I trend di marketing del 2020? Francamente me ne infischio.
31.12.2019. Ultimo giorno dell’anno. E si chiude pure il primo ventennio del 2000. Accidenti, sembra ieri che parlavamo del Millennium Bug… 20 anni! Come direbbe uno dei miei miti “Domani è un altro giorno!”. E io, prima di domani, ho messo giù qualche riga di pensiero sul marketing e sui trend del 2020, visto che lo hanno fatto tutti. Premessa: al solito, non sarà un articolo corto.
1 gennaio 2020. Cosa succede nel mondo del marketing?
Ebbene sì, domani è proprio un altro giorno: il primo gennaio 2020. Inizia un nuovo anno e, come al solito, è il momento dei cliché:
- chi fa il resoconto dell’anno trascorso
- chi fa l’analisi di opportunità e miglioramenti
- chi si ripropone mille idee e progetti per il nuovo anno
- e chi… fa il mago con la sfera di cristallo, cercando di ipotizzare trend e novità che si vedranno nell’anno a venire
Nel marketing e nella comunicazione succede ogni anno, e ogni anno è abbastanza divertente vedere persone che, invocando il mago Thelma e tutti i santi del Paradiso, cercano di spararla più grossa su cosa accadrà. Mi ricordo – e se lo ricordano anche tanti miei colleghi – quando si disse “sarà l’anno dei video!”. Cavoli! Un video al giorno per ognuno dei nostri account e avremo davvero annoiato chiunque. Eppure, da allora, e forse son passati tre o quattro anni, si parla ancora di video. Beh, poi si parla di influencer, Instagram, micro influencer, Tik Tok marketing, big data, business intelligence, fidelizzazione, voice search e chi più ne ha più ne metta.
Dunque, dunque,… quale sarà il vero trend del 2020? Cosa ci dobbiamo aspettare dall’anno che verrà? Su cosa si dovrebbero concentrare le aziende che vogliono finalmente sfondare con l’azione di marketing giusta?
La risposta che mi è sorta spontanea, sia dopo aver letto il libro che dopo aver rivisto con mia mamma – è un must del periodo di Natale – il film, mi viene dal caro vecchio Rhett Butler del colossal Via Col Vento, una delle frasi forse più note del cinema:
quali saranno i trend del web marketing e del marketing del 2020
(sì, anche del marketing per franchising!)?
Francamente, me ne infischio!
Avete capito bene: Francamente me ne infischio dei trend del 2020. Perché?
Partiamo da un assunto, anzi due o tre:
- sono mode, e come tali, passano
- nessuno ha davvero la sfera di cristallo, anche se ci sono delle persone autorevoli che osservando il mercato possono comunque fare delle previsioni non infallibili
- non esiste una formula magica per il marketing delle aziende, né per quello delle attività locali, né per il B2B, né per i franchising o le strutture multisede
Riprendo questo ultimo punto proprio per lanciare un appello a tutti gli imprenditori e, se possibile, anche a tutti i colleghi che davvero vogliono fare bene questo lavoro, ovvero aiutare le aziende a crescere e migliorarsi attraverso azioni stategiche: non esiste una formula magica, non esiste un trend da inseguire su tutti e che funzioni più di altri se non si è prima fatta una buona analisi e una strategia. Punto.
Chiunque dica che il 2020 è l’anno di Tik Tok per cui la tua azienda dovrà fare azioni di marketing su questa piattaforma, mente. Chiunque affermi che il 2020 sarà l’anno della realtà aumentata, per cui in azienda dovrai chiamare l’esperto x per fare il prodotto y, mente. Chiunque ti dica che il tuo obiettivo è il risultato zero di Google – sì, ho letto anche questo – mente. Mente chi ti dice che ti devi giocare tutto sul voice search, che devi assolutamente creare il tuo canale di social commerce, che devi puntare tutto sui chat bot. Mente. Punto.
I trend del 2020 sono bufale
Perché chi parla di trend mente?
Attenzione! Non sostengo che non ci siano delle evoluzioni del mercato, delle tecnologie e delle possibilità di sviluppo di un piano marketing. Non sto affermando che non vi sia una rivoluzione in atto sul piano delle tecnologie che usano i sistemi vocali, la realtà aumentata e tutto quello che pian piano sta trasformando la realtà fisica in realtà virtuale. Quello che sta accadendo è sotto gli occhi di tutti. Il mondo digitale corre veloce ed è difficilissimo stare al passo coi tempi. Il fatto è che quando qualcuno afferma che i trend sono la chiave per il tuo successo, o che dovresti seguirli per fare la differenza sui competitor, sta dicendo il falso.
Perché ti dovresti infischiare dei trend del 2020?
Parto da un assunto di Alessandro Sportelli, mio “maestro” e – con Manuel Faé – ideatore del progetto Connection Manager, di cui faccio parte:
il marketing è una scienza, non un’accozzaglia di strumenti.
Anzi, rimodulando sul finire del 2019 potremo dire:
il marketing è una scienza, non un’accozzaglia di trend.
Ecco quello di cui dovresti tenere conto se hai un’azienda, piccola o grande che sia, e che non dovresti mai dimenticare:
- Un singolo strumento o una singola impostazione non sono la chiave del successo, perché sarebbe come dire che mettendo il motore della Ferrari nella Peugeot della mia amica che guida da pochi mesi, può andare a correre al Gran Premio di Montecarlo. Forse ci arriva a piedi, forse!
- Se non hai chiaro come i tuoi clienti comprano da te o come vorrebbero comprare, non potrai mai sapere in che modo uno strumento o una tecnologia possono andare a inserirsi nel loro processo di acquisto per velocizzarlo o incrementare le vendite. Per saperlo devi fare un’analisi e, possibilmente, indagare cosa fanno i tuoi clienti, anche chiedendoglielo, se necessario.
- Le mode passano, la strategia resta. Ogni anno ci saranno nuovi strumenti, nuove tecnologie e nuovi trend. Vuoi davvero che la tua azienda li segua tutti e ogni 31 dicembre si metta a cavalcare l’ipotetica tigre del vincitore? E se poi quella tigre prende in groppa tutti, che fai? Continui a cambiarla? Non è sostenibile, specie se fai parte della categoria delle piccole e medie imprese italiane, che a oggi, ancora, fanno questo Paese.
- Le mode costano. Cambiare costa. Se hai un budget di marketing, ancorché tu sia stato in grado di definirlo (tante aziende ancora non lo fanno), investi saggiamente e non buttare tutte le tue risorse nei trend. Mi ricordo ancora quando – e pure nel 2020 se ne parlerà – si diceva di puntare tutto sugli Influencer. In una riunione sentii un imprenditore dire che voleva investire il 70% del suo budget su due singoli influencer, per altro con profili sporcati dai bot. Ma stiamo scherzando? Spero che non serva una spiegazione per definire che questa è una follia!
- Le azioni di marketing non vanno mai viste da sole, i risultati che porta un singolo canale non potranno mai essere attribuiti con certezza solo a quel canale, a meno che tu non abbia mai fatto alcunché e sia rimasto in una sfera di cristallo fino all’investimento su quel canale. Voglio dire: il marketing è una sfera di azioni che si intersecano e incastrano, che lavorano insieme per portare a un obiettivo, solo e unico: vendere di più. Se punti a un solo canale o a una sola tecnologia, pensando che lì ci sia tutto, stai facendo tattica, non strategia, potresti vincere la battaglia, lasciando sul campo le tue migliori risorse, ma come la mettiamo con la guerra?
- Gli articoli che segnalano i trend del 2020 sono, così come questo che leggi, dei cliché. Si fanno per guadagnare posizioni su Google, per far condividere i link al proprio sito, per ammaliare potenziali nuovi clienti facendo credere che si abbia l’autorevolezza per dire che l’anno che verrà funzionerà così. Perché, diciamolo, se qualcuno si arroga il diritto di dirlo, beh, significa che è autorevole per farlo, no?
- Sette è il numero perfetto. La perfezione non esiste, ma possiamo cercare di lavorare sempre per raggiungerla, no? Se vuoi raggiungerla nel tuo settore, che sia esso franchising, multisede, local, B2C, B2B, il marketing è un processo strategico. Se hai una strategia chiara, non hai bisogno di trend, ma li userai a tuo buon pro solo se possono aver senso, testandoli, valutandone i risultati, capendo se fanno al caso tuo e decidendo se il gioco (l’investimento) vale la candela (il risultato).
Quindi? Nessun consiglio o trend per il 2020? Nemmeno per il marketing per i franchising?
Io ho tanti auguri da fare, ma non sono nessuno e non mi paragonerei mai a chi è davvero autorevole. Però, visto che ormai sono quasi 15 anni che mi occupo di vendita, marketing e comunicazione, in particolare per catene, multistore e franchising, ho una speranza, anzi, più di qualcuna. Prendetelo come un consiglio, o un augurio.
Un tempo qualcuno mi disse che un’azione che facciamo non deve per forza scatenare un maremoto, ma basta che sposti una goccia nel mare per poter innescare un cambiamento.
E io mi auguro che ci sia davvero un cambiamento nel mondo del marketing. Un cambiamento che si infischi dei trend e volga gli occhi alla strategia, finalmente. Ecco dunque cosa mi auguro per questo 2020, sperando che continui nel 2021, nel 2022 e, possibilmente, per sempre:
- più analisi di mercato e aziendale e meno improvvisazione. Audit interne ed esterne, riflessioni sul nostro cliente, sul nostro prodotto e una chiara consapevolezza di come i clienti acquistano da noi
- più strategia e meno strumenti. Un piano di marketing che coinvolga gli strumenti ma non si focalizzi solo su quelli. Un piano che sappia spostarsi anche sui trend se necessario, ma sono quando sia trasparente e lampante come questi trend si inseriscono nella strategia, quali asset spostano, quali leve muovono e come possono incidere sul risultato finale.
- più strategia e meno tattica. Gli strumenti del marketing suonano all’unisono per creare una melodia, non cantano in modo singolo. Ogni azione è concatenata. Chiunque vi dica che vi ha portato tot lead con tot investimento, prendetelo con le pinze. Chi vi dice che quei lead non siano stati smossi a monte da altre azioni, anche di mesi o anni prima? Il marketing e il processo decisionale dei clienti tra scegliervi e non scegliervi, sono percorsi, non singoli input che generano per forza un automatico output.
- più processo di acquisto e meno processo di vendita. Vorremo tutti che le persone acquistassero da noi come vogliamo noi. Non funziona così. Il processo di acquisto, come insegna il corso WMI, è determinato da tanti fattori ed essi caratterizzano un tempo e un processo decisionale che non possiamo definire a tavolino: va analizzato!
- basta pensare che il marketing online e offline siano due cose distinte. Il marketing è uno! Se non ne sei ancora convinto, osserva come i big player del mondo tech stanno usando i canali offline: carta stampata, TV, card, sono entrati di peso nelle loro azioni di marketing. Il marketing, in qualsiasi settore, è uno solo!
- influencer, ambassador, evagelist. Basta! Non è tra le braccia di una bella donna in reggiseno e perizoma che il tuo prodotto troverà il successo! Certo, ci sono anche influencer seri, eh, ma costano, e costano cari, e prima di pensare a un piano di influencer marketing con i super mega personaggi che vedi su Instagram, concentrati sui tuoi clienti. Hai mai pensato che i tuoi clienti, in realtà, siano dei micro influencer? I tuoi clienti parlano di te, anche senza che tu lo sappia. E se lavorassi con loro invece che con chi non ha mai provato il tuo prodotto?
- dati, raccogliamo i dati! E trattiamoli bene, se possibile. I dati dei clienti e di quello che comprano sono fondamentali per comprendere cosa funziona e come possiamo arrivare anche ad altri clienti. Oggi, per fortuna, esistono molti sistemi di business intelligence per analizzare e visualizzare i dati e il mio collega Fabio Piccigallo ha anche scritto un bellissimo volume sul Data Storytelling per far comprendere come rappresentare e leggere questi dati per creare il giusto piano di marketing, verificato attraverso i numeri. Marketing data driven, lo chiamano. Chiamalo come ritieni più opportuno, ma prima di affermare che una cosa non funziona o un’azione non porta risultati, analizza e dimostra!
- brand. Ama il tuo brand, proteggilo, fallo crescere, analizzalo. Il brand fa la differenza in qualsiasi piano di marketing. Spesso un’azione non funziona perché non c’è il brand. Cosa significa? Che nessuno ti conosce, sa chi sei, sa cosa fai o ha in mente una parola chiave che ti descrive, o l’inverso. Essere un punto di riferimento per la propria nicchia o per il proprio mercato sembra la banalità delle banalità, ma è qualcosa su cui, ogni giorno, nelle attività di consulenza che facciamo con Franchising Strategy e con altri colleghi, c’è ancora tanto da fare. Brand! Ricordatelo, lavoraci, fallo bene.
- non lasciarti affascinare dai guru. I guru non esistono. Nessuno ha la bacchetta magica. Qui entro in qualcosa di più filosofico e meno simpatico ai più, ma mi chiedo quanto, dietro la ricerca della parola magica del guru di turno, ci sia in realtà un bisogno di trovare all’esterno risposte che in realtà abbiamo dentro di noi (senza facili citazioni ironiche). L’azienda non funziona, il prodotto non va, le azioni di marketing che facciamo non stanno sortendo i risultati sperati: siamo sicuri che non dipenda da noi? Quanto spesso vedo che se un’azione non funziona è perché non ci si è posti la domanda su chi ci conosce, se siamo un brand o meno, se nel processo di acquisto vi sia il bisogno di una fase informativa prima di giungere a quella commerciale.
- il marketing non è creativo. Il marketing esiste, se pur sembri effimero e intangibile, all’inizio. E il marketing è fatto di strategia, non di stereotipi. Se corretta, la strategia di marketing deve partire da un’analisi proprio per consentire al professionista, che sa che ogni azienda è differente, di lavorare con te secondo quello che è la tua storia, le tue dinamiche, la tua impostazione, non quella che si è immaginata lui. Io uso spesso l’analisi SWOT e strumenti di analisi interna che coinvolgano l’azienda, anche su più reparti, ma questa è un’altra storia, perché io penso che qualsiasi azione di marketing vada contestualizzata e ne vadano capiti i perché e credo che quei perché risiedano spesso nel vivere l’azienda, dentro e fuori.
In sostanza,
ogni azienda è un progetto unico e meraviglioso che non ha nulla a che vedere con le mode. La chiave è il progetto.
Se ci sono un progetto solido, un’analisi strutturata e la consapevolezza delle fasi del processo d’acquisto, noi siamo il direttore d’orchestra che decide se far entrare un nuovo elemento, ma solo quando migliora la melodia.
E per i franchising?
Ho parlato di marketing in generale, senza addentrarmi nei trend del nuovo anno per i franchising, come feci qualche tempo fa, ormai. In realtà, anche per le strutture in rete e il marketing per franchising, più che di trend, preferirei parlare di auguri. Gli auguri che mi faccio sono legati al metodo di marketing di Franchising Strategy, che si basa su tre livelli strategici: B2B, B2C, interno. Mi auguro quindi, davvero:
- franchising capaci di analizzare i clienti e scegliere i franchisee che vogliono, non quelli che alimentano il portafogli e basta. Meno opportunity seeker, più affiliati in linea con i valori della casa madre
- franchisor che supportino i franchisee con una strategia locale seria, operando quasi da agenzia di comunicazione per i propri partner. Il franchisor che ha strutturato una buona strategia di marketing ha la competenza e la responsabilità di guidare i propri franchisee, che lo hanno scelto – in teoria – anche per questo
- case madri che sappiano muoversi come aziende eticamente impegnate nella strutturazione di piani di marketing interno che facciano squadra tra sede e sedi. Ritengo fondamentale gestire piani di formazione, gruppi di lavoro, momenti di confronto e condivisione per la crescita. Se un imprenditore ha scelto di affiliarsi, non è perché vuole fare l’one man band, o almeno non dovrebbe essere così. Lo si fa perché si apprezza il lavoro di squadra e se ne riconosce il potenziale.
Franchising, B2B, B2C, qualsiasi tipo di azienda, in ogni dove, anche se non ha mai fatto marketing, ha una sua visione e strategia. Non si tratta di avere un account su Instagram o Facebook, di scegliere di fare un social commerce o di avere il blog meglio posizionato per una determinata parola chiave. Non ci sono trend da seguire. C’è tanto buon senso. C’è tanto coraggio. C’è bisogno di tornare a quello che è il marketing fuori dalle chimere. Torniamo a studiare Kotler, Drucker, avviciniamoci a Ferrandina e Al Ries, a Jack Trout; torniamo a confrontarci e a mettere in discussione ogni cosa che facciamo attraverso i numeri.
