
Basta team building! Emergi!
Dove finisce il team building, comincia l’innovazione (vera!)
Quante volte ci siamo illusi che un team potesse nascere da un’attività di team building ben organizzata? Un pomeriggio fuori sede, qualche gioco di squadra, magari un risultato immediato… Eppure, pochi giorni dopo, tutto tornava come prima.
La verità è semplice: i team non si costruiscono. I team emergono. Emergono quando le persone smettono di recitare un ruolo e iniziano a costruire insieme significati, visioni, percorsi.
💡 È qui che entra in gioco il lavoro sulle metafore tridimensionali, il pensiero con le mani, l’ascolto profondo. Non è solo questione di tecniche: è questione di creare spazi di intelligenza condivisa.
Perché il team building tradizionale non basta più
Il team building tradizionale parte da un’idea affascinante: creare coesione attraverso esperienze condivise. Ma troppo spesso si limita a momenti isolati, incapaci di toccare i meccanismi profondi che regolano la collaborazione. Scatta il momento creativo: si va alla ricerca dell’idea più nuova e avvincente, mixando gioco, teatro, tecniche di facilitazione, role play, il tutto senza un vero scopo. Abbiamo a disposizione gli ingredienti più belli della nostra azienda: le persone. Ma la ricetta per farli lavorare insieme? Spesso è sconosciuta o lasciata al caso.
Un momento di team building non può essere creato su una giornata o un weekend di divertimento: le problematiche del gruppo di lavoro si congelano, ma già dal lunedì successivo si sciolgono i ghiacciai e si alzano le maree. No, non funziona così. Abbiamo abusato e utilizzato troppo a sfavore del vero valore del team di un’azienda il termine team building.
Come scrivono Lipmanowicz e McCandless, “la chimera che le buone pratiche importate da altri contesti possano funzionare ovunque è troppo attraente per resistere alla tentazione di crederci”.
Ogni team è unico. Ogni sfida è diversa. Non si tratta di replicare formule. Si tratta di far emergere risposte autentiche.
Qualche tempo fa ho parlato con un imprenditore sconsolato: la sua azienda organizza ogni anno un retreat (e già il nome la dice lunga, ma lasciamolo lì). Ebbene, durante l’ultimo weekend hanno affittato una bellissima location, con stanze comode e spazi condivisi funzionali. Hanno lasciato spazio allo svago. Hanno provato a fare un role play. Tutto sembrava carino e condiviso. Tutto era stato creato per amalgamare squadre diverse su sedi diverse in Italia e nel mondo. Risultato? Quest’anno non si farà più. Il sondaggio (anonimo) di fine anno ha raccolto così tanti dissensi e voti sfavorevoli, così tante polemiche su location, obiettivi e attività svolte che l’imprenditore ha deciso, con il capo del personale, che questi soldi era bene investirli altrove. Come dargli torto? Come fargli cambiare idea per creare un momento condiviso ma allo stesso tempo funzionale?
L’emergence: quando i team nascono davvero
Henry Mintzberg lo ha spiegato bene: nelle organizzazioni complesse e nei mercati instabili, la strategia non si pianifica, emerge.
Come fa notare Fabrizio Faraco nel suo “La Facilitazione Maieutica” (La Traccia Buona) Emergence è una parola inglese che non ben si presta alla traduzione italiana. “La sfumatura di significato inglese è più focalizzata sull’evento: emergence è un sostantivo che risale dalla radice latina emergere, che significa portare alla luce, ed è entrato nell’inglese nel XVII secolo: quando qualcosa viene alla luce dove prima c’era l’oscurità (o il nulla) avviene un’emergence. Il termine” continua Faraco “fu poi utilizzato in senso scientifico da George Henry Lewes in ‘Problems of Life and Mind’ del 1875, dove traccia la distinzione fra effetti risultanti ed emergenti: sono risultanti se possono essere calcolati a priori, sono invece emergenti quando sono qualitativamente nuovi rispetto alle cause da cui scaturiscono”.
Allo stesso modo, un team efficace non si costruisce a tavolino. Si aiuta a emergere attraverso ascolto, connessioni, esperienze condivise che rivelano il potenziale nascosto.
