poi è sempre il solito:
anche se hai una piccola attività locale, Facebook non è la risposta ai problemi del tuo business.
Certo, potrai dire che oggi non essere su Facebook è una cosa quasi assurda, ma ti posso assicurare che ci sono aziende che funzionano benissimo senza esserci e che, comunque, l’apertura di una pagina non significa esserci: per farlo devi curare tutta una serie di aspetti che in genere vengono trascurati. Ad ogni modo, partiamo dal presupposto che tu abbia fatto la tua bella analisi del cliente, che tu abbia chiaro il suo processo di acquisto e in quale fase si inserisce anche questo social media. Diamolo per scontato per capire come, perché e in che modo esserci se hai un local business.
Innanzitutto ti do tre consigli:
1. apri la pagina correttamente o, se l’hai già aperta, setta nella miglior maniera le categorie. È importante specie per l’attivazione della verifica della pagina
2. Verifica la pagina.
3. Imposta tutte, ma dico tutte, le informazioni richieste, controllando in particolare quelle di contatto.
Trovi le indicazioni per farlo nel mio capitolo sul nuovo libro di Cristiano Carriero e Francesco Antonacci, Local Marketing, edito da Hoepli (puoi acquistarlo qui: http://amzn.to/2rQipFG).
A monte, in realtà, se entri su Facebook per la prima volta, ricorda di cercare la tua attività per nome, specie se esiste già da qualche tempo. Questo perché? Ti piacerebbe se qualcuno parlasse di te a tua insaputa? No, vero?
Sai che la tua attività potrebbe già essere presente su Facebook?
Ebbene sì. Nel tempo ci sono almeno due casi per cui il tuo esercizio commerciale potrebbe essere finito su Facebook senza che tu lo controlli:
1. A causa degli utenti. Capitava, un tempo, oggi sempre meno, che gli utenti aprissero account a nome delle aziende o che, se si trovavano in un luogo in cui volevano registrarsi, non trovandolo in elenco, lo inserissero. Spesso non capitava per malafede, ma solo per incapacità di vedere Facebook come uno strumento di business. Il fatto è che, così, la tua attività non è in mano tua, ma della community (non ti allarmare, anche una realtà grande come Gardaland ha una pagina aperta dagli utenti, la sua non è stata verificata, e su quella non ufficiale ci sono ben più di 900 recensioni)
2. A causa di un “servizio” come quelli degli elenchi telefonici dei professionisti (sì, proprio quello). Succedeva che i consulenti aprissero la tua attività solo perché avevi registrato un utente con questi fornitori.
In ogni caso, c’è una cosa che devi sapere e tenere bene a mente, e che spesso, con grande dispiacere, non è chiara agli imprenditori. Cerco di spiegarlo ogni volta che introduco Facebook Business Manager alle agenzie o ai consulenti, ma anche alle aziende che ne hanno bisogno: la pagina Facebook è roba tua. Cosa intendo? La pagina Facebook con il tuo nome non deve essere di altri che dell’azienda che ne detiene la proprietà e quindi dell’imprenditore che l’ha fondata.
Puoi fidarti di un consulente o di un dipendente che opera su di essa, ma se lasci che gli unici amministratori siano le realtà esterne alla tua azienda, stai facendo un grande sbaglio.
Non vuoi essere presente su Facebook? Fattene una ragione. Anche solo per consapevolezza nell’utilizzo dello strumento: il profilo ti consente di capire meglio la lingua che ti parla chi gestisce la tua presenza sui social e di comprendere meglio cosa stanno facendo – di fatto – coi tuoi soldi.
Se poi non hai ancora monitorato la tua presenza online e la pagina è aperta come luogo e non l’hai ancora reclamata, corri ai ripari: ci vuole davvero poco. Oggi più che mai, con l’arrivo di Facebook Local, la app che raccoglie eventi e attività per il tempo libero come ristoranti e locali.
Anche perché, volente o nolente, Facebook sta facendo una lotta concreta alle informazioni false. È da qualche setimana che appena accediamo al feed Facebook ci propone un post in cui ci spiega come riconoscere le informazioni false. Bene.
E le aziende false o le informazioni delle aziende incomplete?
Ho scoperto e aderito quest’estate a un programma di Gamification di Facebook che si chiama Facebook Editor. Pochi ancora lo conoscono. In cosa consiste? Consente di aggiornare le informazioni su una piattaforma specifica, proponendoci delle domande che riguardano le attività presenti.