In fondo, il vero trend del marketing del 2020, è che nessuno ha inventato l’acqua calda, ma nonostante gli strumenti cambino, il digital sia veloce e siamo bersagliati dalle informazioni, le persone e le aziende comprano e le aziende vendono. Da sempre. Come lo fanno, in quanto tempo, attraverso quali leve, è tutto ciò che dobbiamo sapere per muovere quelle giuste anche -volendo – quelle più di moda.
Di tutto il resto, me ne infischio.
Buon Anno di marketing strategico.
E tu cosa ne pensi dei trend del 2020?
Se ti va, commenta, o scrivimi.
Recensioni, come gestirle? Ne parliamo a Expo Franchising Napoli
Sabato 18 maggio, presso ExpoFranchising Napoli, alla Fiera d’Oltremare, parleremo di recensioni e di come gestirle, sia lato franchisor che franchisee, alle 13.30, sala Tirreno, pad. 6.
Le recensioni sono uno dei cardini della reputazione di un’attività, un’azienda o un prodotto nell’era di internet. Sono importantissime, così importanti da cambiare la percezione di un brand e consentire di aumentare esponenzialmente le vendite, se esposte nella corretta maniera (nel settore del lusso si parla di un incremento del 370% delle vendite quando vengono mostrate le recensioni). Sono ancora più importanti se pensiamo al mondo dello sviluppo in franchising, sia per quanto riguarda i franchisor che per i franchisee.
Gli utenti, di qualsiasi tipo, si sono abituati a farle, complice Tripadvisor che per primo le ha innescate. Non sono da meno, tanto da aver superato talvolta Tripadvisor, anche quelle di Google e Facebook. E non ci sono solo questi canali.
Le recensioni sono ovunque.
Si trovano recensioni sui marketplace, sui social media, nei comparatori di prezzi e sulle piattaforme di food delivery. Sono ovunque. Sono il passaparola dei tempi moderni.
L’italiano medio, ahinoi, tende a lasciarle più volentieri negative che positive, quasi che aver vissuto un’esperienza soddisfacente o superlativa non meriti di essere segnalata.
Come mai dunque si lasciano più recensioni negative che positive? In realtà il fatto è da ricondurre piuttosto alla pigrizia degli esercenti e delle aziende, che hanno il timore di chiedere le recensioni sia ai clienti fidelizzati che a quelli soddisfatti. In questo modo si attirano ovviamente i feedback di chi ha vissuto un’esperienza poco illuminante, che risentitosi di quanto ricevuto, vuole dirlo al mondo, come in una forma di vendetta.
Sì, perché le recensioni sono un’arma, sono un potente mitragliatore nelle mani degli utenti che non si rendono quasi mai conto delle conseguenze delle loro azioni.
Le recensioni negative, infatti, fanno male. Fanno male a tal punto che in alcuni casi si sono viste abbassare le saracinesche di negozi e ristoranti. Tutta colpa di Tripadvisor? In realtà ci sarebbe da fare una lunga analisi, esercizio per esercizio. In linea di massima, essendo l’utente libero di lasciarle, volenti o nolenti, siamo chiamati a gestirle. Farlo non è facile ma ci sono alcune cose pratiche che possiamo fare prima e dopo e, ad ogni modo, possiamo farne tesoro.
Il vero fatto dietro alle recensioni è che non vengono mai viste come un’opportunità. Ebbene, lo sono.
- Consentono di far crescere la reputazione della nostra azienda
- Consentono di mostrare chi siamo e raccontarlo
- Consentono di ricevere spunti e critiche per migliorarci e crescere
Ogni persona che ci scrive ha scelto di fatto di investire del tempo per farlo. Scegliere questo significa voler levare la propria voce per farsi ascoltare. Nel caso di una recensione negativa il bisogno di ascolto è altissimo. Non solo, chi legge quella recensione si fa un’idea diversa della nostra attività in base alla risposta che diamo e se la diamo.
Scegliere di non rispondere è un diritto, certo, ma dobbiamo essere consapevoli delle conseguenze e di quello che potremo perderci. Capire come rispondere alle recensioni non è d’altro canto cosa semplice. Mentre nella comunicazione verbale ci sono tutti i capisaldi della comunicazione, con gli elementi verbali, paraverbali e non verbali, dobbiamo sempre ricordare che due di questi mancano nella comunicazione scritta.
Inoltre, mettersi nei panni dell’utente e cercare di comprendere i suoi bisogni è un’attività che richiede pazienza ed esperienza. Pazienza, innanzitutto, perché come imprenditori rischiamo di pensare che ci stiano attaccando personalmente, reagendo di conseguenza. Le recensioni non vengono mai fatte a noi, ma all’azienda che si è mostrata tramite noi. Pazienza, dunque, e distacco. La prima cosa da mettere in atto per gestire le recensioni è proprio il distacco.
Fatto questo, serve analisi. Un’analisi della situazione, delle parole dell’utente e dei fatti accaduti è la chiave per gestire le recensioni al meglio. E poi rispondere. Rispondere bene. C’è chi mi chiede se si debbano usare risposte lunghe o sintetiche. Dipende. La risposta è sempre: dipende. Ci sono casi in cui è meglio essere brevi, altri in cui serve tirar fuori la propria storia o i punti di forza che ci vengono riconosciuti.
Come funziona per i franchising?
Nel caso di un franchising le recensioni possono riguardare il brand ma si possono anche rivolgere ai punti vendita che lo distribuiscono sul territorio. Un numero di recensioni frammentate, dunque. Se abbiamo aperto un franchising dovremo tenerne conto. E dovremo insegnare ai nostri franchisee come comportarsi e come gestirle, definendo una linea guida centralizzata e univoca, coerente con la mission e il tono di voce. Non è cosa semplice, ma non è nemmeno impossibile.
Expo Franchising Napoli è l’occasione per parlare anche di questi aspetti del marketing per franchising: le recensioni e come gestirle, sia lato franchisor che lato franchisee.
Ti aspettiamo in Sala Tirreno, al padiglione 6, sabato 18 maggio alle ore 13.30.
Vuoi ricevere il manuale con i consigli per rispondere alle recensioni? Compila il form scrivendo nel messaggio “ExpoFranchisingNapoli”!
Franchising e forme di previdenza integrativa: ampliare i servizi offerti alla rete
Cosa può offrire un Franchisor ai suoi affiliati? Solo formazione? No, anche supporto. Solo questo? No di certo. I migliori franchising sono sistemi che funzionano grazie alla forza della rete che rappresentano. Più forte è la rete, più si rafforza il brand e di conseguenza gli affiliati possono guadagnare ed essere soddisfatti della scelta di aderire a quel marchio.
Il Franchisor diventa in questo senso un punto di riferimento, un capofamiglia che fa crescere il sistema proprio perché è uno dei suoi obiettivi finali. La sede può dunque offrire percorsi per la crescita degli affiliati, oltre che il piano di sviluppo e formazione iniziale, ma quello che può fare non si ferma qui. Se pensiamo al sistema e alla soddisfazione, il Franchisor può davvero offrire ancora di più, facendo rete e traslandone i benefici sulla sua, di rete.
Forme di previdenza integrativa e franchising
Cosa c’entra dunque la pensione integrativa con i franchising?
Negli ultimi mesi sto lavorando a un progetto di sviluppo, con Alex Skerlavaj della web agency Delex di Trieste (anche lui Connection Manager 😊), di una piattaforma che analizza e vende forme di previdenza integrativa. È una realtà nuova, che ha inglobato il know how previdenziale di un team di professionisti del settore assicurativo e si è data come Mission la vendita dei prodotti previdenziali online, attraverso l’analisi di tutti i comparti e prodotti esistenti in Italia. Si chiama propensione.it e con Alex e altri professionisti stiamo supportando e implementando la strategia di marketing online e offline di questa startup.
Franchising di successo: l’importanza della comunicazione interna
Durante la fase di analisi abbiamo avuto modo di valutare il mercato del settore previdenziale, di scandagliare il sistema di pensione pubblica esistente e di apprendere, quindi, nozioni fondamentali su questo mondo così complesso ma sempre più interessante e importante da conoscere.
In una delle riunioni con il team, che ha la sua sede operativa a Trieste, è emersa l’importanza della costituzione di un fondo pensionistico per i liberi professionisti e gli imprenditori. Ero in una fase di analisi delle possibilità di comunicazione interna dei franchising, di analisi dello storydoing applicato al mondo dell’affiliazione e, come ho sottolineato anche in altri articoli, credo fermamente che una delle sfide più difficili per i Franchisor, troppo spesso sottovalutata, sia creare una squadra che lavora bene insieme e che trae costanti vantaggi dall’appartenenza al network.
Aprire un franchising: prima di tutto, l’impresa
Cito spesso la costituzione di un’agenzia di comunicazione interna che supporti gli affiliati, a tutela del brand. In quell’occasione stavo scandagliando anche i gruppi di acquisto, e quando ho sentito parlare di previdenza per i professionisti e gli imprenditori, mi è scattata un’ulteriore area di sviluppo possibile.
I franchising generano business territoriali e quindi sviluppano sistemi di impresa. Chi si affilia ha il vantaggio di poter aprire un’attività che è già stata testata, avvalendosi del know how di chi l’ha aperta è fatta crescere.
Se così è, la crescita degli imprenditori e il loro miglioramento economico e professionale è uno degli obiettivi correlati. Dall’inizio alla fine. Dall’apertura al – potenzialmente – pensionamento. Si sa, non sempre è così, perché i franchisee possono cambiare franchising o scegliere di vendere una volta ottenuto il giusto successo, oppure possono aprire nuove sedi, sviluppare nuove aree territoriali con altri business locali. Ottimo.
L’imprenditore che apre in franchising spesso non lo era prima di affiliarsi. Va formato, accompagnato, fatto crescere. Non possiamo pensare che sia da seguire solo in fase di apertura. Così come il marketing per i franchising è fondamentale per ampliare il business e migliorarne i risultati, a questo punto anche la pensione integrativa, per chi versa in una cassa separata, che sicuramente non darà diritto a una pensione pubblica commisurata al reddito, diventa un servizio interessante da offrire.
Franchising e previdenza integrativa: cosa potrebbe un Franchisor in tema di pensione?
Potrebbe innanzitutto informare:
dotarsi di un fondo pensione il prima possibile consente di cominciare presto a versare e quindi ottenere più risultati alla fine del periodo lavorativo.
Non solo. I versamenti a un fondo previdenziale abbassano il reddito imponibile. Ebbene sì. Fino a circa 5000 euro. Cosa significa? Se il tuo fatturato è di 45000 euro e tu versi 5000 a un fondo previdenziale, avrai un reddito imponibile di 40000 euro. Un bello sconto sulle tasse, no?
Prendo l’infografica di propensione.it per spiegare meglio.
Data la mia visione sui franchising e la comunicazione interna credo che da subito un buon Franchisor dovrebbe offrire tutti i servizi possibili, alcuni a costi talmente contenuti che viene proprio da dire: perché no? Questi servizi hanno costi contenuti perché possono essere fatti in partnership, oppure proposti attraverso corsi gratuiti. Per formare gli imprenditori affiliati, farli crescere, ottenere successo e, quindi, sviluppare un franchising di successo.
Se ti interessa aprire un franchising e vuoi cominciare nel modo giusto, ricorda che dovrai tenere conto di attività di comunicazione e marketing interne e attività interne. La previdenza e altri servizi sono tutte idee che puoi mettere a disposizione dei tuoi affiliati. Sono a disposizione per approfondire questi temi e valutare come ti stai muovendo, sia che tu abbia una rete di negozi già avviata, che tu stia pensando di avviarla.
Franchising e strumenti online: il web marketing a servizio della rete
Cosa può fare un franchisee quando sceglie un franchisor? Cosa può introdurre un franchisor per essere in linea con i trend del momento ma soprattutto cercare di definire la sua strategia?
Offline, prima di internet, c’era poco. Oggi le cose sono drasticamente cambiate. Le imprese hanno a disposizione una serie di strumenti molto importanti per la loro comunicazione, come il sito internet, i social media, ecc. Online, per le aziende, e in particolare per i franchising, c’è già molto.
Partiamo da un assunto: un franchising ha al suo interno diversi piani di sviluppo marketing, differenti anche nel target a cui si rivolgono, spesso. In primis deve creare un piano marketing per il suo sviluppo, la sua diffusione e la penetrazione nel mercato. Poi, deve cercare di capire fin da subito quale sia la strada per portare traffico ai propri franchisee, come misurarlo, come renderlo business in modo che essi non decidano di lasciare il brand.
In realtà, insieme a questi, come vidi quando parlai di Carpisa, un franchising che si sarebbe potuto rimettere in gioco, ci sono altri piani, come quello di marketing interno, che è sì fidelizzazione dei franchisee ma rientra nel team building e in una strutturazione ancora più complessa.
Lasciamo stare le complicazioni per approfondire, oggi, cosa dovrebbe chiedere o chiedersi un potenziale franchisee rispetto alla comunicazione online del suo potenziale franchisor.
- Se esiste la pagina Facebook?
- Se esiste il sito internet?
- Quante visite fa?
Certo, possono essere informazioni utili e talvolta importanti.
- Ma perché un franchising dovrebbe avere la pagina Facebook?
- È sempre necessaria?
- Che obiettivo ha il sito?
- Che risultati portano le visite?
Sono tutti temi, questi ultimi, che rientrano nell’approccio più strategico rispetto al web marketing, quello che costituisce la sua vera essenza:
se non hai un piano, non saprai mai che strumenti ti servono per realizzarlo.
Ogni tanto mi piace fare degli esempi, che aiutano gli imprenditori a capire cosa intendo. Sappiamo tutti, più o meno, cosa significhi costruire una casa, giusto? Ebbene, siamo certi che tutte le imprese edili usino le stesse materie prime e che lo facciano con le stesse strumentazioni? Siamo certi che queste strumentazioni vadano bene sia in una palude che in cima alla montagna?
Ancora, immaginiamoci un viaggio, un cammino zaino in spalla. L’attrezzatura sarà la stessa per la Savana o l’Everest? La strategia di cammino, il ritmo, il tempo per raggiungere gli obiettivi saranno i medesimi?
Visti questi esempi capiamo almeno due cose
- Che non esiste una strategia che vada bene per tutti
- Che basandoci su quello che vediamo, potremo prendere degli abbagli
Cos’è bene chiedere a un franchisor dunque, rispetto alle politiche di Web Marketing? Per prima cosa: quale sia la strategia.
Come il franchisor strutturerà un piano per farmi avere clienti?
Non solo! Controllate la sua presenza online e come la sta strutturando.
Non è giusto esserci per il gusto di esserci, ma perché conosciamo i perché e gli obiettivi dell’esserci.
Se scoprite che un brand è online ma non vi sa dire il motivo o adduce scuse tipo: perché ci sono tutti, rifuggitelo.
Se sei un franchisor, attenzione. Gli strumenti giusti hanno i loro perché. Chiediti sempre quali obiettivi hanno o chiedili a chi te li propone.
A Napoli avremo modo di parlare di questo ed altro, nel convegno sugli strumenti di web marketing. Faremo una panoramica sulle attuali possibilità, online, per i franchising, tra Google My Business e Facebook Locations, i più attuali.
L’intervento “Web marketing per franchising: quali strumenti? Da Facebook Location a Google My Business. Quello che dovresti sapere se sei un franchisor, ma che dovresti conoscere bene anche se sei un franchisee o vuoi diventarlo” è a Expo Franchising Napoli, in Sala Ionio, Padiglione 6, alle 15.45. Per saperne di più visita il portale del Salone del Franchising Retail & Startup.
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Franchising 2018: trend, prospettive, sfide per il nuovo anno
Il 2017 se ne va e come accade spesso è ora di fare i bilanci del vecchio anno con un occhio puntato ai franchising.
Si parla di franchising 4.0, nuove possibilità, sfide da vincere e su cui rimettersi in gioco per un mondo, quello dell’affiliazione commerciale, che da quasi 50 anni dice la sua sul mercato.
I franchising nel 2017
Sono pochi gli studi che portano alla luce i veri numeri, se non quelli emersi durante il Salone del Franchising di Milano e qualche analisi di AssoFranchising. Il settore è in crescita.
Se guardiamo i dati degli scorsi anni, negli studi proprio dell’associazione nazionale, la crescita del settore si dimostra ancora più interessante.
- Nel 1989 (primo anno di cui si trovano notizie) in Italia avevamo 210 franchisor, con 1091 franchisee e una media di 43 affiliati per brand.