Favorire l’emergence è diverso da “guidare”: significa creare le condizioni perché le persone possano costruire insieme, adattandosi e innovando. Il ruolo del Facilitatore Invisibile è la chiave di svolta per workshop e incontri di team proficui, pratici e soddisfacenti: capace di chiedere e sapere cosa chiedere, ma soprattutto di non avere le risposte per essere un buon ascoltatore (come consigliò Dale Carnegie nel 1936 in ‘How to find friends and influence people’) è “capace di aiutare un gruppo a raggiungere i suoi obiettivi […]” come “architetto di uno spazio sicuro in cui le idee possono fiorire, i conflitti possono essere risolti e si può raggiungere il pieno impegno” (cit. Jack Reimon, p. 44 sempre su La Facilitazione Maieutica di Fabrizio Faraco).
Caro amico imprenditore, non me ne volere se ti ho chiesto chi avesse orchestrato il tuo team building: quando mi hai risposto che è stato l’ufficio del personale, ti avrei abbracciato forte. Purtroppo, se davvero volevi un retreat capace di creare e costruire un team, ma soprattutto di dare il la per un lavoro condiviso, anche il tuo ufficio del personale andava inserito nel processo e, quindi, facilitato. In un momento in cui tutta l’azienda ha l’arduo compito di creare un collegamento solido, non ci possono essere membri interni che guidano un processo come quello di un role play. E sì, anche tu, amico imprenditore, avresti potuto partecipare. Far emergere significa anche questo.
Pensare con le mani: il sapere nascosto nei gesti
Quando si cercano nuove soluzioni, si vuole generare idee, si ha bisogno di risolvere problemi, spesso si ricorre a una serie di riunioni. Si dice che gli italiani amino a tal punto le riunioni da passare più tempo all’interno di meeting che a lavorare davvero. Secondo alcuni studi, tra cui uno di Asana, un altro di Accountemps e diverse interviste che sono state fatte prima e dopo la Pandemia, passiamo dal 20 al 50% del tempo in call e riunioni, di cui stimiamo che oltre il 25% sia sprecato. Non solo, spesso le riunioni non hanno ordini del giorno chiari, è faticoso tenere le fila di un discorso e – ancora peggio – le riunioni si chiudono senza chiari input per svolgere attività concrete.
Il problema sono i lavoratori che parlano troppo o i manager che amano ascoltare la propria voce? Già W. Edwards Deming (ingegnere statunitense che ha segnato il passo del tema della Qualità nella produzione) ci ricorda che “Il lavoratore non è il problema. Il problema è il top-management”. La realtà dei fatti è che, per ritrovare Faraco
“Ci risulta normale attivare il nostro ragionamento usando la lingua. Siamo invece meno abituati a farlo usando le mani: una risorsa importante, dato che il 70-80% delle connessioni neurali sono tra mani e cervello”. La mano è molto più di un semplice strumento esecutivo. Robert Rasmussen, uno dei fondatori della metodologia LEGO® SERIOUS PLAY®, parla di “hand knowledge”: una conoscenza implicita che si attiva quando costruiamo, manipoliamo, diamo forma fisica ai pensieri.
Il neurologo Wilder Penfield, attraverso la rappresentazione dell’homunculus, ha mostrato che una porzione enorme della nostra corteccia cerebrale è dedicata proprio al controllo fine delle mani.
🤚 Pensare con le mani significa attivare risorse cognitive profonde, spesso inacessibili con il solo linguaggio verbale.
Quando chiediamo a un team di costruire metafore tridimensionali usando mani, materiali, simboli, stiamo attivando intelligenza concreta, pensiero laterale, connessioni emotive.
“Quando si riuniscono un numero di persone desiderose di contribuire all’innovazione, ma che non sanno esattamente come possono contribuire, diventa fondamentale che la conoscenza di ciascun individuo venga sbloccata e condivisa. Il messaggio è questo: per innovare e trasformare imprese e attività è necessario che tutti attivino maggiormente le proprie conoscenze e vadano oltre il primo schema riconosciuto” (Per Kristiansen, Playing seriously with innovation, Medium, 23 giugno 2022)
Non è “giocare”. È pensare meglio.
Perché le metafore tridimensionali cambiano i team
Le metafore costruite con le mani permettono di:
- Visualizzare ciò che non si riesce a esprimere a parole
- Allineare visioni diverse, senza forzare omogeneità
- Attivare emozioni e memoria, rendendo l’apprendimento più profondo
Ogni costruzione diventa un linguaggio comune. Un ponte tra punti di vista diversi. Un terreno condiviso su cui costruire nuove strade.