L’utilizzo della piattaforma è differente da mobile e da desktop.
Se ci si collega dal PC è possibile vedere un’area con diverse informazioni in cui ci sono i punteggi raggiunti grazie all’aggiornamento dato, l’accuratezza dei propri aggiornamenti, i traguardi futuri raggiungibili.
Da mobile, invece, Facebook ci propone le domande, in genere, quando ci troviamo nel luogo o quando ci geolocalizziamo da qualche parte. Capita, così, che se sei in un bar, Facebook ti dica “Sembra che tu ti trovi presso il Bar Centrale” e che se gli dici sì, ti ponga delle domande: “È il numero corretto di questo luogo?”, “Si tratta dello stesso luogo?”, ecc. Le stesse domande vengono fatte quando ci registriamo. E simili sono quelle che ci pone se decidiamo spontaneamente di giocare, solo che amplia il raggio di azione ai luoghi in cui siamo stati o, all’occorrenza, espandendo i livelli e i traguardi raggiunti, arriva ad allargare la selezione all’Italia e al mondo.
Qualche settimana fa Roberta Migliori di Wingage, una collega e amica di Verona che si occupa di strategie di Gamification per la comunicazione interna delle aziende, ha postato su Facebook la scoperta di Facebook Editor, decidendo di scriverne un articolo in chiave, ovviamente, Gamification. Di questo si tratta infatti: così come abbiamo già visto su piattaforme o progetti come Tripadvisor, Google Local o Foursquare,
le persone interagiscono in modo più spontaneo se trovano appagamento da quello che fanno.
La Gamification serve proprio a questo: far in modo che gli utenti partecipino attivamente alle attività richieste e si sentano premiati per averlo fatto, innescando anche una sorta di sfida con altri utenti con cui si mettono in competizione. Lo abbiamo vissuto tutti, dallo sport ai videogame, fino ai primi giochi interattivi che consentivano di sfidare anche chi non conoscevamo. Niente di nuovo nella forma, dunque: si gioca, si fa qualcosa, si ottengono dei premi virtuali. Come dicevo lo fanno già Tripadvisor, Google con le Local Guides e Foursquare.
Ma allora perché anche Facebook lo fa?
Facciamo un passo indietro e riagganciamoci al discorso sui contenuti creati dagli utenti e sulle pagine aperte per caso, geolocalizzandosi o in altri modi.
Facebook sa bene che sta diventando sempre più utile per le ricerche dei business. Sa inoltre che stiamo usando sempre di più la piattaforma per accedere a informazioni che generalmente sono più complesse da reperire online.
Inoltre, Facebook è molto più immediato nella gestione della messaggistica rispetto alla solita email (fermi tutti, non sto dicendo che le mail siano morte). L’utente che trova un business su Facebook ha aspettative diverse rispetto a quello che trova semplicemente un’email o un sito internet. Non chiedetemi come mai:
nel tempo, il buon Mark, ha cambiato anche le nostre abitudini, dobbiamo ammetterlo.
Ad ogni modo torniamo a noi: se Facebook sa che gli utenti cercano informazioni e aziende, anche locali, quale sarà il suo interesse? Ovviamente avere informazioni sempre aggiornate e puntuali. Non è poi così diverso dallo scopo di Google se ci pensiamo.
Qual è la mission di Google? Essere il primo e unico motore di ricerca nella mente della gente. E come fa a farlo? Dando informazioni utili. Quindi cosa odia? Le informazioni false o manipolate. Punto.
Qual è invece lo scopo ultimo di Facebook? Dai, su, non ci vuole tanto a capirlo, e va oltre il monetizzare grazie alle Facebook ads. Lo scopo principale di Facebook è che ci sia dentro la gente.
Se c’è la gente ci saranno poi le aziende e continuerà avere un senso farci pubblicità. Semplice no? Mi state perdendo?
Ebbene, per stare più a lungo possibile su Facebook serve che all’interno ci siano contenuti, informazioni, dati, tanti dati.
È necessario che l’utente colga in Facebook non solo uno strumento di cazzeggio ma anche qualcosa che fornisce informazioni utili. Avete visto come si muove con gli eventi? Vi è mai capitato che un amico decidesse di scoprire cosa fare un sabato sera andando a vedere gli eventi in zona su Facebook? A me sì, e giuro che non era un collega del settore. Così come mi è capitato che degli amici, nel domandarsi se un negozio fosse aperto il 1 maggio, abbiano suggerito di scoprirlo su Facebook (e nemmeno loro erano del settore).