- Nel 2003 in Italia c’erano 628 imprese affilianti, con 41000 affiliati e una media di franchisee per ogni casa madre di 63.
- Nel 2016 siamo saliti a 950 imprese, con 50700 punti vendita.
- In Italia le imprese straniere che investono sono circa 60, mentre i brand italiani che si sono espansi anche all’estero sono 169.
- Durante la fiera di Milano è emerso che nel 2018 si prospetta che il mercato tocchi i 1000 brand affilianti, con una copertura del 7% della distribuzione e 51000 negozi attivi.
- Anche il Sole 24 ore, a ottobre scorso, ha dichiarato che il franchising è un settore in salute, con un giro d’affari di 24 miliardi di euro.
L’indotto dà lavoro a più di 160.000 persone, e Andrea Renazzi, nell’intervista ad Alessandro Ravecca, presidente FederFranchising, l’altra associazione nazionale del settore, ha riportato recentemente, in un articolo per Retail&Food (dicembre 2017), che l’affiliazione può rilanciare il ruolo dell’impresa nei territori, specie laddove si generano momenti di incontro tra le amministrazioni locali e i franchisor per lo sviluppo dei centri storici.
Tutto vero? Tante prospettive positive e tante possibilità ci sono davvero? Da quando seguo il settore, e oramai sono una decina di anni, ho notato che non è tutto oro quel che luccica – ovunque in realtà – ma soprattutto in un mondo che in Italia qualche falla ce l’ha ancora.
Franchising nel 2018
Ho provato a chiedere un po’ di opinioni in giro, tra franchisor, franchisee e chi si interfaccia con loro.
Mentre Aprire in Franchising parla dei nuovi trend e delle attività da aprire, Info Franchising gli si accoda spiegando anche perché valga la pena scegliere la forma dell’affiliazione per mettersi in proprio e AssoFranchising annuncia l’annuario 2018 con tutte le 1000 aziende attive in Italia; anche all’estero si parla di prospettive e nuovi trend e l’Entrepreneur, sempre molto attento al settore e ai suoi sviluppi, ha analizzato le over top 10 franchise categories 2018 e in altri ambiti si parla di quali siano le migliori fiere del franchising per espandersi al’estero.
Aperture, sviluppo, nuovi punti vendita, nuovi rami e nuovi distaccamenti, export, specie nei paesi asiatici. E poi ancora perché aprire e dove conviene, più i soliti temi che attanagliano le discussioni da tempi immemori: contratti e manuale operativo, ma in primis se la legge sia davvero adeguata al settore.
Sono tante le domande che si leggono online, davvero tante. Corrispondono a quelle che franchisee e franchisor si pongono quotidianamente?
Sono percezioni o realisticamente dicono e raccontano i mal di pancia di chi si sta davvero mettendo in gioco e di chi sta aiutando gli imprenditori a farlo?
Ogni volta che sfoglio un magazine del settore me lo chiedo per davvero: vedo tanti marchi promuoversi, comprare spazi, mettere in campo promesse, e quello che mi piace analizzare, e non sempre emerge facilmente, è se si tratti per davvero di brand in cui valga la pena investire.
C’è da dire che la tematica è delicata, non fosse altro per un dato: la ricerca di franchising e affiliazioni low cost è in aumento. Si tratta di franchising apribili con investimenti dai 15 ai 30 mila euro (la media va dai 30 ai 50000) e pare riguardi il 70% delle nuove aperture.
Franchising low cost per il 2018?
Moda o vera opportunità? I franchising low cost rappresentano un trend che guarda al futuro o una prospettiva pro tempore che potrebbe avere dubbie possibilità di sviluppo? Un tempo si usava dire che “chi più spende meno spende”. Nel franchising non è detto, analizzando grandi brand e franchisor attivi da tantissimi anni, che chi più spende abbia di più.
Guadagnerà di più? Aperture e chiusure lo dimostreranno attraverso i dati. Sta di fatto che
di fronte a investimenti maggiori e fee più elevate non è detto che corrispondano servizi migliori e più strutturati.
Il low cost quindi offrirà di meno a fronte di un investimento minore? Anche in questo caso, non è detto. Ci sono realtà in franchising a basso investimento, specie nel mondo delle startup, che hanno impostato strategie molto precise e si stanno muovendo molto bene anche nel confronto con l’innovazione. Saranno costi sostenibili per sempre? Lo vedremo.
Franchising nel 2018: la mia indagine
Intanto il tema è il 2018 per i franchising e come lo vedono i diversi attori. Ho cercato di dividerli per aree di intervento tra franchisee, consulenti ed esperti e franchisor.
Vediamo cosa è emerso, con una nota, una parentesi divagatoria: ha risposto anche Elena Delfino, giornalista che si occupa di franchising da quasi 20 anni. Ho recuperato un suo articolo per AZ Franchising del 2008, che si chiama 1998-2018: il franchising ieri, oggi, domani. Mi sembrava doveroso citarlo, per aprire al ragionamento, e per la stima che ho per lei, oltre che per l’anno a cui guardava, il 2018.
Ringrazio fin da ora chi si è preso qualche minuto per rispondermi, interagire in pubblico o in privato, dedicarmi il suo tempo per parlare di questo argomento e mettere un occhio verso questo 2018 ormai arrivato.
2018 e franchising: il punto di vista dei franchisor
Apro con Pietro Amico, avvocato, che da anni si occupa di comprendere il settore e strutturare interventi volti a tutelare il franchisor rispetto a tutti gli aspetti noti e poco noti di sviluppo della sua rete e della legge.
Una nota che mi sento di fare, specie quando si struttura un franchising, è non dare per scontato che basti un contratto standard per partire. Specie quando si innescano politiche di marketing molto strutturate, è bene pensare fin da subito come la strategia impatti sullo sviluppo, prevenendo, prima che curando… Il punto di vista dell’avv. Amico apre gli occhi sui passi che sta compiendo l’Unione Europea sui franchising e mette nuovi punti su un percorso che si dimostra ancora una volta da costruire.
“Nel 2018 il franchising potrebbe trovarsi ad affrontare un passaggio epocale sul piano giuridico, in quanto è atteso l’avvio dei lavori per una regolamentazione europea della materia.
Ciò significa che il settore sarà chiamato a una profonda riflessione sulle priorità da consegnare alla politica UE e sul tema mai sopito del corretto bilanciamento di interessi tra affilianti e affiliati; al tempo stesso è ipotizzabile che la normativa, una volta attuata e a regime negli Stati membri, consenta agli attori economici di poter fare affidamento per la prima volta su un quadro legale omogeneo per operare e investire in ambito transfrontaliero. All’origine di tale percorso vi sono le interessantissime considerazioni del Parlamento Europeo, secondo cui
“il franchising ha tutto il potenziale per essere un modello commerciale in grado di contribuire al completamento del mercato unico nel settore del commercio al dettaglio, in quanto può rivelarsi uno strumento utile per avviare un’impresa mediante un investimento condiviso tra affiliante e affiliato;
ed è pertanto motivo di delusione constatare che, attualmente, nell’Unione europea i risultati sono inferiori alle potenzialità, poiché il franchising rappresenta solo l’1,89 % del PIL, contro il 5,95 % negli USA e il 10,83 % in Australia, e che l’83,5 % del volume d’affari del franchising è concentrato in appena sette Stati membri, motivo per cui è importante incoraggiare una maggiore diffusione di questo modello commerciale in tutta l’Unione Europea (Risoluzione del 12 settembre 2017 sul funzionamento del franchising nel settore del commercio al dettaglio).
Nel merito si tratterà di capire se l’Unione Europea si accontenterà di una regolamentazione “de minimis” o se invece ci sarà lo slancio per affrontare l’innovazione di una disciplina contrattuale che per molti aspetti è ferma al secolo scorso, con un’idea di negozi fisici soggetti a esclusive territoriali e a pratiche commerciali “impositive” da parte dei franchisor, laddove al giorno d’oggi le affiliazioni di successo inglobano sempre più spesso piattaforme di vendita on-line ed una collaborazione integrata tra tutti i membri del network.”
Pietro Amico, avvocato d’affari e manager, si muove a livello professionale tra Udine, Milano e Malta.
La tematica del rapporto fra affiliante e affiliato è sentita moltissimo dai franchisor. Alcuni, come Alessandro Giuliani di Mercatopoli e Baby Bazar stanno puntando alla qualità degli affiliati, proprio per lavorare meglio sul brand e il suo sviluppo, dando loro maggiore supporto e formazione, anche in un ambito poco esplorato, per i franchising, come quello del web marketing. Un tema che mi è molto caro, per altro: partire dal presupposto che avere i migliori franchisee, formati e attenti, se pur crei uno sforzo enorme in fase di selezione, sia la chiave per avere successo nel tempo, con una cassa di risonanza positiva per tutto il network.
“Penso che anche per l’anno prossimo i franchisor dovranno perseguire la strada del supporto ai loro affiliati, soprattutto sul web.
Le sfide saranno molte ma partono dalla consapevolezza che un affiliato che viene seguito e guadagna è un cliente super fidelizzato.
Minore focalizzazione sulle nuove aperture e maggior supporto per gli affiliati esistenti, questa è la strada che sto perseguendo personalmente con il mio team e che porterò avanti nel 2018.”
Alessandro Giuliani, fondatore di Mercatopoli e Baby Bazar
Ed espansione, in particolare sui mercati esteri, come accennava l’avv. Pietro Amico, anche se con una tendenza ad abbracciare quelli con gli occhi a mandorla, come spiega Giovanni Monzali, che si occupa di un noto brand di caffè.
“L’ azienda per cui lavoro é in forte espansione con il franchising e ho partecipato a seminari di formazione sull’export management in Asia che mostrano ottime previsioni di crescita nella zona, grazie al traino del PIL delle economie asiatiche. Per la Camera di Commercio la vera sfida sarebbe quella di puntare sui mercati asiatici, ma non è una novità: si tratta di un progetto in atto da decenni e l’Italia si é mossa in ritardo…”
Ritardo o meno, le reti che allargano la loro maglia lo dovrebbero fare in maniera consapevole e strutturata, senza dimenticare che oggi più che mai l’accesso alle informazioni è così globale che pensare di arrancare con una struttura poco trasparente non paga e che all’estero si stanno muovendo nuovi approcci anche al franchising anche visto che, in tema di affiliazione, l’Unione Europea potrebbe ancora una volta fare la differenza, con i suoi emendamenti in materia.
Da parte mia penso che la sfida vera dei franchisor sia decidere di fare ordine nelle proprie strategie di marketing, ancora più importante se parliamo di startup.
Partire con una chiara strategia consente a legali e commercialisti di costruire manuali operativi e contratti molto più tutelanti, sia per il franchisor che per la sua rete.
C’è davvero tanta ignoranza e impreparazione, specie per chi ha una rete già costruita. Cambiare le carte in tavola in itinere non è solo una manovra commerciale, ma diventa un’operazione che può toccare gli equilibri in maniera indelebile.
Il franchising è una squadra che funziona se si innescano dinamiche collaborative e partecipative di un certo tipo. Quando ci penso o vengo contattata per lo sviluppo web marketing per un franchising, è uno degli aspetti che sento forti, e che riguarda, in realtà, una specie di evoluzione della gestione delle risorse umane, quella comunicazione interna di cui tanto si parla ma che nel nostro paese è ancora lontana dall’essere gestita.
Così come in un’azienda – lo possiamo anche chiamare welfare – i dipendenti dovrebbero essere felici di svolgere il proprio lavoro perché anno chiari i loro obiettivi e si sentono stimolati dall’appartenenza a una squadra in cui stanno bene e quindi lavorano bene, allo stesso modo
i franchisee, se pur abbiano un rapporto contrattuale diverso – e lungi da me che sia simile a quello di un dipendente – dovrebbero sentirsi parte di una famiglia che lavora insieme per uno scopo comune, laddove lo sforzo e la sinergia dell’uno sono utili alla squadra.
Marketing interno ed esterno sono dunque le vere sfide, dal mio punto di vista, e sono quelle con cui, ultimamente, mi confronto ogni giorno.
2018 e franchising: cosa pensano gli esperti
Un avvocato lo abbiamo sentito, ora tocca a chi indaga, intervista e supporta i franchising in Italia. Partiamo dalla già citata Elena Delfino, giornalista di Start Franchising, che si occupa del settore dagli anni ’90, per arrivare a uno dei massimi esperti italiani in tema di contratti etici per i franchising (e legali), che con i suoi articoli ha spesso messo in luce molte delle ombre del settore. Il suo è un punto di vista oggettivo e duro, ma è proprio la sua capacità di farci riflettere che dovrebbe dargli ancora più valore. Collaborazione e nuovi approcci alla diffusione nelle parole, invece, di Roberto Lo Russo, che su StartFranchising sta ponendo attenzione al franchising di qualità.
“C’è una domanda che amici e parenti mi rivolgono puntualmente perché sanno che da anni scrivo di franchising: Elena, ma il franchising funziona davvero? Con chi mi consigli di investire?” apre così Elena Delfino, continuando: “Ecco, per il 2018 partirei con un augurio, e cioè che gli operatori di questo settore decidano di raccontarsi e raccontare questa formula di business in modo sempre più qualificato e trasparente, così da rendere le risposte a quelle domande sempre più dirette ed immediate. Con Start Franchising abbiamo deciso di impegnarci proprio in questa direzione. L’augurio però non è molto lontano dalla previsione: chiunque operi nel franchising si racconterà in modo sempre più efficace su strumenti qualificati online o offline, perché sappiamo che chi investe oggi è consapevole di poter reperire informazioni in modo più semplice e accessibile. Se non le trova, o le trova parziali o poco chiare, semplicemente cambia strada.”
Elena Delfino, giornalista esperta di franchising
“Occorrerebbe dividere il tema in due parti:
1. sfide di e sul mercato per ogni franchisor;
2. sfide per il franchising, come settore.
Se il n.1 non è tema di mia specifica competenza, per il n.2 occorre accettare e ben metabolizzare che non esiste una “sfida” o più “sfide” per il 2018. Il franchising non ha ancora affrontato, o meglio, quanto eventualmente e solo per ipotesi è stato fatto, è assolutamente inefficace. La reale sfida che doveva vincere, quella prettamente tecnico-legislativa non è vinta per niente, nonostante si voglia ancora negare questo aspetto. Ho da poco scritto sul mio blog “Il gattopardo in franchising”. Il senso è quello che riporto sinteticamente in quell’articolo.
Il franchising non ha mai trovato il modo di tenere lontani operatori poco professionali.
Non ha mai trovato il modo di non far partecipare a eventi pubblici per “vendersi” (perché questo è l’esatto termine tecnico, in Usa si dice “to buy a franchise” e in Francia “achat une franchise”).
Chi non ha una corretta impostazione del proprio sistema di franchising, che non ha sperimentato veramente la propria formula commerciale (come dice la normativa), che non significa “un punto pilota” o “per un anno” continua a esprimersi con obrobri economici: sono eresie aziendali, sono giustificazioni e motivazioni addotte semplicemente per creare “movimento” di indici di natalità e di mortalità. Tanti altri sono gli aspetti che ancora hanno grandi criticità e non hanno importanza i dati di “tenuta” del settore nel periodo di crisi, anche perché la lettura e l’interpretazione di tali dati può essere alquanto soggettiva, nonostante il palese negazionismo che ci arriva con tutta serenità. Forse la migliore conclusione è che al franchising non piace sentirsi dire tutti i tanti difetti che ancora sono stati lasciati addosso al settore e che qualcuno tende a nascondere sotto il tappeto e non sarà certo il 2018 a risolvere il tutto.
Ci sarebbe anche un altro tema interessante: è che in troppi “non tecnici”, soggetti in totale assenza di “visione di un insieme d’azienda”, pensano di essere esperti, interpretare la norma (a pro o a favore), dare indicazioni su come costruire una rete, ecc.
Ho recentemente fatto un arbitrato (io ero arbitro del franchisee) e il franchisor (che oggi ha una istanza di fallimento proprio dal franchisee che ha vinto l’arbitrato) ha serenamente dichiarato “io mi sono affidato a delle professionalità, come il mio commercialista, come uno dei più bravi avvocati, cosa avrei dovuto fare se nessuno mi ha detto niente?”. Stessa cosa vale per sviluppatore, responsabili di marketing, editori, franchisor mancati che, siccome sono stati molto “bravi”, allora pensano di dare consigli ad altri e fare i consulenti al franchising…”
Mirco Comparini, Presidente IREF Italia, Federazione delle Reti Europee di Parternariato e Franchising
Poca professionalità, tanta improvvisazione, come dar torto a Mirco vedendo certe tipologie di contratto o le strategie di marketing per franchising che non tengono conto dei due target e di una prospettiva a medio e lungo termine? Un altro tema scottante e sicuramente non dedicato solo al 2018, ma a una rivoluzione intera, che pare debba ancora venire.