Si attinge alla conoscenza tacita, ovvero a quel tipo di conoscenza che si è formato nell’esperienza, nel contatto con la vita, il lavoro e le persone, e che si è unito ai valori e ai modelli mentali che abbiamo costruito nel tempo. Usare le metafore tridimensionali e attivare le mani consente dunque di sbloccare il potenziale di ognuno, in uno spazio protetto, dove vi sia una sicurezza psicologica innescata dal grande lavoro del Facilitatore.
Caro amico imprenditore, sì, orchestrando bene gli elementi del tuo team, quel retreat avrebbe potuto diventare davvero un incontro fuori sede dove team, manager o leader si ritirano per lavorare su obiettivi strategici, cultura organizzativa, allineamento di visione, collaborazione, spesso combinando lavoro intenso e momenti di crescita personale o di team. Magari avremmo potuto dargli un nome tipo Emergence Space, ma su quello possiamo anche lasciarti la libertà di espressione :).
LEGO® SERIOUS PLAY® come strumento per far emergere, non per fare team building
Purtroppo da quando ho preso la certificazione come Facilitatrice LEGO® SERIOUS PLAY® con Per Kristiansen, mi è capitato spesso di sentire che questa metodologia viene richiesta per incontri di team building e per – addirittura – le cene di Natale. Ogni volta che sente questa cosa un neurone di Per muore (e non solo i suoi!)… per fortuna che ne ha tantissimi.
Ma non importa che Per Kristiansen e Robert Rasmussen siano oggi i detentori di un Metodo che richiede costante formazione, approfondimento e pratica. Non importa che per ottenere la certificazione servano importanti investimenti e giorni di studio chiusi in una stanza con Per. Non importa che ci siano ancora pochi Facilitatori LEGO® SERIOUS PLAY® nel mondo, nonostante le migliaiai di ore di volo che i fondatori di Trivium International fanno ogni anno per portare questo Metodo ovunque. Cioè, questo importa, sì, ma importa di più che chi parla di questo strumento potentissimo per far emergere, ovvero portare significative soluzioni alla luce, quando lo riduce a un gioco da fare durante una convention o un momento di team building, sta castrando il suo potenziale. Si tratta di un Serious Play e come Facilitatori ne abbiamo tutta la responsabilità.
Come Facilitatori Certificati abbiamo il compito e l’opportunità di avere lo strumento per rispondere all’esigenza di un’azienda, come quella di trovare nuove soluzioni di collaborazione per un team, o di integrare team diversi o – e cito solo alcune possibilità fra le tantissime – generare nuove soluzioni concrete per un problema noto e da mesi irrisolto in riunioni fiume dove parlano i soliti noti e si sentono esclusi i soliti ignoti.
Facilitare un workshop con il Metodo LEGO® SERIOUS PLAY® non è dunque team building, mi dispiace, caro amico imprenditore (e anche caro amico facilitatore).
Cosa succede in un team che smette di “fare team building” e inizia a emergere, anche con il Metodo LEGO® SERIOUS PLAY®?
Quando si facilita davvero l’emergere di un team:
- Prima: silenzi strategici, conflitti latenti, visioni disallineate
- Dopo: ascolto autentico, ownership distribuito, collaborazione naturale
Secondo il progetto Aristotele di Google, la sicurezza psicologica è il fattore chiave dei team performanti. E facilitare l’emergence significa creare proprio questa sicurezza, questo spazio libero di esplorazione.
“Muoversi in una strategia emergente richiede che il focus sia sulle persone e sui risultati, garantendo che le persone prendano decisioni autonome e allineate […]. Per costruire strategie emergenti, è necessario comprendere il contesto, sperimentare, raccogliere dati, adattarsi a collaborare, che è esattamente quello che si realizza in una attività di facilitazione” (afferma il nostro Fabrizio Faraco a pag. 64 del suo libro).
Inoltre, ponendo le domande giuste (“What if?”, “How might we?”) anziché dare risposte precotte, si aiuta il team a costruire senso e direzione in modo autonomo e duraturo. Anche il tema delle domande, negli incontri di Facilitazione, ha il peso specifico giusto.