Dunque, così come ho esposto a Erika Meneghello (trovi il mio articolo nel blog di Wingage, con il titolo: Attività locali su Facebook: il ruolo degli iscritti), che cura la comunicazione di Wingage, quando mi ha chiesto se potevo approfondire l’articolo di Roberta Migliori dando un’interpretazione pratica a Facebook Editor, Facebook aveva bisogno di informazioni, e non le riceveva.
Aveva istituito, forse alcuni lo ricordano, la richiesta di informazioni per le pagine, e ancora oggi è possibile farlo, ma serviva a poco, specie su pagine morte o aperte da altri. E così, a mio avviso, avendo bisogno di dati chiari e puntuali, visto che Maometto non andava alla Montagna, beh, ha deciso di rivolgersi agli utenti. D’altro canto Facebook è la piattaforma UGC per eccellenza (UGC = User Generated Content, ovvero con contenuti creati dagli utenti).
Sei in un luogo e ci sono tre attività con nomi simili registrate lì: ti domando quale sia quella vera. Ti trovi in un locale che non aggiorna gli orari di apertura da anni? Ti chiedo se siano corretti. Non ho informazioni precise sulle categorie di Business che rappresenta una pagina? Ti domando quali siano. Tu acquisisci credibilità, aiuti gli altri utenti, e guadagni punti, scalando la classifica.
Cosa avviene se un utente, dunque, dice che la tua azienda ha info errate?
Facebook invia una richiesta di aggiornamento, o chiude la pagina segnalata come finta e, se non rispondi entro un tot di tempo, può decidere a priori di agire, con un cambiamento o una sospensione. Mi è capitato qualche tempo fa su una pagina di prova: “siccome la pagina risulta inattiva, procederemo alla sua chiusura”. Giusto? Sbagliato? Possiamo disquisirne finché volete.
Facebook ha lo scopo di avere informazioni precise. Specie ora che sta introducendo la search.
Ecco perché se la tua azienda c’è, o se decidi di esserci, devi farlo per bene, mettendo tutte le informazioni correttamente, soprattutto quelle vitali per un utente, come i contatti e gli orari di apertura. Poi magari dovresti anche metterci dei contenuti, che non guastano, considerato che se apro una pagina in cui l’ultimo post è del 2015 potrei non aver chiaro se la tua attività sia ancora aperta o meno…
Gamification, attività locali, informazioni delle pagine, Business Locali su Facebook.
Ma quella cosa che dicevi all’inizio su Facebook che ama le attività locali come funziona? Beh, è abbastanza evidente che le attività locali sono più vicine all’idea di utente delle grosse aziende. Dietro le attività locali ci sono le persone. Entriamo nei negozi, nei ristoranti, ecc., ed entriamo a contatto con persone, non con scatole esposte in un supermercato.
Le relazioni che si possono instaurare su Facebook con i local business sono più forti di quelle che si creano con i brand, proprio perché spesso sappiamo che dietro alla pagina c’è quell’estetista con cui ci confidiamo ogni settimana o la commessa che ci consiglia sempre il capo giusto.
E Facebook è il luogo delle relazioni. Le chiede alle aziende e alle persone, e i business locali possono avere una spinta in più per ottenerle. Inoltre, i local business su Facebook generano altri percorsi esperienziali, collegati a Services e Places (i famosi luoghi di Facebook, che stanno cambiando tantissimo!), di cui magari vi parlerò in un prossimo articolo (sempre per la serie: più tempo passiamo più Facebook più Mark è felice). Per cui,
se hai un esercizio commerciale e vuoi usare Facebook, o Instagram, o qualsiasi altro social, impara a conoscerli, poi analizza il tuo cliente e cerca di capire in che modo puoi integrarli in una strategia, e se ti siano veramente utili. E controlla, come ti ho detto più volte, la tua presenza online.
Per approfondire le tematiche riguardo il Local Marketing, ti consiglio il libro di Francesco Antonacci e Cristiano Carriero, Local Marketing, Strategie per Promuovere e Vendere sul territorio, Hoepli 2017, al capitolo 8 c’è un mio approfondimento proprio su Il ruolo dei social network in un progetto di Marketing. Sempre valido rimane il primo approfondimento che ho fatto sul tema nel volume La Pubblicità su Facebook, solo i numeri che contano, di Alessandro Sportelli, sempre di Hoepli.
Dunque dunque… Il tuo Business Locale a che punto è (… non solo su Facebook!)?