Cosa si può fare? Come ci si può muovere per migliorare questa situazione? Qualcuno dice che se non crei soluzioni sei parte del problema, e così ragiona Roberto Lo Russo, dicendo che
“La prima sfida è far comprendere la formula del franchising etico sia ai Franchisor che ai Franchisee e potenziali tali; la seconda è strumentale alla prima, fare squadra tra associazioni, imprenditori del settore per fare massa critica”
Roberto Lo Russo, esperto di franchising, StartFranchising
L’approccio di Roberto, che ritroveremo alla Fiera del Franchising di Napoli, è proattivo:
non siamo più isole, dobbiamo cominciare a collaborare!
Una nota positiva arriva anche da Gianni Perbellini, commercialista, esperto di franchising.
“Sono convinto che il 2018 sarà un anno di grande accelerazione per il settore.
L’economia e i consumi in ripresa faranno ripartire le attività commerciali BtoC e il sistema Franchising garantisce un’accelerazione nello start up e buone possibilità di successo commerciale.
D’altro canto il consumatore, sempre più, tende a fidarsi ed affidarsi a format diffusi in franchising, dei quali conosce risposta qualitativa e pricing. La mobilità e le tempistiche sempre più incalzanti della vita quotidiana aiutano a creare sempre più consenso a ciò che si è dimostrato degno di fiducia ed è diffuso sul territorio. L’Italia, poi, deve recuperare il Gap che ha nei confronti degli altri Paesi Europei, per tacere degli Stati Uniti, per cui ben venga questo balzo in avanti!”
2018 e franchising: il punto di vista dei franchisee
Parliamo di sviluppo, selezione, affiliati più preparati. Sta di fatto che ci sono persone che ci hanno creduto, hanno sposato un marchio e hanno deciso di intraprendere la loro strada imprenditoriale con esso. Se può essere facile parlare di sviluppo partendo da zero o ragionando sui nuovi franchisee per il 2018, come è possibile adoperarsi per far lavorare meglio chi già è dentro a un’azienda da tempo? Ho deciso di ascoltare la voce di qualche franchisee o potenziale, per capire meglio cosa pensano.
I franchisor dovrebbero ascoltarli di più, chiedendosi cosa desiderino e facendone tesoro. Vedo pochissime situazioni win-win in cui il franchisor, come avviene invece in America, crea dei focus group con i propri franchisee, per capirne le esigenze e osservare il mercato ponendo nuove basi per il futuro. Il caso di Carpisa di quest’anno, ma anche tanti altri, sono emblematici per dimostrare che il franchisor non dovrebbe ritenersi un’isola né nei confronti dei propri simili, né tantomeno in quelli dei suoi franchisee. Ecco cosa mi hanno detto.
“Non so se sia una sfida ma il franchisor non è all’interno del negozio franchisee. Ho notato che i nostri concorrenti sono cresciuti molto quando i titolari hanno aperto uno o più punti vendita. A noi manca questo: abbiamo molta teoria ma poca pratica.”
P., franchisee di un noto brand italiano, che ha chiesto di rimanere anonimo
C’è una distanza tra il franchisor e il franchisee dunque, spesso sentita, perché il franchisee si sente mal compreso, nella gestione quotidiana e si rende conto che chi lo “governa” non si mette nei panni del proprio – di fatto – principale cliente. Molto interessante.
“Da 24enne con il “Sacro fuoco dell’imprenditoria” ma senza ‘na lira, sogno dei franchisor più preparati ad aiutare chi vorrebbe mettersi in gioco usando la propria forza per aiutare il franchisee a trovare le risorse e smettere semplicemente di fare gli appioppiatori di negozi.”
Guido Vecchioli, aspirante franchisee
“Appioppatori di negozi” è un termine nuovo, ma tante volte questo concetto è emerso:
i franchisor pensano solo alla loro espansione, a fare numeri, senza chiedersi cosa possa succedere quando i negozi chiudono, con quale impatto sul brand.
Ne abbiamo parlato prima, e lo trovo un tema su cui i franchisor dovrebbero fare sempre più attenzione.
Il Salone del Franchising ha fatto emergere che
- il 42% dei potenziali affiliati sceglie un franchising per la ricerca di un percorso autonomo,
- il 39% per testare una nuova esperienza,
- il 13% perché ha perso il lavoro
- Il 25% dei potenziali affiliati è nella fascia d’età tra i 25 e i 35 anni.
“Da franchisee, considero questo metodo di affiliazione in espansione siccome da la possibilità di intraprendere un’attività da self-employed. In periodi come questi, ‘l’imprenditore per necessità’ emerge più facilmente e può quindi trovare l’opportunità che cerca. Considero il contesto importante, poiché determina l’esperienza del franchisee e la crescita aziendale. A mio parere, in Italia c è molta diffidenza in questi sistemi poiché spesso sono accostati a concetti imprecisi. La diffusione potrebbe essere difficoltosa e per la nostra notoria bassa propensione al rischio e investimento.”
Emanuele Aversa, franchisee
Il 2018 ideale di un franchising
Come dovrebbe essere il 2018 ideale di un franchising? Recentemente mi sono messa a fare un po’ di studi sullo sviluppo imprenditoriale e uno dei temi che noto essere più semplici ma anche accantonati è quello di darsi degli obiettivi. Gli obiettivi, dice la teoria, dovrebbero essere SMART: specifici, misurabili, realizzabili, concreti/realistici, nel tempo.
Quante imprese riescono a lavorare per macro e micro obiettivi, nel breve, medio, lungo periodo, andando poi a confrontare i risultati per comprendere se vi sia stata una chiara visione o meno e imparare da ciò che ha ottenuto? Ahimè, non è facile.
I macro ambiti di intervento del 2018 però sono chiari, e ogni franchisor dovrebbe fare o aver fatto un esame di coscienza, facendosi supportare da consulenti preparati, per trovare il modo di tradurre questi concetti in obiettivi:
- Qualità e non quantità: non serve avere migliaia di affiliati scontenti, ma una quantità corretta, gestita bene e soddisfatta dei risultati che ottiene
- Basta improvvisazione. Servono consapevolezza e consulenti in grado di comprendere che questo non è un settore comune e che ha caratteristiche specifiche molto delicate da trattare, che non si possono improvvisare o affidare a un copia e incolla
- Accompagnamento. Il franchisee è il nostro principale cliente e quindi come tale va trattato. Il franchisee deve quindi essere supportato in fase di apertura ma anche in tutto il corso della vita del suo negozio.
- Contratti e manuali operativi seri, che nascano da uno studio serio e concreto. Non si scherza!
- Collaborazione, network, condivisione delle informazioni. Nonostante le molte associazioni, non c’è ancora una vera squadra in questo settore
- Un occhio aperto verso l’UE, che sta o potrebbe cambiare le carte in tavola. Prepararsi non è così scontato
E poi, visto che parlo di strategie di marketing per franchising
-
-
- Lavorare su una corretta strategia di marketing interno
- Definire una strategia di marketing globale che si occupi dei due target principali, lavorando principalmente sulla fidelizzazione, ovvero sulla soddisfazione e insoddisfazione dei propri clienti
- Fare buona pace definendo come strutturare gli strumenti online, specie Facebook Location e Google My Business
-
Ma soprattutto
- Definire degli obiettivi, che puntino prima di tutto a dare profitto agli affiliati, in modo da rinsaldare la rete e renderla forte di fronte alle sfide del mercato.
I franchising che oggi stanno dimostrando di avercela fatta sono quelli che sono stati in grado di mettersi in gioco, guardare al futuro, saper cogliere il presente nei suoi cambiamenti e fare squadra con i propri affiliati. Sviluppare reti più strutturate ed espandersi all’estero senza tenere conto di questi aspetti rischia di generare un approccio e un sentiment negativo non solo verso un brand, ma verso l’intero settore.
Approfondiremo alcuni degli aspetti trattati nei prossimi articoli. Se ti va di leggerli, seguimi sui canali social in cui mi trovi, come Facebook o LinkedIn, o iscriviti alla mia newsletter.
Grazie per aver letto fino a qui e buon 2018! In franchising, magari! 🙂
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Location per franchising: l’importanza della selezione
Qual è la zona migliore per aprire un negozio?
Come si sceglie una zona per aprire un negozio e come dovrebbe supportare il franchisor i potenziali franchisee nella scelta della location più adatta per lo sviluppo della loro attività?
Ho coinvolto alcuni professionisti, che sentiremo in seguito, in un post su LinkedIn, a inizio settembre, in cui affermavo che
“Scegliere la zona giusta per aprire il proprio negozio in franchising non è una pratica scontata. Servono analisi di mercato, conoscenza del territorio e tanto altro, perché lì si gioca il futuro del franchisee”
personalmente so che ci sono degli abissi tra la gestione italiana e straniera delle aperture, e la cosa non si ferma alla scelta della location per il franchisee, moltissime aziende non si prendono per nulla cura del proprio affiliato dopo l’apertura, purtroppo.
L’analisi del mercato, del target, della zona di apertura, non sono cose scontate. Ci sono reti che possono funzionare in determinati contesti e altre no. So per certo che un noto brand di food, ad esempio, ha scelto i centri commerciali, in Italia, perché i costi di gestione di cucine e tavoli in altre aree, come quelle urbane, sarebbero stati proibitivi rispetto al margine prospettato per gli affiliati. Ci sono prodotti che sono ok per il nord Italia ma non hanno presa al sud, e viceversa. Il franchisor queste cose dovrebbe analizzarle, prima!
Un franchisor che non si occupa di questi aspetti rischia di illudere i suoi affiliati, che vengono disincantati appena comincia l’attività, con conseguente frustrazione e riversamento di un clima sfavorevole allo sviluppo anche sul resto della rete. Nell’articolo riguardo il caso Carpisa ho già avuto modo di citare il valore della comunicazione interna con i franchisee, un terzo aspetto di marketing che una catena non può dare per scontato (insieme al marketing per l’incremento della rete e per il dialogo con i clienti).
Come si può riuscire a trovare la zona giusta?
Un’azienda che ha deciso di sviluppare la propria rete in franchising lo sa, o almeno lo dovrebbe sapere: la location giusta per il proprio affiliato fa tanto. Zona industriale o zona artigianale? Già la destinazione d’uso dei locali che si individuano, in Italia, è un problema. Magari ti trovi con un potenziale negozio in una bella area ma non puoi cambiare la sua destinazione d’uso per renderlo il tuo punto vendita. Non è così inusuale. Anche ammesso che la destinazione d’uso sia ok, decidere la zona giusta non è facile.
Meglio stare vicino a un polo commerciale o a un centro storico? Meglio la via centrale o quella più defilata? Meglio una zona poco battuta ma con una location molto bella e ampia o una zona centralissima con una location più piccola?
Che tipologia di locali ci dovrebbero essere vicino al nostro affiliato per trainarlo? Se avete fatto caso alle aperture in franchising avrete notato che sono spesso ripetitive. Capita, infatti, che in una determinata area, dove penetra un determinato marchio, inizino poi ad arrivarne anche altri. Avete notato cosa succede quando da qualche parte apre un McDonalds? Improvvisamente nasce un nuovo polo commericiale/ristorativo. Strano no? Non tanto.
Alessandro Giuliani, ideatore e direttore di Mercatopoli e Baby Bazar, un tempo la fece come battuta: dove apriamo Mercatopoli poi si installa quasi sempre una di quelle catene di pesce surgelato. Un caso? Mah! Non essendo all’interno di quel franchising, non possiamo ovviamente saperlo, ma basta girare i centri commerciali, i centri storici o le nuove zone commerciali periferiche per capire che dove si innesta un determinato tipo di attività ne sorgeranno a breve altre.
Come si capisce, dunque, se un’area è davvero interessante per lo sviluppo della propria rete?
Mi è capitato qualche mese fa di confrontarmi con una collega che si è occupata dello sviluppo di un franchising prima di internet. Lei si chiama Gaia Provvedi e si occupa di strategie di marketing da molti anni, da quando, in sostanza, non c’era ancora tutta questa focalizzazione sul digital marketing. Gaia, che spero di intervistare a breve in merito, mi ha raccontato che era andata fisicamente nelle città di potenziale sviluppo, presidiando e analizzando la zona, scandagliando le attività esistenti, talvolta intervistando i negozianti vicini.
Oggi, con internet, anche Gaia potrebbe fare meno fatica. Dati Istat, società di ricerca e sviluppo, giornali online, mappe, ecc. Per fare il primo sopralluogo della zona non serve nemmeno più andarci fisicamente, può bastare Google Maps!
Incredibile! Perfetto? Direi di no.
Si è concluso non molto tempo fa il Salone del Franchising, che ho già citato nel mio articolo sulle potenzialità e le attenzioni che un franchisor dovrebbe avere quando decide di far aprire con il suo brand e nell’articolo sulle fiere dei franchising degli scorsi mesi, e l’occasione è ghiotta per ricordare la mia esperienza dello scorso anno, quando finsi di voler aprire la mia attività con questo sistema.
Cosa ho capito al Salone del Franchising?
Chiedendo in giro a molti franchisor, rispetto alla loro visione sulle strategie di individuazione delle zone, sono rimasta abbastanza allibita: quasi nessuno si preoccupava di capire bene che implicazioni avesse scegliere una zona piuttosto che un’altra, quasi nessuno mi ha detto di avere delle società a supporto delle aperture o una visione strategica chiara sulle aree di sviluppo in Italia. Che dispiacere!
Quando si costruisce una strategia per un franchising si potrebbero addirittura individuare con anticipo le zone in cui può essere interessante espandere la propria rete, lo sapevate?
Una piccola analisi iniziale sul territorio italiano, qualora si voglia creare un network nella nostra nazione, potrebbe consentire di capire fin da subito aree no e aree sì. Certo, non è sufficiente, ma è un punto di partenza per relazionarsi con chi vuole aprire con noi, in maniera davvero professionale. Quali dati considererei per fare questa analisi?
Innanzitutto la popolazione, per capire quale bacino vi possa essere intorno al punto vendita
data la popolazione, è fondamentale farne una minima analisi qualitativa, e non fermarsi solo a quella quantitativa. Che tessuto economico c’è in quella zona, quali industrie, che incidenza ha avuto la crisi?
E ancora: quante famiglie ci sono?
Di quali età?
Capiamo benissimo che aprire un negozio di abbigliamento giovane in una zona con età media sui 70 anni potrebbe essere rischioso, come aprire un marchio di moda luxury in un’area con reddito pro capite bassissimo, sotto la media italiana. Sono estremizzazioni, ovviamente, ma rendono l’idea.
Date le informazioni precedenti, si possono studiare i dati Istat, chiedere informazioni alle Camere di Commercio, verificare se vi siano concorrenti e che tipologie di Franchising abbiano già penetrato la zona.
Una valutazione, poi, andrebbe fatta sulle arterie di comunicazione, per comprendere quanto sia raggiungibile una determinata area. Mi sono capitate richieste da paesi sperduti del centro Italia, raggiungibili solo con strade tortuose e con il primo paese significativo a 7 km di distanza ma, di fatto, 30 minuti di auto. Si capisce che se quel paese disperso non ha un via vai elevato o un tessuto economico importante, sarà difficile sviluppare un business.
Il target, il tempo di riacquisto. I dati sopra esposti hanno poco senso se non analizziamo il target che vogliamo raggiungere e ogni quanto potrebbe aver bisogno di riacquistare da noi.
Se una persona è spinta a un acquisto ricorrente di un prodotto che possediamo solo nella nostra rete, capite che potrà fare anche qualche km in più per acquistarlo.
Se apro una panetteria in franchising a quei 7 km (e 30 di strada) quando nel paese più grande ce ne sono almeno 10 più comode, capiamo bene che non ha senso mettersi a confrontarsi.
La zona dipende dal target, e dal suo bisogno del nostro prodotto o servizio
… oltre che da una serie di altri fattori.
Come scegli la zona per i tuoi franchisee, come li supporti? Come colleghi i target alla zona in cui vorresti aprire?
Nella prossima puntata ho intervistato dei professionisti di altrettanti franchising per capirlo. Se ti va di leggere il proseguo e capire meglio come, dall’interno, avvengono le scelte delle zone di apertura per gli affiliati di un franchising, iscriviti alla newsletter.