Quando serve emergere, non costruire
Ci sono situazioni in cui replicare modelli standard di team building è addirittura controproducente:
- Fusioni e acquisizioni: servono spazi per integrare culture diverse, non simulazioni artificiali
- Team di innovazione: servono metodi per stimolare pensiero divergente, non esercizi di allineamento
- Leadership distribuita: serve ownership, non gerarchie camuffate
In tutti questi casi (e non solo!) Facilitare l’emergence è l’unica via per creare team veri, capaci di adattarsi, crescere e innovare insieme. E sì, è possibile, senza ore di riunioni inutili e senza grandi spese per location superlative e cene luculliane.
Vuoi che il tuo team emerga davvero?
Se vuoi innovare davvero, non devi costruire il tuo team come si monta un mobile (a quello ci pensano gli svedesi, ok?). Devi creare le condizioni perché emerga la sua forma migliore. Devi creare le condizioni perché le persone collaborino davvero. devi metterti in gioco (caro imprenditore) talvolta in prima persona, nella stanza o fuori.
Lavorare sul “sapere delle mani”, sulle metafore costruite, sulla facilitazione dell’emergere delle idee è il modo più potente e naturale per farlo.
👉 Contattami se vuoi scoprire come progettare un percorso su misura per aiutare il tuo team a emergere.
Perché il futuro dei team, quello vero, inizia dove finisce il team building.
Individui e Interazioni, Ferrara, 7 maggio 2025
Se vuoi partecipare a un workshop con il Metodo LEGO® SERIOUS PLAY® pratico, c’è ancora qualche posto per una giornata con me e Andrea Romoli durante il Festival Individui e Interazioni, a Ferrara, presso il Consorzio Wunderkammer, il 7 maggio 2025. Il workshop è pensato per team che si chiedono come migliorare i rapporti di collaborazione e potenziare l’efficacia operativa. Se fai parte di:
- Team di prodotto
- Team di design
- Team di sviluppo
e se ti rendi conto che non trovi la strada giusta per rendere il tuo team più unito, efficiente e capace di rispondere alle sfide che chiede il mercato, andremo a sviluppare strumenti concreti per farlo.
Non sempre, infatti, le idee di miglioramento nascono all’interno di team omogenei. Affrontare nuove sfide o risolvere problematiche complesse può richiedere interazione e coinvolgimento di fattori esterni e di conoscenza tacita che non avevamo considerato di esplorare. Il contesto di IEI25 nasce proprio per con lo spirito di sapere “quanto sia complesso far funzionare la collaborazione tra design, sviluppo e organizzazione. Non si tratta solo di processi, metodologie o ruoli ben definiti, ma di interazioni reali tra persone con competenze diverse, obiettivi da allineare e decisioni da prendere insieme.”
Per iscriverti segui il link al Workshop “Product Team 2.0: costruire un team ad alta performance con LEGO® SERIOUS PLAY®” a Ferrara

Il Marketing non è più lineare
Nel 2025, il marketing non può più essere monodirezionale. I consumatori si muovono tra TV, social media, negozi fisici, e-commerce, app e assistenti vocali, aspettandosi un’esperienza coerente e fluida ovunque.
Questa strategia si chiama omnicanalità ed è la vera differenza tra un brand che sopravvive e uno che domina il mercato.
Ma cosa significa davvero essere omnicanale? E quali aziende lo stanno facendo nel modo giusto?
Cos’è l’Omnicanalità?
L’omnicanalità è la capacità di un brand di offrire un’esperienza coerente su tutti i canali:
- Online e offline si fondono → Un cliente può iniziare l’acquisto su un sito web, provarlo in negozio e completarlo tramite app.
- I dati migliorano l’esperienza → Un brand raccoglie informazioni da più canali per offrire raccomandazioni personalizzate.
- Ogni touchpoint è connesso → Che sia un post Instagram, una pubblicità in TV o un’email, il messaggio è coerente e rilevante.
Multicanalità VS omnicanalità:
- Multicanale → Il brand è presente su più piattaforme, ma i canali non comunicano tra loro.
- Omnicanale → Tutti i canali sono interconnessi per creare un’unica esperienza fluida.
Tre esempi di Omnicanalità
Quali aziende si stanno muovendo in modo sistematico nell’omincanalità? Non è semplice attivare un processo di rivoluzione omnicanale in azienda. Innanzitutto, l’azienda deve far compenetrare i reparti e reagire agli stimoli in modo univoco; poi, deve interrogarsi sul fatto che non basta un sistema o un gestionale per essere omnichannel, serve una cultura aziendale solida. Il rischio di affrontare un percorso omnicanale senza un piano, affidandosi solo ai tool, è quello di lasciare fuori opportunità e persone.