Un concorso che dice, di fatto: vi facciamo un piano di marketing con uno stagista pagato per un mese, a mio avviso, non sostiene questa filosofia, né verso il mercato, né verso gli affiliati, che meritano altro.
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Franchising: cosa significa? Nasce prima il brand o il network?
Il Franchising ha compiuto gli anni qualche giorno fa. Almeno in Italia. Pare che il primo a creare un franchising in Italia sia stata la Gamma D.I., con 55 punti vendita, il 18 settembre 1970. Non importa quanti anni abbia questo tipo di business, sta di fatto che, ancora oggi, c’è da fare un po’ di chiarezza.
Ho provato a spiegare meglio cosa sia un franchising, almeno sulla carta. Ho cercato di recuperare le varie definizioni che si trovano in giro, per dar loro un senso, ampliando il ragionamento fino a un’annosa questione: è più importante il cliente o il franchisee? Infine, ho cercato di ragionare sul perché, sia per il cliente che per il franchisee, prima di tutto sia importante far nascere il brand, e sostenerlo.
Cosa significa Franchising?
Franchising è la derivazione di una parola francese: franchise, che significa franchigia, privilegio.
Secondo Google, la definizione corretta, in italiano, è: “Contratto mediante il quale un’azienda concede il diritto di commercializzare i suoi prodotti o servizi usando il suo nome o marchio ad un’altra azienda, dietro pagamento di un canone.”
Secondo Wikipedia, invece: “Il franchising, o affiliazione commerciale, è una formula di collaborazione tra imprenditori per la produzione o distribuzione di servizi e/o beni, indicata per chi vuole avviare una nuova impresa, ma non vuole partire da zero, e preferisce affiliare la propria impresa ad un marchio già affermato.”
La legge italiana, dal canto suo, dice così, parlando di affiliazione commerciale: “contratto, comunque denominato, fra due soggetti giuridici, economicamente e giuridicamente indipendenti, in base al quale una parte concede la disponibilità all’altra, verso corrispettivo, di un insieme di diritti di proprietà industriale o intellettuale relativi a marchi, denominazioni commerciali, insegne, modelli di utilità, disegni, diritti d’autore, know how, brevetti, assistenza o consulenza tecnica e commerciale, inserendo l’affiliato in un sistema costituito da una pluralità di affiliati distribuiti sul territorio, allo scopo di commercializzare determinati beni o servizi”.
Chiaro, no? Ehm…
Gli elementi di un franchising sono dunque
- affiliazione
- marchio già esistente
- collaborazione tra imprenditori
In cui si prevedono l’uso e la fruizione di
- marchi
- modelli
- diritti d’autore
- know how
brevetti - assistenza
- consulenza tecnica e commerciale
Con scopo di
- avviare una propria impresa
- commercializzare prodotti e/o servizi
Eppure, quando usiamo questa parola, non sempre lo facciamo “a proposito”. Ci sono diverse tipologie di franchising, in Italia, e non solo, tanto che si parla di affiliazione o, in maniera più ampia, di network, alle volte addirittura, in maniera forse un po’ impropria, di network franchising.
Sotto a questi cappelli, quello che conta è il fatto che ci sia una sede centrale che, capillarmente, si distribuisce attraverso una rete, su un territorio. Di fatto, anche una rete (network) commerciale ha, se vogliamo, dinamiche simili a un franchising, laddove i franchisee sono i commerciali, appunto, che l’azienda dovrebbe attirare a sé per avere la migliore rete possibile sul mercato.
La caratteristica principale, semplificando, è quella che vi sia
un marchio che deve distribuirsi su un territorio e che, se da un lato deve trovare chi l’aiuta a farlo (la rete), deve supportare anche questa rete con una strategia capace di attrarre clienti finali verso i punti vendita, perché dia risultati utili alla sede.
Contorto? Insomma. Di fatto è un circolo.
Franchisee o cliente finale, chi viene prima?
Un brand che si deve diffondere deve essere appetibile a chi lo può diffondere ma anche a chi, attraverso quei contatti, compra i suoi prodotti, interagisce con il marchio, vi si affida e vi si fidelizza.
Dunque è più importante per un brand essere credibile e avere tanti affiliati, ovvero una rete commerciale forte, oppure avere clienti finali che rendono quella rete funzionale?
È un po’ come chiedersi se sia nato prima l’uovo o la gallina, e potremmo disquisirne all’inverosimile. È più importante avere clienti finali o una rete strutturata?
I franchising lavorano o dovrebbero lavorare su due piani: creare la capillarità e allo stesso tempo generare profitto rivolgendosi al cliente finale.
In un precedente articolo sul perché aprire in franchising abbiamo visto questo aspetto e come, nel nostro paese, non sia semplice individuare e lavorare su entrambi i clienti di un franchising.
Io credo che ci sia una questione anche etica, di fondo, da analizzare, che entra a pieno in quello che denominiamo franchising ma che spesso non lo è.
Come si struttura un franchising?
Partiamo dalla strutturazione del business.
I franchising propriamente detti sono realtà che, attraverso un contratto, affiliano degli imprenditori che si vogliono dotare di quel brand e del suo know how per aprire sul territorio.
Esistono anche formule diverse di affiliazione, ad esempio quelle in cui un franchisor partecipa in parte allo sviluppo di quella attività (franchising proprietari o in co-proprietà). In sostanza, il franchisee può detenere al 100% le quote della sua attività o condividerne una parte con il franchisor, o meglio, viceversa, è il franchisor che – in genere – concede una gestione totale o parziale, per quanto, parlando di questa tipologia di attività, sia veritiera una gestione totale.
Un brand ha diverse sedi sul territorio lo sa bene, seppur spesso applichi forme diverse di gestione. Dal lato del franchisee cambiano le tipologie di responsabilità e, internamente, cambia la tipologia di gestione e, per esperienza, la tutela del brand.
Non è facile affidare ad altri la propria immagine, laddove per immagine si intendono una serie di aspetti molto importanti di corporate identity. È un po’ come – l’ho già scritto in precedenza – affidare la propria figlia a un uomo: se sarà quello giusto per la vita, beh, per quanto ci vogliamo credere, non possiamo saperlo. Se la tratterà bene finché morte non li separi, rimane un’incognita. Se, in itinere, scoprirà che è attratto da altre donne, non possiamo saperlo. Certo, nei contratti di franchising ci sono tantissime clausole, ma per esperienza, a seconda di esse, fatta la legge, trovato l’inganno. Non è semplice da spiegare, ma sono diverse le capacità di tutela e di gestione, sia a seconda dell’affiliato, sia a seconda dell’affiliazione. E, senza entrare nel merito del tipo di contratto, cosa che magari avremo modo di approfondire in futuro, di fatto c’è anche un senso di partecipazione, derivato dagli interessi in essere e dalla modalità di affiliazione.
Esistono dei franchising, per esempio, che non occupano tutta l’attività, o che forniscono sono dei corner, all’interno delle attività già esistenti e avviate con un proprio marchio. Capita spesso che, chi vi si affilia, lo faccia per diversi interessi. Se, nello stesso punto vendita, ci sono altri corner, anche non concorrenziali fra loro, è una bella faccenda da sbrigare.
Come fai ad essere certo che il tuo affiliato valorizzerà allo stesso modo te e l’altro brand, come puoi tutelare la tua reputazione, che inevitabilmente passa attraverso la gestione di quel punto vendita?
Nel rapporto, a diverso titolo, con il cliente, ne va dell’immagine del brand, sia verso i propri clienti finali che verso i potenziali franchisee che possiamo attrarre.
Se un brand si sviluppa in questo modo, dovrà creare una rete commerciale e di supporto molto forte, offrire dei servizi, garantire uno sviluppo costante, dare supporto ai suoi franchisee. Pena, considerata l’alta concorrenza che ormai è presente in tutti i settori, che per interesse e profitto, il franchisee si rivolga altrove. Leggevo in un sito di un noto Franchising “Con il suo staff di qualificati professionisti, Calzedonia assiste l’affiliato prima e dopo l’apertura del punto vendita. Consulenti di Area e Zona (1 persona ogni 10 punti vendita circa) sono presenti periodicamente nel negozio per confrontarsi e dare consigli in collaborazione con l’azienda.”
Franchising e comunicazione interna
Io non credo che le dinamiche di affiliazione di questo tipo di settore si allontanino molto da quelle di comunicazione interna, da quella teoria che dice che le aziende di domani (oggi!) sono quelle che attirano le loro risorse, in chiave simile a quella commerciale. Ne ha accennato Annalisa Galardi nel primo articolo sul caso Carpisa, “il tema centrale è come si costruisce l’appartenenza, la fiducia in un brand di cui possa voler essere ambassador”.
Sei un professionista di valore e sai che in un’azienda si sta bene, che ti può far crescere, che fa quel che dice? Se ti ritieni capace, vuoi crescere, o semplicemente valorizzare le tue capacità, desidererai di lavorare in aziende che ti valorizzino, in cui ti puoi sentire a tuo agio, sceglierai le aziende che fanno al caso tuo. Ne parla anche Paolo Gallo, direttore risorse umane del World Economic Forum nel suo libro: La bussola del Successo. Senza star qui a parlare del volume, che consiglio a tutti, dipendenti e aziende, funziona in modo simile per i franchisee o per chi pensa di poter ampliare il proprio business: cercherò aziende che mi consentano di farlo, che siano credibili, che mi diano dei servizi, oltre che prodotti eccellenti. Una strategia di marketing per franchising dovrebbe tenere conto anche di questo.
Se un tempo un franchisor poteva preoccuparsi relativamente poco dell’operato di un suo affiliato, oggi, con la cassa di risonanza che può avere il web, se ne deve preoccupare eccome.
Questa presentazione dei franchising vuole essere una fotografia sulla situazione attuale, che avremo modo di approfondire. La modalità di affiliazione e i bisogni dietro all’apertura di un franchising, o corner franchising che sia, sono talmente tante che non basta un articolo.
Scegliere l’affiliato giusto, che diventi un brand ambassador
Capire da subito le intenzioni del proprio affiliato è la chiave, per una buona strategia di marketing. E non è facile realizzarla. Molti franchisor non se ne preoccupano, rischiando notevoli danni di immagine. E il cliente finale, seppur possiamo disquisire all’infinito su uovo e gallina, è la chiave.
Soddisfatto o insoddisfatto che sia, il cliente finale parlerà del brand, attirando potenziali affiliati o potenziali clienti, sui due piani di diffusione del franchising.
Che il negozio, o il corner, o la produzione, si trovino a Canicattì o a Trepalle, il web non ha confini, e la gente parla, specie se è insoddisfatta.
Online non esistono confini. Se hai un marchio e ne stai curando la distribuzione commerciale dovresti saperlo, e premurarti di operare affinché i tuoi affiliati siano in grado di attrarre e servire clienti soddisfatti.
Il successo di uno, in questo caso, è inevitabilmente il successo di molti.
Brand reputation di un franchising
Curare la reputazione di un brand in franchising è molto complesso, proprio per la diversità di risorse che si mettono in gioco per affiliarsi. Ne ho parlato la scorsa settimana analizzando il caso del Concorso Carpisa, che ha rischiato di minare la reputation del brand.
Strategicamente, un franchisor dovrebbe avere le antenne sempre alzate, per carpire malumori, bisogni e generare una rete che operi al meglio. Un reparto marketing ben strutturato può saperlo fare, ma potrebbe essere necessario un monitoraggio esterno, un’analisi del sentiment che va oltre le semplici recensioni, addirittura richiedendo studi sociologici o clienti misteriosi che forniscano feedback sui punti vendita.
Se stai aprendo un franchising o ne stai gestendo uno e ti ritrovi con queste problematiche, o hai compreso quanto sia importante tutelare il tuo brand, ci sono tecniche e approcci che possono aiutarti: non c’è da aver paura, semplicemente, è bene curare da subito, e in fretta, la giusta strategia di marketing e comunicazione per il tuo marchio e la tua rete.
Questo articolo tocca marginalmente argomenti più ampi sulla corporate identity di un franchising. Grazie per essere arrivato fino a qui.
Il mondo dei franchising è complesso e multisfaccettato, riassumerlo in poche righe non è semplice. Se vuoi rimanere aggiornato sui prossimi articoli sull’argomento, iscriviti alla newsletter (e, se ti va, condividi queste analisi con chi potrebbe essere interessato).
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Carpisa, un franchising che avrebbe potuto (o) voluto mettersi in gioco (seconda parte)
Parlavamo di Carpisa, nella prima parte di questo articolo sui concorsi per franchising, e di un’opportunità mancata per un franchising, di mettersi davvero in gioco e fare la differenza, facendo parlare di sé con notevoli impatti – positivi – sul suo business.
Carpisa, dicevamo, vanta staff giovane, politiche del lavoro innovative e ha fiutato, con questa iniziativa, un modo nuovo di fare un concorso. Fiutato, non sfruttato. Come mai? Cosa avrebbe potuto fare Carpisa e di cosa dovrebbero tener conto i franchising quando fanno iniziative simili?
Riprendiamo da dove eravamo rimasti…
6. La gestione di un concorso per un franchising e il ruolo dei franchisee
Innanzitutto i franchising sono realtà particolari. Come dicevo nell’articolo su Aprire in Franchising dove ho cercato di sottolineare l’importanza di capire che i macro target di un franchising sono due e possono essere ben diversi tra loro (franchisee e cliente finale), è fondamentale non dimenticare mai le azioni che si svolgono su questi due piani e programmarle in maniera strutturata.
Non entro nel merito della gestione specifica del concorso per Carpisa, di cui non posso valutare le dinamiche interne, ma mi ha molto toccato, entrando in uno dei negozi, sentire una commessa che diceva “noi abbiamo detto subito che era un’idea pessima, difatti non ne stiamo parlando per nulla ai clienti”. Mi ha colpito per due motivi, questo approccio:
- Se hai un franchising dovresti preoccuparti di come i franchisee e i loro dipendenti parlano di te. Anche questa è diffusione del brand. Non è la prima volta che nei negozi, specie delle grandi catene, sento persone che si lamentano degli orari impossibili, dei turni che precludono il tempo libero con la famiglia e cose simili. Questa cosa, però, fa male, sia al brand che a chi ci lavora, nei punti vendita. E la sede centrale dovrebbe attivare politiche di monitoraggio del sentiment interno, se vuole attrarre nuovi clienti sui due piani di cui parlavo.
- Se hai un franchising e pensi a una bellissima iniziativa per i clienti finali, dovresti per prima cosa far in modo che i tuoi franchisee la sposino e la diffondano. Un’iniziativa come un concorso, in primis. I franchisor spesso si preoccupano solo di proporre ad alcuni negozi il progetto, chiedendo loro di aderire in cambio di un costo di gestione dell’iniziativa straordinaria progettata dalla sede. Questo crea già di per sé qualche problema: in primis perchè in genere non tutti aderiscono, così da creare confusione nella clientela (come mai da te posso partecipare e da quell’altro no?); e poi perché la percezione del franchisee è che ci siano talmente tanti costi aggiuntivi caricati su di lui che un’iniziativa in più non abbia sempre il focus giusto per fare la differenza e portare nuova clientela in negozio. E torniamo lì: perché aderire?
Ripeto, questo potrebbe non essere il caso di Carpisa, visto che i franchising hanno modalità diverse di invogliare la partecipazione alle iniziative di marketing (c’è chi prevede un costo annuale fisso, chi coinvolge gli affiliati, chi invece propone costi aggiuntivi una tantum, ecc.) ma
quando una realtà con più sedi decide di operare nei confronti del cliente finale, se vuole agire come brand, deve trovare il modo che la diffusione e il coinvolgimento nel progetto sia massimo.
Mi auguro che Carpisa, almeno, abbia tentato questa strada e che tutti i negozi abbiano aderito, se non altro per coerenza. Poi, d’altro canto, mi chiedo se non sarebbe stato possibile fare una specie di sondaggio tra franchisee e loro dipendenti per capire che sentiment potesse generare l’iniziativa, che se tanto mi da tanto, viste le reazioni dell’opinione pubblica, un “due più due” avrebbero potuto farlo prima di lanciarla.
7. L’analisi, prima di tutto. Come si può sfruttare la rete per capire pro e contro di un progetto di comunicazione. Anche a costo zero
Questionario, dicevo prima, anche a costo zero. Tra i propri clienti, visto che Carpisa ha una card, ad esempio, con tutti i dati. Ma anche interno, un questionario, tra franchisee e dipendenti degli stessi, o tra i suoi dipendenti in sede. Possibile che non fosse davvero capace, un brand così attento, di comprendere se una iniziativa di marketing avrebbe potuto dare poco o molto lustro alla sua reputation?
Carpisa ha 600 punti vendita nel mondo. Quanti saranno in Italia? Chi si occupa di ricerca potrà pur dirmi che i sondaggi, per avere valore, devono abbracciare un certo numero di persone, ma io mi chiedo davvero se un’azienda che vanta di avere delle policy interne di gestione del personale di un certo tipo non si sia posta minimamente il problema di offendere i giovani con questo progetto.
Ormai non è più difficile analizzare il mercato, organizzare gruppi di ricerca, fare dei sondaggi di opinione per capire se quello che abbiamo in mente possa funzionare o meno.
Ci vengono spesso tante belle idee creative rispetto a modi inusuali di dialogare con il mercato. Funzioneranno? Come possono essere visti all’esterno? Alle volte, semplificando, possono bastare 5 minuti di dialogo con 3 persone diverse per capire che se ci fermiamo a quanto sia bello un progetto sulla carta, rischiamo di farci male. E per un franchising la questione, a mio avviso, è ancora più delicata. Il franchisor non solo ha la responsabilità dei franchisee, ma della loro reputation di fronte ai clienti e al brand, e sono strettamente correlati, considerato che
gli affiliati, nei loro negozi, sono l’avamposto del marchio, prodotto o servizio, diventano la sua carta d’identità, la sua faccia di fronte a chi compra.
Soprattutto, con i franchising con cui mi interfaccio, noto spesso questa voglia di fare cose innovative a tutti i costi, per poi scoprire, dall’analisi, che mancano attività di base come la gestione di un CRM dei clienti, la corretta gestione degli strumenti di marketing online per franchising, una carta dei valori condivisa, la capacità di analizzare il territorio per le aperture e tante altre cose che non è il caso di trattare qui.
Carpisa avrebbe dunque potuto fare un’analisi veloce e avere risposte immediate sulla fattibilità di questo concorso e i risvolti che avrebbe potuto avere sull’opinione pubblica, aggiustando il tiro prima di lanciarlo? A mio avviso sì. Come ho detto nella prima parte, questo concorso poteva essere un’opportunità.
Quando ho cominciato a valutare l’impatto sociologico di un prodotto o di un servizio, cercando di capirne il posizionamento sul mercato, anche grazie alla figura di un sociologo bolognese dell’Università di Verona che ho tanto odiato ai tempi dell’Università e tanto apprezzato, poi, sul lavoro, Domenico Secondulfo, mi si sono aperti dei mondi sulle possibilità di comunicazione dei franchising, e oggi metto sempre in discussione la percezione che posso avere io rispetto al mercato e quello che invece il mercato sente o pensa di un prodotto o di un servizio. Siamo esseri umani influenzati, a mio avviso, da tantissimi input. Viviamo però di cliché e preconcetti e non è facile farci cambiare idea su alcune cose, specie se sono radicate nella nostra cultura.
Chiederci a monte cosa rappresentiamo o possiamo rappresentare per il nostro cliente è un passo che viene ancora prima del posizionamento della nostra marca nella loro mente. Le parole chiave che ci rappresentano cosa significano per loro? Cosa significa stage per un ragazzo? Cosa significa lavoro per chi ha da 18 ai 30 anni? Cosa significa realizzare un progetto creativo e che quel progetto venga realizzato? Un giovane vorrebbe avere la possibilità di fare dei progetti per un’azienda? E come vorrebbe che gli venissero riconosciuti? Queste cose avrebbe dovuto chiedersi Carpisa, se non altro se l’obiettivo del suo concorso voleva essere quello di abbracciare quel target di mercato, i ragazzi dai 18 ai 30 anni. Quale vero obiettivo vi sia dietro a questa iniziativa e come lo stiano misurando, ahimè, non lo sapremo – forse – mai.
8. Lanciarsi nel vuoto, senza paracadute. Perchè se sviluppi il tuo brand, prima ancora di un concorso, si potrebbe pensare a investire altrove. Tra brand reputation e community management
Dicevo che vengo coinvolta in progetti molto creativi per le aziende. Concorsi, campagne spettacolari, storytelling creativi con costi imponenti. E poi scopro che gli strumenti di Facebook per i franchising non sono settati, che non ci si è chiesti come fare un piano editoriale nazionale con degli obiettivi concreti, che mancano le sedi sulle mappe di Google e che Google My Business non è mai stato impostato.
Ancora peggio, capisco che non ci sono politiche di tutela del brand nei contratti, per l’online, laddove mancano le giuste voci che parlano di utilizzo dei social e dei siti internet. Magari, ancora peggio, mi rendo conto che alcuni franchisee, sconfortati da una mancanza di gestione interna, si sono organizzati con siti propri, che hanno sviluppato progetti paralleli che possono generare forme di concorrenza interna o – anche – mettono in discussione la credibilità del franchisor agli occhi degli altri franchisee.
Io credo che oggi i franchising dovrebbero per prima cosa mettere in ordine gli strumenti e dotarsi di risorse che li aiutino a gestire in maniera organizzata e strutturata tutti gli strumenti, dall’offline all’online.
In Italia ci sono tante lacune su questi aspetti, troppe. Se un brand lascia un’immagine buona di sé verso il suo cliente finale, il cliente si rivolgerà a quel brand, esso otterrà un buon posizionamento, i franchisee arriveranno proprio perché il brand può garantire clientela di un certo tipo.
Ho visto molte lacune negli strumenti online utilizzati da Carpisa, una gestione dubbia dei CRM e della Marketing Automation, tensioni nei negozi. Ho visto gruppi su Facebook che ne parlano parecchio male, commenti online difficili da gestire, una reputation sul prodotto abbastanza dubbia.
Al di là che il concorso potesse essere una bella opportunità, io credo che prima di questo ci sarebbero state delle cosine da sistemare, e che debba essere uno degli obiettivi di tutti i franchisor, non solo per una forma di rispetto dei franchisee, che vi si affidano, ma anche per una corretta gestione della propria presenza e della propria brand reputation, su cui non possono permettersi di sgarrare.
Quello che un tempo poteva essere un punto vendita “pecora nera” in un paesino sperduto, di cui nessuno sapeva nulla, oggi, con l’online, è visto in maniera universale e influenza anche tutti gli altri franchisee.
9. Il concorso perfetto. Ecco cosa avrebbe potuto fare Carpisa, aumentando l’investimento ma, potenzialmente, incrementando visibilità e credibilità aziendale
Quale poteva essere il concorso Carpisa perfetto, dunque? Proviamo a ripercorrere un piano strategico, partendo dall’obiettivo, ipotetico.
Obiettivo: voglio ampliare la percezione del brand Carpisa verso le ragazze più giovani
Come lo raggiungo? Ho pensato al concorso per un progetto creativo sul brand di Penelope Cruz. Idea: offro uno stage a chi mi presenta il miglior progetto così con 500 euro magari ottengo qualcosa di buono. Al massimo, ci avrò perso 500 euro e i costi di gestione del concorso. Questo è quello che hanno fatto, anche con scarsa fiducia nei giovani.
Come avrei operato?
- Visto che si tratta di un concorso, avrei cercato di capire se il premio sarebbe stato allettante. A chi lo chiedo? Al target. Come lo trovo? Online, ma anche nei miei negozi o nei miei uffici, o tra i figli dei miei dipendenti o franchisee. Un po’ di pensiero laterale, please.
- Mi sarei chiesta se questo premio rispettasse i valori del brand. Uno dei dati che oggi ho in mano di Carpisa è quello relativo alle notizie, diffuse dalla stessa azienda, su politiche di HR innovative, inserimento di lavoratori giovani e apertura a un mercato del lavoro più smart e young. Insomma, non mi immagino un Big G dei franchising, con piscina interna e tanti benefit (siamo pur sempre in Italia) ma un’azienda che nel suo piccolo ha questi principi.
- Avrei cercato di capire se, fuori, vi siano iniziative simili o vi siano state e avrei chiesto a chi le ha organizzate – potendo – la loro opinione. Ci sono le società che organizzano hackhaton che sono molto preparate sul tessuto sociale dei giovanissimi e la loro predisposizione rispetto a questo tipo di iniziative.
- Dai risultati, avrei tratto spunto per trasformare il progetto in una iniziativa non solo di promozione su un target, ma di storydoing, per raccontare la mia azienda e la sua vision, oltre che il tessuto interno, sposando la comunicazione interna e quella esterna in un progetto di storytelling che andasse a raccontare non solo il pre del concorso, ma anche il durante e, dopo, lo stage, trasformando il ragazzo o – più presumibilmente – la ragazza, in una specie di testimonial “de noantri”, una persona che veramente vive l’azienda e i suoi valori e li può trasmettere. In un mese? Direi di no… ecco, quello no.
- Avrei cercato di chiedermi con dei formatori o dei coach come costruire un progetto di stage di valore, in modo che anche fuori dall’azienda, vincitore o vincitrice potessero mantenere alto il concept dell’iniziativa, anche dopo.
- Avrei cercato di capire quale fosse il vero premio in denaro adatto a quello che chiedevo.
In sostanza, come ho già accennato prima, avrei fatto un concorso diverso, dove l’analisi, che sto facendo ora ma che un colosso come Carpisa avrebbe sicuramente potuto fare a monte, trasformasse davvero un’idea in un’opportunità, non solo per il marchio ma anche per i franchisee.
Immaginiamoci un concorso tipo:
Ti piacciono le borse della collezione Cruz? Ti piacerebbe diventare il responsabile del prossimo progetto Carpisa e sviluppare un tuo piano marketing internamente all’azienda, coadiuvato dal nostro reparto marketing, per imparare veramente come avviene il lancio di un prodotto e avere la possibilità di firmarlo con il tuo nome?
Carpisa cerca te! Candidati online (senza obbligo di comprare una borsa!) e presentaci il tuo progetto, in base a questo brief (e qui un brief dettagliato). Inviaci un documento che abbia al suo interno almeno queste caratteristiche (con la definizione del formato e uno standard di presentazione, uno schema). Una giuria di esperti composta da (nomi e cognomi o quantomeno ruoli, tipo direttore marketing Carpisa, presidente, un esponente universitario, per esempio, ecc.) valuterà gli elaborati e i 10 migliori verranno chiamati in Carpisa per presentare il progetto alla giuria (spesati dall’azienda, con visita interna e presentazione delle iniziative, ecc. ecc.) che valuterà il candidato ideale per uno stage di 6 mesi per lo sviluppo del progetto, a Napoli, con rimborso spese e vitto e alloggio a carico dell’azienda. Il progetto vincitore riceverà un premio di x euro (qui da quantificare) mentre gli altri nove riceveranno dei – buoni? – da spendere in Carpisa (?) oppure altri micro premi per aver partecipato ed essere stati a Napoli, tipo (da valutare, insomma). La giuria valuterà in base a questi parametri (e giù un elencone molto chiaro). Gli obiettivi dello stage saranno … (e anche qui il valore aggiunto di dire: posso mettere nel CV di aver fatto questo tipo di esperienza, e non farò uno stage a fare fotocopie…).
A fronte di questo sarebbero stati da raccontare tutti i momenti pre, fino all’inserimento in azienda dello stagista e una specie di diario di bordo delle sue giornate.
Costoso? Complesso? Certo! Ma quanto verranno pagate le Cruz per mettere la loro firma su una linea di borse? Io credo che al di là del progetto il valore aggiunto di un concorso simile vada ben oltre un tentativo di dialogo con questo target. Quanti marketer, riviste, giornali, avrebbero potuto parlare dell’iniziativa, se l’avessero realizzata così?
10. Purché se ne parli. Ha stancato. Ma funziona?
Ormai è risaputo che il trend degli haters è uno dei nuovi trend delle strategie di marketing e che ci sono delle iniziative che nascono dalla conoscenza delle dinamiche dell’ingerenza dell’opinione pubblica per lanciare un prodotto o un’iniziativa e farne parlare più a lungo possibile. Ne abbiamo disquisito a lungo sul caso Buondì Motta, che non è la sede giusta per parlarne, e sinceramente non vorrei qui arrivare a creare una parentesi così lunga da abbracciare anche questa tematica.
Io non credo, per la reazione di Carpisa, che questo sia uno di quei casi in cui si è deciso di far leva sugli haters per trascinare un pubblico. Si entra troppo in un ambito delicato come quello del lavoro su cui i giovani non vogliono per nulla scherzare.
Vedremo se Carpisa saprà cavalcare l’onda, trasformare questo miserrimo mese in una vera opportunità per ribaltare la percezione che continua a persistere di questo concorso. Vedremo se, tra tante righe scritte in merito, oltre che rispondere con poche righe da ufficio stampa, sarà in grado di ribaltare una percezione diffusa, che passa dallo sfruttamento di chi lavora nei negozi e arriva a uno stage sottodimensionato per ripagare un’idea.
Vedremo, dicevo, perché le iniziative di marketing vanno comunque valutate sui numeri, e sono pronta a ricredermi, che magari il tessuto sociale intorno a Carpisa si sia mosso in maniera proattiva rispetto a questo progetto.
Al di là di questo, per costi, modalità, gestione, approccio, non avrei mai proposto un’iniziativa così, come l’abbiamo vista sulla carta, a un mio cliente, specie se si tratta di un franchising, laddove spesso anche i franchisor più attivi e capaci vengono visti con sospetto perché è ormai diffuso che i franchisee vengono attratti, carpiti, contrattualizzati e poi abbandonati al loro destino.
Se un franchising in Italia vuole fare la differenza credo debba passare dalla percezione della gestione dei suoi franchisee, offrendo strategie locali di creazione della clientela e sua fidelizzazione,
accompagnando un imprenditore a diventare tale, dando tutti gli strumenti a chi si fa da promotore del suo brand sul territorio per avere introiti tali da giustificare l’investimento, creando dinamiche di partecipazione e coinvolgimento che siano in grado di supportare anche i franchisee meno attivi, come in una famiglia, in cui proprio perché si crede nel brand, si sostiene chi lo porta all’esterno.
Un concorso che dice, di fatto: vi facciamo un piano di marketing con uno stagista pagato per un mese, a mio avviso, non sostiene questa filosofia, né verso il mercato, né verso gli affiliati, che meritano altro.
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Carpisa, un franchising che avrebbe potuto (o) voluto mettersi in gioco (prima parte)
Più che Carpisa, un franchising che avrebbe voluto mettersi in gioco, questo articolo potrebbe intitolarsi: la dignità del lavoro e lo stage all’ufficio marketing di Carpisa. E tutti vi aspetterete che, data l’indignazione generale sul tema, io mi accodi al ben-pensare generale.
Questo articolo, da questo punto di vista, deluderà.
Mi sono decisa a parlare di Carpisa e del suo concorso tanto discusso solo perchè è per me uno spunto per parlare di strategie di marketing per franchising che, in questo caso, a dirla tutta, strizza l’occhio non solo ai network.
Non voglio mettermi a discutere sulla strategia di Carpisa, sui suoi fatturati, sull’espansione di un marchio che in pochi anni ha raggiunto i 600 punti vendita e conquistato il mondo con le sue borse. Se sono arrivati fino a qui, è palese che qualcosa di buono e strategico lo abbiano fatto.
Aprire un franchising non è facile, pensare di svilupparlo ancora meno, far in modo che i negozi traggano profitto e si distinguano nei luoghi in cui vengono aperti, non è scontato.
Quello che mi preme analizzare rispetto a Carpisa è la mancata occasione di raccontare e raccontarsi.
In questi ultimi tempi, anche se c’è un po’ di confusione in merito, è – di fatto, per usare termini “markettari” – la mancata occasione di fare “storytelling” e “storydoing”. Cercherò dunque di fare da subito ordine, spiegando il mio punto di vista sul progetto, con una nota finale: questi soldi avrebbero potuto investirli meglio o altrove?
Beh, dall’analisi di Carpisa qualche strategia strutturale poteva venir fuori, prima di un concorso, apparentemente, abbozzato. E, così dall’esterno, pare che Carpisa abbia optato per la tanto agognata visibilità senza tener conto di un’analisi sociologica iniziale che avrebbe potuto creare una vera opportunità per il marchio (sia chiaro, non penso minimamente che dopo questo fail avranno gravi ripercussioni, semplicemente che avrebbero potuto sfruttare alla grande un’opportunità, segnando in qualche modo “una storia”).
Vediamo dunque quali sono gli aspetti che ho analizzato e andremo ad analizzare.
- L’idea. Un concorso che sia qualcosa di diverso. Dagli hackaton a Carpisa, qualcosa di innovativo c’è, per fortuna, e si può fare.