E mentre si parla diffusamente di questo approccio, solo una bassa percentuale di imprese può dire davvero di essere omnichannel. Vediamo alcuni esempi presi da grandi brand, che se pur abbiano risorse e strumenti sicuramente più forti di altri, possono essere spunto per alcune riflessioni, anche di chi non ha queste capacità strutturali. L’importante, come dicevo, è iniziare ad analizzare e sviluppare la “mentalità”.
1. Nike: dal negozio all’app, senza soluzione di continuità
Nike ha creato un ecosistema perfettamente integrato:
- L’app Nike consiglia i prodotti in base agli acquisti precedenti.
- In negozio, il cliente può scansionare un QR code per vedere la disponibilità di taglie e colori.
- Dopo l’acquisto, riceve notifiche con consigli su come usare il prodotto.
Cosa possiamo imparare da Nike? Usare la tecnologia per collegare l’esperienza online e offline e rendere l’acquisto più intuitivo.
2. Starbucks: la fidelizzazione omnicanale perfetta
- L’app Starbucks permette di ordinare e pagare in anticipo, evitando code.
- I punti fedeltà si accumulano indipendentemente dal canale d’acquisto (app, negozio, drive-thru).
- L’utente riceve offerte personalizzate basate sulle sue preferenze.
Cosa possiamo imparare da Starbucks? Il programma fedeltà deve essere integrato su tutti i canali, premiando ogni interazione con il brand. Non è così scontato. Eppure è quello che chiedono gli utenti/clienti: continuità, nell’esperienza e nei flussi.
Piccola riflessione sui programmi fedeltà nei Franchising: mi sono trovata spesso ad analizzare le opportunità di crescita del sistema di affiliazione rispetto alla fidelizzazione degli utenti: da un lato i clienti vivono il brand e non sentono di essere all’interno di punti vendita differenti, per cui, sia che si trovino in una città che in un’altra, vogliono avere un’esperienza omologa; dall’altro gli affiliati, soprattutto di Franchising storici, si sentono indipendenti e creano frizioni quando si vogliono sviluppare programmi di loyalty, a svantaggio del sistema di Franchising tutto.
3. Sephora: esperienza cliente senza frizioni
- I clienti possono salvare prodotti sull’app e ritrovarli automaticamente in negozio.
- L’AI suggerisce il make-up perfetto in base alla carnagione dell’utente.
- I consulenti in negozio hanno accesso al profilo online del cliente per personalizzare i consigli.
Cosa possiamo imparare da Sephora? Personalizzazione e continuità sono le chiavi per fidelizzare il cliente.
Omnicanalità ed eventi: cosa possono imparare Super Bowl e Sanremo?
Gli eventi di grande impatto possono diventare piattaforme perfette per strategie omnicanale. Possiamo tranquillamente dire che gli eventi che segnano, solitamente, il passo sulla pubblicità e i nuovi trend sono quelli più seguiti dal pubblico. Da un lato, il Super Bowl, in America, dall’altro (almeno fino al 2024) Sanremo, per il nostro Paese. Vediamo come i brand hanno sfruttato questi due eventi e cosa possiamo imparare.
Super Bowl: il modello perfetto
Le aziende che investono nel Super Bowl sono davvero tante. I costi degli spazi pubblicitari, enormi. Ma quello che ha sempre caratterizzato il Super Bowl è la creatività: gli inserzionisti, gli investitori, non solo hanno gli spazi in TV o a bordo campo, ma possono ideare vere e proprie esperienze dentro e fuori gli stadi. Non c’è limite (o ce ne sono pochi). In effetti, scegliere di investire cifre così importanti dovrebbe portare anche a progettare il miglior spot di sempre, per fissare negli spettatori l’idea del marchio, il suo valore e un ricordo indelebile dei suoi prodotti. Fare diversamente sarebbe come decidere di comprare il biglietto del ballo delle debuttanti e andarci con un saio. Un grande investimento richiede dunque il miglior vestito.
Cosa abbiamo visto al Super Bowl 2025?
- Spot TV con teaser pre-evento su TikTok e Instagram.
- Coinvolgimento degli utenti sui social (challenge, meme, commenti live).
- Engagement post-evento con contenuti esclusivi e offerte speciali.
Il grande tema è stato coinvolgere attori e personaggi famosi, la sfida realizzare quasi dei film. I messaggi, a seconda del brand, sono di diversa natura: da quelli più forti a quelli più ironici. Alcuni esempi?
- Dove ha trasformato il suo spot in un movimento sociale sui social media, prolungando la visibilità ben oltre la diretta TV. La bambina che corre sulla scia dello slogan Born To Run ha fatto emozionare tutti. Dove ha collaborato con H.E.R., artista da 6,6 mln di follower, per la realizzazione dello spot;
- Stella Artois ha messo in campo un vero film: quello della ricerca del gemello perduto di David Beckham in America. E chi è il gemello perduto? Niente poco di meno che Matt Damon;
- Ray-Ban continua a spingere i suoi occhiali in collaborazione con Meta giocando sul real time marketing. Non solo ha usato un cast stellare, con Chris Pratt, Christopher Hemsworth e Kris Jenner, ma ha spinto su una delle opere d’arte più discusse degli ultimi mesi, la famosa Banana di Cattelan, 6,2 milioni di dollari di valore. Lo spot appartiene a una serie, che vuole avvicinare quanti più consumatori possibili agli occhiali, anche se non sembra che il prodotto stia ancora avendo il successo atteso;
- Pringles ha sfruttato la notorietà, acuita dai recenti riconoscimenti, di Adam Brody, con uno spot che lo mostra in crisi per mancanza di Pringles a un party. Il tubo si trasforma così in un piffero magico richiama baffi, che vediamo partire da tutto il mondo.
Questi sono solo alcuni, tra cui vi invito a vedere anche GoDaddy, Lay’s e Ritz. Ma lo spot che più ha portato animo alla discussione sulle pubblicità del Super Bowl è certamente quello di Hellmann’s, che ha ingaggiato proprio Billy Crystal e Meg Ryan perché riprendessero i loro ruoli in “Harry ti presento Sally” e rifare, nella stessa location – il Katz’s Delicatessen – la scena cult dell’orgasmo, 35 anni dopo il successo del film. Forse troppo, per della maionese’? Forse loro poco credibili? Tra apprezzamenti e critiche, di fatto lo spot mostra che non c’è limite alla fantasia, nella creazione dello spot più discusso del Super Bowl, che si dimostra non solo utile per il pubblico massmediatico, ma anche per i differenti canali di critica e divulgazione pubblicitaria.
Sanremo: l’occasione mancata?
Sanremo ha il potenziale per diventare un evento omnicanale, ma i brand non lo sfruttano appieno. O meglio, il Sanremo di Amadeus ci aveva abituati a inserimenti pubblicitari creativi e collaborazioni più ampie del solito inserimento televisivo. Non sono mancati certo i palchi esterni e le avventure per raggiungere la nave Costa di turno, così come le automobili che hanno accompagnato i cantanti all’Ariston, ma mi sarei aspettata qualche sforzo in più, come il bell’esercizio di Poltrone e Sofà dello scorso anno di accompagnare gli artigiani della qualità dentro al Festival, in un creativo Divano Sanremo che ha coinvolto tutti e che voleva avvicinare il pubblico da casa, con non pochi meta messaggi.
Quest’anno gli spot sono stati poco creativi, non solo al Festival, ma anche nella messa in onda. A fronte di cifre da capogiro (un minuto nella fascia delle 23.30 è arrivato a costare più di 1 milione di euro, ancora più alta la cifra de 4 spot prima dell’annuncio del vincitore) i brand che hanno acquistato gli spazi avrebbero potuto fare di più: niente spot nuovi, quasi nulla la co-partecipazione al Festival. Alcuni main sponsor non sono stati nemmeno in grado di condividere l’esperienza sui social, riducendo la presenza al canale televisivo. Peccato!
Cosa avrebbero potuto fare gli sponsor?
- Creare attivazioni digitali live per far interagire gli spettatori con lo spettacolo.
- Integrare e-commerce e app per acquisti in tempo reale.
- Sfruttare contenuti dietro le quinte su TikTok e Instagram.