- Storydoing. La possibilità di un brand di raccontarsi dall’interno, senza favolette. Se puoi farlo, ci puoi costruire dell’ottimo storytelling funzionale ad attirare franchisee e clienti.
- Il lavoro, e la dignità. Perché poteva essere una possibilità invece di apparire come puro sfruttamento.
- Le idee si pagano. Quanto? Come? Possibili sviluppi.
- I concorsi, nel piano di marketing. Utili? Inutili? Ma quanto costano?
- La gestione di un concorso per un franchising e il ruolo dei franchisee
- L’analisi, prima di tutto. Come si può sfruttare la rete per capire pro e contro di un progetto di comunicazione. Anche a costo zero.
- Lanciarsi nel vuoto, senza paracadute. Perché se sviluppi il tuo brand, prima ancora di un concorso, si potrebbe pensare a investire altrove. Tra brand reputation e community management, specie in caso di crisi (reale o presunta).
- Il concorso perfetto. Ecco cosa avrebbe potuto fare Carpisa, aumentando l’investimento ma, potenzialmente, incrementando visibilità e credibilità aziendale.
- Purché se ne parli. Ha stancato, anche se talvolta funziona.
1. L’idea. Un concorso che sia qualcosa di diverso. Dagli hackaton a Carpisa, qualcosa di innovativo c’è, per fortuna, e si può fare.
Concorsi, concorsi, concorsi, e poi gare. Che senso hanno per un brand? Spesso, senza una giusta strategia, hanno senso solo per far perdere tanto denaro. Ho visto, negli anni in agenzia, avviare concorsi senza un piano strategico. Promozione, raccolta dati, estrazione. Stop. Come finalizzare poi tutta quella mole di dati?
Le agenzie che creavano i concorsi, anche quando sono stata in azienda, non mi hanno quasi mai fornito una visione così a lungo termine: tutto si fermava alla consegna del premio.
Veniamo ai concorsi di idee, a quelli che sono concorsi per il coinvolgimento di persone, attivamente, in un progetto. Non stupiamoci se esistono, perché ci sono dalla notte dei tempi. Anzi, se non erro – non sono un’esperta e lascio spesso a società più preparate la gestione di questa cosa burocraticamente molto complessa – esistono proprio dei concorsi in cui portare un’idea, qualcosa di creativo, non comporta tutto l’iter tradizionale con versamenti di fideiussioni e coinvolgimenti di notai. Semplicemente, le persone, presentano un pezzo musicale, un testo scritto, un ballo, un dipinto, una foto e, per aver messo in campo la loro opera intellettuale ricevono un compenso.
Il caso di Carpisa, apparentemente, sembra questo.
È il caso anche di molti di quelli che stanno diventando sempre più di moda, oggi: gli hakathon e i concorsi di idee. Si tratta di weekend, per lo più, in cui gruppi di persone passano molte ore (anche due o tre giorni) insieme per sviluppare un’idea o un progetto per un brand. Chi vince, prende un premio, alle volte in denaro, altre in altri generi di benefit. Esistono anche per ricevere denaro per propri progetti: li sviluppi sempre nel weekend e poi lo sponsor di turno o la società che ha deciso di investire in questa iniziativa, ti dà un supporto per queste cose.
Personalmente, ho partecipato a una call for ideas lo scorso aprile, a Verona, per un noto brand assicurativo. Il gruppo vincitore ha ricevuto un premio di 5.000 euro, se non ricordo male (non era il mio, ahimè, anche se ce la siamo cavata benone dopo quasi 48 ore senza dormire). Non vedo grandi differenze in quanto proposto da Carpisa, se non con le dovute critiche sulle modalità di approccio e di sviluppo che vedremo andando avanti.
Di fatto, non ci vedo nulla di male se un brand decide di coinvolgere dei giovani in un progetto e poi lo paga:
succede anche all’università o in altri contesti e in America avviene da sempre… che poi qualcuno in Italia ne approfitti è un altro paio di maniche… non parliamo del lavoro di alcuni ricercatori che esce a nome del professore di turno, vero?
Di certo, invece del solito concorso in cui si vince un viaggio – apprezzatissimo, per carità – qui si è provato a fare sviluppo. Un’azienda che si mette in gioco, che apre le porte, che si fa conoscere anche per la parte lavorativa.
Cosa mancava rispetto agli hakathon americani? Ho chiesto un parere a chi lavora con progetti simili, focalizzati sui giovani, da “qualche” anno.
“Trovo interessante e di valore l’idea di Carpisa, se fossi un giovane in target vorrei assolutamente cogliere quest’ opportunità”, dice Sara che oggi segue molti giovani in cerca di opportunità professionale che desiderano lavorare allo sviluppo continuo della propria impiegabilità. “Se fossi un giovane interessato al concorso, son certa ce ne siano molti, però mi potrebbero essere utili alcune ulteriori informazioni e specifiche che non risultano immediatamente chiare.
Mi sarebbe utile ad esempio conoscere quali saranno gli indicatori precisi sui quali si basa la valutazione del progetto: cosa si intende esattamente per qualità? Conoscere gli indicatori mi aiuterebbe infatti a tarare al meglio il mio lavoro e a confidare in un processo “scientifico” di valutazione che penserei quindi non solo come frutto di “mera” discrezionalità, benché assolutamente lecita. A meno che il criterio sia proprio quello di stupire e rischiare senza precisi indicatori di risultato, ma anche in questo caso mi piacerebbe che ci fosse una chiara dichiarazione di intenti.
Oggi, inoltre, ai giovani in cerca di opportunità professionali viene sempre più richiesto di identificare in sé e nella propria esperienza quelle caratteristiche e competenze distintive che possono fare la differenza per essere “il candidato giusto” per quella specifica posizione e anche in questo caso, se fossi un potenziale candidato, mi sarebbe utile qualche specifica in più sulle capabilities e le caratteristiche richieste per la posizione offerta. Insomma, vorrei giocarmi al meglio l’opportunità su tutti i fronti e non lasciar nulla al caso nella mia proposta di valore.
Troppo spesso raccolgo dai giovani che incontro e che seguo la percezione di un mercato del lavoro che sfrutta, prendendo le tue energie e anche le tue idee senza restituirti nulla ma soprattutto senza poi coinvolgerti in un percorso di crescita e di sviluppo reale.
Molte volte è così che purtroppo vengono lette da parte loro le iniziative di open innovation, call4Ideas etc quando, anche con le migliori intenzioni da parte di aziende serie e solide come in questo caso,
si tralascia di essere più trasparenti e chiari possibili nelle richieste e nell’offerta di opportunità, rischiando il boomerang di una leva di reputation che, specie quando si parla con i giovani, può tornare indietro tanto velocemente.
Ma in tutto questo… nulla impedisce ai giovani interessati e che magari stanno leggendo queste mie riflessioni di mostrare intraprendenza, proattività e reale motivazione per chiamare, scrivere a Carpisa per reperire tutte quelle informazioni che potrebbero farvi essere IL CANDIDATO!”
Una bella idea, dunque, con un alto potenziale, sviluppata male.
2. Storydoing. La possibilità di un brand di raccontarsi dall’interno, senza favolette. Se puoi farlo, ci puoi costruire dell’ottimo storytelling funzionale ad attirare franchisee e clienti
Si parla di franchising, di aziende, e di potenziale. Si parla, negli ultimi tempi, anche di storydoing.
Attenzione! Storytelling e Storydoing sono cose ben diverse.
Ho cercato di capirlo da una delle esperte italiane della materia, che presenterà l’argomento al prossimo festival della Comunicazione di Camogli, questo weekend, Annalisa Galardi. Cerco di esprimere al meglio quello che, tradotto in parole semplici, è un argomento molto complesso, in realtà, specie nel suo sviluppo operativo, etico, consapevole. Qui si cambiano veramente le aziende, dal basso, dall’interno.
In pratica, storytelling è il racconto di un’impresa, una favola. Può essere vera, ispirata al vero, inventata. Si possono raccontare valori, pensieri, storie di antenati o di attività presenti. Non è detto che siano vere. Certo, se un’azienda lo fa bene devono essere almeno coerenti, perché se narro all’esterno che tutto va bene e che l’azienda è la migliore del mondo ma all’interno ci sono casse integrazioni e situazioni di disagio, beh, anche se provo a nasconderle, prima o poi… con notevole ricaduta di immagine.
Lo storydoing invece è il fare, l’operare fin dall’interno per creare una storia. Olivetti, in sostanza, faceva storydoing. Lo storytelling ne è un suo strumento, in sostanza. Diciamo che, per farla semplice – e non me ne voglia la dott.ssa Galardi –
potremo dire che lo Storytelling è un film, lo storydoing è un documentario, se vivono separatamente. Se li facciamo coesistere, come lei fa con i suoi clienti, lo storytelling diventa il regista giusto per raccontare in maniera efficace la storia (vera).
Cosa c’entrano Storytelling e Storydoing con un franchising come Carpisa che lancia un concorso per l’assunzione di uno stagista? Dal mio punto di vista inserire una persona in azienda può essere un’ottima occasione per fare queste attività e dimostrare – a onor del vero – che quello che si scrive dell’azienda che sta dietro a questo marcio (staff giovane, ambiente dinamico, ecc.) è vero. Con notevoli ricadute positive sul brand.
Ho chiesto ad Annalisa di darmi il suo punto di vista sull’iniziativa. Cosa avrebbe potuto fare Carpisa per dare valore a questo progetto, per davvero, come opportunità? Ci sono dinamiche che un franchising potrebbe trarre dallo storydoing, e come, secondo te, si riversare su franchisee e clientela?
“Come compare scritto nel sito di Carpisa, l’azienda si vuole presentare come “Un gruppo in cui tutti sono attori e sentono partecipi di una storia vincente”.
Le storydoing companies sono proprio le aziende vincenti, che “fanno la storia” e generano appartenenza nei clienti e, nel caso di franchising, nei franchisee.
Quindi il tema centrale è come si costruisce l’appartenenza, la fiducia in un brand di cui possa voler essere ambassador. Metterei in evidenza almeno due caratteristiche: autenticità e rilevanza.
C’è un grande bisogno di autenticità e verità, tanto che il “basta che se ne parli” non regge più.
Ed essere autentici e veri è faticoso perché ci richiede uno sforzo costante, oltre il racconto, oltre a quello che è scritto sul sito e che ho formato i venditori perché sappiano esporlo in modo efficace. Per questo lo storydoing è un approccio strategico che inizia a monte rispetto a quando solitamente si attiva un’agenzia di comunicazione per il lancio di un prodotto o di un’iniziativa. La coerenza tra quello che diciamo e quello che facciamo è proprio la chiave per la costruzione di un commitment profondo, che ci tiene legati non solo per convenienza. In un flusso che parte dall’interno dell’organizzazione per portarsi fuori, guadagnando forza e credibilità.
La rilevanza riguarda invece la capacità di leggere gli interlocutori e il contesto in cui si opera. Solo se la mia storia incontra la storia dei miei “pubblici” e li aiuta a far evolvere la propria narrazione, le persone a cui mi rivolgo saranno le prime a sostenermi. In un’epoca in cui la sensibilità per nuove modalità consumo si è fatta strada, un brand come Patagonia – ad esempio – ha potuto lanciare la una campagna pubblicitaria si invitano le persone a comprare una nuova giacca solo se ne hanno davvero bisogno. Chi si avvicina a quel brand, compra un prodotto e la sua storia e ne acquista forza per la propria storia personale.
Insomma,
un franchising potrebbe trarre spunto da queste riflessioni per costruire un solido legame con i franchisee e, attraverso di loro, coi propri clienti rafforzando la consapevolezza della propria core story,
invitandoli a tradurla in azioni capaci di darle forza e in un racconto caldo e coinvolgente. Non dovrebbe, poi, mai mancare un’attenta lettura del contesto e degli interlocutori per costruire narrazioni che possano far crescere sia la storia del brand sia quella di chi lo sostiene. A partire dalle proprie persone.”
Un’altra opportunità persa, insomma. Peccato.
3. Il lavoro, e la dignità. Perché poteva essere una possibilità invece di apparire come puro sfruttamento.
Lavoro, opportunità. Ne parliamo ogni giorno ma, per un giovane, continuano lo stesso a brulicare gli annunci in cui si richiedono tot anni di esperienza oppure le esperienze che ti mettono a dura prova con salari ridicoli, se non, addirittura, in stage non pagati.
Il lavoro va pagato. In Italia abbiamo questo strano principio del risparmio su quello che fanno… gli altri.
I giovani, d’altro canto, l’ho visto nella collaborazione con Progetto di Vita, realtà veronese che si occupa della creazione di percorsi di sviluppo per studenti, laureati e lavoratori tra i 18 e i 35 anni, sono ormai disillusi da un ambiente che non premia più nessuno, da uno sfruttamento diffuso, dalla difficoltà di crearsi delle prospettive.
Oggi come oggi, inserire giovani in azienda non sempre viene vista come un’opportunità, ma come un risparmio rispetto all’inserimento di figure senior, con notevole impoverimento, spesso, dei contenuti dell’azienda.
Laddove c’è equilibrio si crea spesso una magia.
Non è facile, però, costruirsi le opportunità giuste e l’università non ci prepara affatto alla costruzione di un personal branding e di un network che sia funzionale alla nostra carriera. C’è chi si fa da sé, chi invece va all’estero.
E chi rimane e ha ottime qualità ma non le sa spendere sul mercato? Potrebbe trarre beneficio da un concorso come questo? Io penso di sì.
Penso però, anche, che un mese di stage sia una cosa ridicola. Come si fa a sviluppare un progetto in un mese, cercando di imparare qualcosa? L’errore più grande, in questo senso, specie perché il bando era per giovani tra i 20 e i 30 anni (velatamente una ricerca di un apprendista?!?) è quello di dare un tempo così ristretto al vincitore. 500 euro al mese, con vitto e alloggio (anche per il weekend) per 6 mesi. Come l’avrebbe vista il mondo del lavoro, là fuori? Magari abbassando l’età: 20-25 anni… 20-27… Quanto pagano certi stage, facendoti fare solo fotocopie? Manca però un tassello, lo ha evidenziato Sara, sopra: cosa imparerò durante lo stage? Di fatto, di un mese o di 6, lo stage dovrebbe essere, cito L’Accademia della Crusca, “un periodo di formazione o perfezionamento professionale trascorso presso un’università o un’azienda, in particolare per acquisire la preparazione professionale necessaria a svolgere un’attività”. Formazione. Perfezionamento. Preparazione. Come me li dai? Ripeto, che sia un mese o un anno, devono essere chiari gli obiettivi. Senza, potrei pensare anche di fare fotocopie. Per altro, nota a margine, nessuno cita nel regolamento che verrà dato seguito al progetto proposto, durante questo fatidico stage…
Ho chiesto, in questo caso, ad Emiliano Galati, segretario regionale Felsa Cisl (Federazione lavoratori somministrati autonomi atipici), che si occupa del monitoraggio, tutela e informazione di tutti i lavori di domani, dal lavoro somministrato alla Partita IVA. Cosa pensi di questo bando e lo vedresti un modo diverso di fare una selezione in azienda, se avesse le carte in regola?
Penso che lo stage sia per definizione un periodo di formazione sul campo che deve però essere ben distinto dall’attività lavorativa vera e propria.
4. Le idee si pagano. Quanto? Come?
Di questo argomento si è sempre discusso moltissimo. Portami un’idea poi vedo se mi va bene, te la approvo e te la pago, semmai. Quanti potenziali clienti fanno così?
L’idea in realtà è qualcosa di preziosissimo e spesso inquantificabile.
Nella vita continuano a venirci idee, spesso buone, altre volte meno. Se qualcuno ci presenta un’idea di comunicazione e marketing, che abbia un senso rispetto a un brief iniziale, il suo lavoro va retribuito. Questa persona avrà investito tempo, alle volte anche denaro, nella realizzazione dell’idea. Quanto la valuto? Non di certo uno stage a 500 euro.
A mio modesto avviso qui andava pagata l’idea. Poi lo stage, ma intanto il vincitore doveva ricevere il premio per la miglior idea. A meno che, visto quanto dicevo prima, l’azienda non creda che usciranno idee interessanti – e a pensar male, spesso… – ovvero che i giovani in questione non saranno in grado di formulare qualcosa di utile. In effetti, non dice che l’idea sarà sviluppata nel fatidico mese, non si propone di dargli un seguito. Io me li vedo i direttori marketing che pensano che usciranno delle cavolate… invece spero saranno sorpresi, me lo auguro tanto.
5. I concorsi, nel piano di marketing. Utili? Inutili? Ma quanto costano?
I concorsi hanno senso nel piano marketing e i concorsi per franchisee, di cui parleremo nella seconda parte di questo articolo, come vanno trattai?