Chi ha fatto qualcosa di interessante (se pur un po’ scontato, considerato il tipo di brand)? Spotify ha promosso la playlist di Sanremo. Certo, poteva creare challenge interattive o sondaggi live per aumentare l’engagement. Forse la cosa più omnichannel che si è vista è stata l’interazione degli utenti TIM con la app per assegnare il premio (che poi è andato a Giorgia). Avere una App è un obiettivo per molte aziende, permettendo di raccogliere dati, interagire, creare un canale diretto di dialogo, ma come rendere gli utenti partecipi e far aprire quella App è il vero tema, che pochi hanno risolto: TIM, grazie ai voti della miglior canzone, ci è riuscita. Chapeau perché mi ha permesso di parlare di omnichannel 😀.
Come applicare l’omnicanalità nel tuo brand?
Sì, lo so, c’è ancora tanta confusione su cosa sia o non sia omnichannel. Ma quali sono i punti di partenza e gli obiettivi che dovreste darvi quando vi avvicinate a questo tema e alle sue opportunità?
🔹 Assicurati che il messaggio sia coerente su tutti i canali.
🔹 Utilizza i dati per personalizzare l’esperienza utente.
🔹 Sfrutta la tecnologia per connettere online e offline.
🔹 Incoraggia l’interazione e il coinvolgimento.
La regola d’oro?
Il cliente non deve mai sentirsi perso o confuso quando passa da un canale all’altro. Tutto deve essere connesso.
L’Omnicanalità è il futuro del Marketing?
I brand che riescono a creare un’esperienza fluida, coerente e personalizzata saranno quelli che vinceranno la battaglia per l’attenzione del consumatore.
E tu? Hai già un’ottica omnicanale o stai ancora trattando ogni canale come un’isola separata?
Nei miei percorsi di consulenza uso diversi approcci per avviare una transizione omnichannel nelle aziende, sia quelle comuni che i sistemi in rete, commerciali o Franchising. Spesso, già grazie all’uso della Facilitazione, anche attraverso il Metodo LEGO® SERIOUS PLAY®, si possono delineare obiettivi e processi per arrivare a creare piani di azione solidi, che contemplino rischi e opportunità. Non servono mesi di analisi interne e di mercato per avviare questa transizione, né complessi tool. Se ti interessa iniziare a capire come la tua azienda può diventare omnichannel, mettiamoci in contatto!

Digital 4 Kosovo: un’esperienza di formazione digitale
Era il 15 gennaio 2023. Antonino Polimeni postava su Facebook che avevamo raggiunto il nostro traguardo: 1500 euro per portare in Kosovo, al Campo di Leskoc, 10 pc. Puoi vedere il post qui.
Digital 4 Kosovo è nato, come tante cose belle, quasi per caso. Questo è il mio racconto di questa esperienza.
Digital 4 Kosovo quando non era ancora Digital 4 Kosovo.
Era settembre. Ero a casa mia comoda comoda. Mi arriva una videochiamata di Antonino Polimeni. Ho pensato a te, ho bisogno di te. Per chi lo conosce, Antonino non si ferma mai. Durante l’estate era stato in Kosovo in missione, aveva desiderio di rendersi utile ed è partito con Volunteer in the World insieme al suo amico Angelo Annibaldis. Durante quella chiamata, erano insieme. “A sti ragazzi dobbiamo dare un’opportunità, ok gli aiuti, ok tutto, ma il mondo fuori oggi può offrire loro molto di più e noi possiamo raccontarglielo”. So bene che quando ti confronti con chi è meno fortunato, ti rendi conto che vorresti stendere mille tappeti rossi per agevolargli il futuro. La vita poi vai in modo un pochino diverso, e lo abbiamo visto.
Dopo quella chiamata abbiamo parlato a lungo. Ci siamo anche incontrati. Dai che partiamo durante le vacanze di Natale. Ok ok. Io con la mia proverbiale ricerca di mettere in ordine le cose, ci ho provato anche qui. Ne è nata una lista:
- Dobbiamo fare una riunione con il responsabile della casa;
- Dobbiamo trovare i PC;
- Dobbiamo trovare fondi.
Quantomeno questi erano i presupposti.
A novembre avevamo già qualche pc, ma la situazione scolastica in Kosovo non ci faceva comprendere se saremmo mai partiti: serviva la disponibilità dei ragazzi, che vanno a scuola, e quindi serviva sapere quando avrebbero avuto le vacanze. Causa scioperi vari, non avevano iniziato le lezioni regolarmente, indi per cui le vacanze erano in forse.