I concorsi sono strumenti di scoperta importanti e interessanti. Ma sono davvero utili e, soprattutto, al di là di quelli di cui abbiamo parlato in precedenza, quanto costano? I concorsi costano tanto. Innanzitutto costano perché la legge italiana è complessa ed è un attimo sbagliare e trovarsi sanzioni elevatissime.
Quindi, per fare bene un concorso c’è da affidarsi a un esperto, o a un’agenzia che fa solo quello.
Anche un avvocato può essere utile, da coinvolgere. Poi ci sarà da interpellare il notaio, da investire tempo nella creazione dei contenuti, da mettere risorse nella ricerca del premio o dei premi. Tanti soldi, insomma, dall’inizio, più le risorse interne. Da ultimo, ma non per importanza, la promozione. Per far vivere un concorso e ottenere i risultati sperati, va promosso. E per promozione non intendo solo le ads di Facebook o la campagna in TV o sulla carta stampata. Per promozione intendo far conoscere in ogni dove del concorso, a qualsiasi persona, anche rivisitando i pack di un prodotto, se necessario, per inserire il concorso (e in un franchising questa operazione deve coinvolgere anche i franchisee e prepararli attentamente). Consulenza, premi, promozione,… anche se costa meno la parte iniziale, funzionano ovunque, hanno un costo comunque.
Quanto sarà? Un concorso ben fatto può costare sui 3000 euro, a mio avviso, di sola consulenza (sto andando a memoria di certe operazioni seguite, non me ne vogliano gli esperti del settore).
La promozione va calibrata in base al tempo, compresi i costi vivi di click e ads.
Se hai un franchising, poi, questo costo come lo gestisci? Si spalma nel piano annuale di marketing degli affiliati, che è già esiguo, in genere? Faccio fatica a vederla come una mossa strategica…
I punti che ho sviluppato sono molti più di questi ma per leggibilità uscirà nei prossimi giorni il secondo articolo per approfondirli… sei curioso? Iscriviti alla mia newsletter o seguimi su Facebook e LinkedIn. A presto!
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Aprire in franchising, con te, ma perché? Chi sono i tuoi clienti?
Franchising, e clienti. Quanti e quali sono? Qual è il tuo target?
I Franchising hanno dinamiche strane, rispetto agli altri business, perché hanno due tipologie di clienti: i franchisee e i clienti dei franchisee. Spesso i master franchisor si concentrano solo sui franchisee, dimenticando i clienti finali.
Proviamo a capire cosa muove un franchisee, partendo da un’esperienza pratica: lo scorso Salone del Franchising di Milano. Vedremo insieme, con qualche riflessione:
- le leve che muovono un potenziale franchisee
- la zona dove apre e la confusione di alcuni franchisor
- i motivi per cui il cliente finale attrae anche nuovi franchisee, aiutando lo sviluppo della rete
Perché le persone pensano al franchising?
Aprire una propria attività, scegliere di mettersi in proprio, magari realizzare il desiderio di una vita, oppure cercare la strada per una vita diversa da quella impiegatizia. Negli ultimi anni, dal 2008 in poi, anno fatidico di quella che ormai – è certo – non si può più chiamare solo crisi, sono molti gli italiani che hanno pensato che era giunto il momento, o era necessario, mettersi in proprio, cambiare. Verso cosa?
Sono aumentate, esponenzialmente, le richieste di aprire in franchising. Se hai un brand che si sviluppa su più sedi, dovresti saperlo.
Quale strada percorrere per aprire in franchising?
Una conoscenza un tempo mi disse: se hai un entourage di dipendenti, difficile che ti siano utili per capire come metterti in proprio.
Se vuoi consigli per fare l’imprenditore, chiedi a un imprenditore di successo.
Sacrosante parole. Sei un franchisor? Ci hai mai riflettuto?
Se il sogno imprenditoriale dei tuoi potenziali clienti è quello di avere un negozio, un ristorante, un bar, stando a contatto con il pubblico, vedendo quotidianamente i risultati del proprio operato, ma a casa propria non c’è nessuno che li aiuti a capire come fare, non è semplice.
Franchising come possibilità di mettersi in proprio…
Ho collaborato con una realtà che si occupa di aiutare i giovani a creare il proprio progetto di vita. Lì ti consigliano di metterti in contatto con qualcuno che diventi il tuo mentore. Facile? Difficile? Non così tanto come può sembrare, l’ho provato sulla mia pelle. Sta di fatto che la cosa migliore sarebbe poter provare, fare il vecchio lavoro del garzone di bottega. In realtà, molti ambiti hanno ancora questa dinamica, basti pensare ai parrucchieri, alle estetiste, ai muratori, ecc. In questi lavori è abbastanza comune cominciare da apprendisti (non solo contrattualmente, ma con il vero valore che il termine ha) e poi, raggiunta una certa indipendenza o una consolidata sicurezza (alle volte anche solo economica), aprire qualcosa in proprio. Se si è stati fortunati, in genere, si sono apprese non solo le tecniche del mestiere, ma anche capacità imprenditoriali come gestione dei conti, della comunicazione, delle vendite, ecc.
Lo so, non sempre è così. Idealmente lo era un tempo e dovrebbe esserlo ora.
Questo articolo lo scrivo dall’Irlanda, dove ci sono tante esperienze (experience = visite) nelle fabbriche delle birre e del whiskey. In ognuna di esse ti viene mostrata l’arte del bottaio: 7 o più anni di prove e riprove per smarcarsi dal maestro e poter lavorare in proprio (alle volte sposandone la figlia). Si chiama anche passaggio generazionale, e un tempo non veniva fatto solo coi propri figli.
OK, chiudiamo la parentesi “apprendistato”.
Cosa succede se qualcuno le caratteristiche per fare l’imprenditore non ce le ha? O meglio, se non si sente pronto? Personalmente credo fermamente che non si nasca qualcosa o qualcuno, ma che si sia in un divenire di mutazioni e cambiamenti che ci portano a costruire cosa siamo, in base a quello che desideriamo. Chiudiamo anche questa parentesi, altrimenti divento troppo filosofica.
Ho una mia teoria, dunque, non comprovata, spesso, ahimè, dai fatti, che se si ha quella spinta interiore a fare qualcosa di diverso e mettersi in proprio e non se ne ha il coraggio, ancora, il franchising sia un passaggio intermedio di aiuto. Uso il condizionale, d’obbligo, perché dopo aver studiato il sistema dei network franchising americani, qualche dubbio sull’impostazione di quelli italiani mi è venuto.
Ho avuto la fortuna di lavorare per un po’ di anni per un franchising che, per fortuna – dicevo -, ha un approccio formativo, di squadra, verso i propri franchisee, ma guardandomi intorno, quando ho scelto di fare da consulente per le aziende di questo settore, in particolare per quelle con una rete di filiali sul territorio, devo dire che sono rimasta basita.
Il Salone del Franchising e i fuffa – franchisor
Lo shock più grande mi è arrivato dal Salone del Franchising dello scorso anno.
Mi occupo di marketing per franchising da tanto tempo e ho raggiunto la consapevolezza che i franchising siano un mondo molto particolare, in cui si incrociano due livelli di comunicazione, branding e target. A spiegarlo fuori dall’Italia si tratta di ovvietà, ma qui da noi, per nulla, e in fiera ne ho avuto la dimostrazione.
Cosa ho fatto? Beh, come per ogni fiera che si rispetti, ho girato molto, raccolto brochure, fatto domande. Inizialmente avevo un approccio più commerciale, poi ho scelto di fare qualcosa di diverso: fingermi un potenziale franchisee.
Mi sono detta: e se mi mettessi nei panni del mio potenziale affiliato?
Mettersi nei panni del proprio cliente, analizzando il suo processo di acquisto, è una cosa che dovrebbero fare tutte le aziende
e che trovi spiegata molto bene nel libro che suggerisco a tutti gli imprenditori con cui mi confronto, scritto da due dei miei “mentori” (non me ne vogliano se li chiamo così), Manuel Faè e Alessandro sportelli (Il succo del Web Marketing).
Mettersi nei panni del proprio affiliato
Dunque, io sono un cliente esigente, o meglio ho una mia idea del cliente ideale del franchising. Giusta o sbagliata, dovendo percorrerne una, ho scelto questa: persona che si informa, legge, studia, approfondisce tecniche di vendita e di comunicazione e che ha questa spinta primordiale nella pancia verso la voglia di avere qualcosa di suo. Mi sono così approcciata ai vari stand per chiedere informazioni. Quando dicevo che avevo intenzione di aprire, tutti molto molto disponibili, ovviamente. Poi arrivava il momento di chiedere per la zona. Qui già cominciavano le prime falle del sistema: pochi mi sapevano dire se avrei avuto esclusiva o meno, alcuni me la garantivano a parole ma non mi assicuravano una formula scritta, altri mi dicevano che era così da contratto ma con clausola di modifica nel caso in cui il franchising si fosse espanso.
Quale bacino serve al tuo franchisee per aprire?
Prima nota quindi: quale bacino serve al tuo franchisee per aprire? Quale target dovrebbe raggiungere? In che zona si trova il target e come puoi fare per aiutarlo a capire se sia giusta o meno la zona che ti propone?
Io credo che questa sia una cosa basilare, no? Una delle idee che avevo, fin dall’inizio, sui franchising, è che dovrebbero aiutarti a fare una cosa ottimale per il business che vuoi aprire, che è anche sinonimo di protezione del proprio brand.
Avete mai visto cosa fanno le grandi catene di supermercati, per esempio? Guardate un po’ la pagina di Lidl, o spulciate i giornali, talvolta.
Se Lidl ha individuato un bacino ottimale per l’apertura di uno dei suoi store si attiva per cercare capannoni o aree edificabili per realizzarlo. Viceversa, altri Super o colossi del settore, valutano l’area e decidono se poi aprire. Guarda caso, in quelle aree poi ci nascono degli interessanti poli commerciali, buoni o cattivi per l’economia locale, che siano.
Insomma, dietro al reparto sviluppo di big brand come Lidl, Esselunga, McDonald e altri, ci sono servizi di ricerca delle aree, di studio del territorio, ecc.
Come si fa a capire se quella zona è ok o meno per dare l’ok all’apertura al proprio potenziale franchisee?
Beh, ci sono delle società di consulenza che fanno questi studi. Costano. Certo. Però, di fronte alle risposte vaghe e disomogenee degli imprenditori o commerciali incontrati al Salone del Franchising, che dire? Io credo che il gioco valga la candela.
Ad ogni modo, ogni tanto mi chiedo come si facesse un tempo, quando internet non aiutava. Ebbene, interpellando qualche commerciale con un paio di annetti di esperienza sulle spalle, ho scoperto che un tempo i costi di apertura di un franchising o di un supermercato erano ancora più elevati, se paragonati a quelli odierni.
Di fatto la persona che si occupava dello sviluppo andava fisicamente nella zona in cui si doveva aprire, la studiava, andava nelle biblioteche e negli archivi (questi sconosciuti) a documentarsi sul tessuto sociale ed economico di quel territorio, studiava la sezione economica dei giornali locali, con un occhio a qualche articolo interessante, se presente, a livello nazionale.
E poi chiedeva: si facevano dei sondaggi, per capire meglio quale fosse l’impatto di una nuova attività su quell’area, come fossero gli introiti di realtà simili nella zona, ecc.
Qualsiasi informazione era utile per stendere una relazione ineccepibile per la sede, con un verdetto finale: apriamo o no?
Oggi ci sono i software, le società di consulenza, alcune per altro, molto competenti. Ci sono anche gli archivi online, libri, giornali, notizie e, spesso, i quotidiani locali hanno un sito con molte news. Alla luce di questo si può dunque capire fin da subito se ci sia un tessuto interessante per muovere un’attività verso quel paese o quella zona? Io direi di sì.
I due target di un franchising
Alla base, però, c’è da tener conto del target. L’affiliato? No!
Il cliente dell’affiliato. Almeno principalmente.
I franchising, ma qualsiasi realtà con più sedi, hanno due anime: una rivolta a chi li aiuta a svilupparsi, gli affiliati, o soci, o franchisee; l’altra rivolta a chi aiuterà loro a campare, ovvero il cliente finale.
Senza cliente finale non sussisteranno i negozi, senza negozi che si sostengono anche il franchising morirà.
È così difficile da comprendere?
Franchisee e suo cliente: queste due anime possono essere spesso molto differenti e distanti.
Se, ad esempio, ho una catena di negozi per bimbi, non è detto che l’imprenditore che apre con me debba essere una mamma. Il mio cliente finale, invece, per lo più lo sarà. Certo, il canale mamme/bimbi è più facile, ma anche molto competitivo e saturo, direi.
Come si fa a capire il target di un negozio in franchising?
Si analizza, tutto.
In azienda spesso si detengono dati che nemmeno si immaginava di avere, o – se non ci sono – semplicemente si fa ricerca, una sana ricerca.
Se un brand che apre in franchising non si muove in questo senso, eticamente, ha qualche problema. Una delle ricerche online che ho incrociato spesso riguarda “causa contro franchising”. Non servono spiegazioni ulteriori – vero? – per capire che nel nostro paese ci sono più attività che aprono solo con l’intento mordi e fuggi (o piglia i soldi e scappa) che franchisor intenzionati a crescere, mantenersi, far davvero in modo che i propri franchisee aumentino i loro fatturati, raggiungano il break even e diano buon lustro al marchio che portano. Lo ha dimostrato la mia visita al salone.
La promozione di un affiliato sul territorio
In una fase successiva a quella di richiesta di apertura ho cercato di capire come si svolgesse la promozione sul territorio della nuova attività aperta. Purtroppo, ho ricevuto molte idee e poche strategie: chi mi diceva che fanno advertising, chi affermava che avrebbero dato in mano a un’agenzia, chi, con supponenza, mi rispondeva solo con “certo, il nostro reparto marketing fa promozione!”. Quando ho cercato di approfondire sul fatidico reparto marketing, sul tipo di promozione, o sulla strategia, nulla, il vuoto più assoluto. E questo capitava sia per le startup che per i franchising con qualche anno sulle spalle.
Certo, diversa sarà la situazione in cui i franchisor mettono degli investimenti nei negozi. Io in questo momento parlo di franchising con richiesta di investimento totale da parte dal potenziale imprenditore. Un tempo si parlava di win win… in questo tipo di affiliazione ne ho vista poca, di questa teoria, applicata.
Il fatto è che in Italia, ahimè, quando nascono delle imprese, si pensa sempre che la parte commerciale, di vendita, sia quella preponderante e che il responsabile commerciale, o addirittura il titolare, possano accollarsi la parte di marketing. In realtà, le due dovrebbero convivere e dovrebbero lavorare insieme per costruire un percorso che sia utile al commerciale per il suo lavoro (che dovrebbe essere sempre più “inbound” che a freddo, ma ne parleremo in una prossima intervista) e al capo per affermare il brand.
Che tu stia creando un franchising da zero o che ne abbia uno avviato, se non hai un reparto marketing che ti supporti a lavorare sui due canali di acquisizione dei tuoi clienti, qualcosa non sta funzionando,
a meno che il tuo intento non sia fare soldi subito, sulle spalle dei franchisee, di persone che hanno creduto alle tue parole e alle tue promesse pensando di potersi creare un’impresa con te. Io non lo so, ma a me verrebbe un pochino di mal di pancia a lavorare così.
La mission di un franchisor
Se hai ideato un brand e hai creduto che la diffusione in franchising fosse la strada da perseguire, in teoria dovresti volergli bene come a una figlia, che fai sposare con il miglior uomo possibile.
Io penso che questa sia una delle mission che un franchisor potrebbe far propria: capire che chi apre, forse, è una persona che ancora non ha il coraggio di spiccare il volo da sola e che, lavorandoci bene, possiamo darle le ali. Volerà via o tornerà al nido? Non importa, l’importante è che il brand ne risenta positivamente, che il lavoro svolto sia buono e possa attrarre altri franchisee.
Nel mio lavoro aiuto le imprese con più sedi a capire il loro target e a definire la giusta strategia per diffondersi, su entrambi i canali. Non è un lavoro facile, non è veloce, non è immediato. Se stai aprendo un franchising non si può creare entro domani. Se, però, ti interessa approfondire, puoi lasciarmi la tua email, così da ricevere i prossimi articoli che pubblicherò su questi argomenti: marketing e comunicazione per franchising e imprese con più sedi.
Grazie di aver letto fino a qui e se ti fa piacere, condividi l’articolo con chi pensi possa trovarlo utile.
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