Digital 4 Kosovo. Si parte
31 dicembre 2022. Ciao Antonino, buon anno anche a te! E il nuovo anno porta buone notizie: sembrano che abbiano confermato sia per le superiori che per le medie le ferie invernali nell’ultima settimana di gennaio a cavallo coi primi di febbraio (dal 28 al 3). Non avremmo altre date in cui tutti i ragazzi sono a casa.
Il messaggio, in un gruppo che vedeva solo me e Angelo come ulteriori interlocutori, continuava con un “Non abbandonatemi”. E chi ci pensava ad abbandonarli? “E allora si fa“, ho risposto quasi in contemporanea. In 5 giorni avevamo:
- Date;
- Programma;
- Altri docenti;
- Quasi tutti i pc.
E un piccolo problemino non da poco: portarli dall’altra parte, sti pc. Ammazza quanto costano le spedizioni! Devo dire che eravamo molto sconfortati, all’idea di spendere così tanto, senza magari portare qualche aiuto economico, che là ne hanno sempre bisogno. Quando chiedi, però, talvolta l’Universo si mette in ascolto. Non solo una Provvidenza provvidenziale ci ha fatto portare là i pc, ma abbiamo anche destinato quei 1500 euro raccolti alla casa. Bingo. Ognuno di noi, ci tengo a precisare per chiarezza, ha viaggiato a sue spese.
Cosa ci aspettavamo? Cosa abbiamo trovato in Kosovo? Riporto qui alcune riflessioni che ho fatto in quei giorni, ovvero la mia personale narrazione di un viaggio che mi è entrato nel cuore. Parto dal fondo, perché è ciò che è rimasto.
Verona. Italia. Una settimana dopo la Casa di Leskoc.
Giorno 1. PRISTINA.
Giorno 2. Klina. Casa di Leskoc.



Giorno 2. Pizza. E gestione della casa. Casa di Leskoc.

Giorno 2. 29 gennaio 2023. Casa di Leskoc. Klina. Kosovo.
Giorno 3. 30 gennaio 2023. Casa di Leskoc, Klina. Parliamo di mozzarella.
Giorno 3. Serata.


Giorno 4. Kosovo. Casa di Leskoc.

Giorno 4. Parte 2. Kosovo. Casa di Leskoc.

Giorno 4. Parte 3. Kosovo. Casa di Leskoc.
Giorno 5. Kosovo. Casa di Leskoc.

Giorno 5. Kosovo. Casa di Leskoc. Serata commozione. Ultimo giorno qui a Leskoc.


Marketing Territoriale: Come un presepe può dar vita a un territorio
I presepi come opportunità di marketing territoriale
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Marketing territoriale (ovviamente);
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Eventi;
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Tradizioni;
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Marketing interno;
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Opportunità di business.
Turismo mordi e fuggi
Turismo lento e opportunità
Tursimo locale e Turismo esterno
Le nuove opportunità delle gita fuori porta.
Il percorso tra i presepi di Badia Calavena, tra contrade, innovazione e tradizione.
Com’è organizzato il tour dei presepi di Badia Calavena?
Cosa rappresenta questo percorso tra i presepi?
Marketing territoriale: nuove sfide?
Marketing interno e Marketing esterno in ambito turistico

I compleanni non sono traguardi
Qualche giorno fa è stato il giorno del compleanno di mio papà. 70 anni. Ci conosciamo da 41, è oggettivamente la relazione più solida della mia vita, insieme a quella con mia mamma… e forse anche con i miei zii. Vabbè, non intrippiamoci in cose inutili e scontate.
Ciò che mi ha fatto riflettere, alla fine di una giornata di festa, è quel numero all’anagrafe. 70. 70 sono tanti o pochi? La nostra cultura direbbe che sono tanti. Sono tanti rispetto alle statistiche, all’aspettativa di vita, forse. Li definireste pochi? Forse no. Ma se penso che mio nonno ci ha lasciati a 97, sono pochi, forse pochissimi. E se 70 anni fossero semplicemente, beh, giusti? Come lo sono 40, 50, 60, d’altronde. Come lo sono tutti gli anni. È che quando si arriva al numero tondo, tutto d’un tratto, ne aumentano i significati. E se si pensa che 70 sono tanti, beh, il carico da 90 è servito. Certo, l’anatomia ci dice che a 70 anni il corpo assume determinate caratteristiche, e che l’età che avanza ci invecchia. Tutte cose giustissime e dimostrabilissime. D’altro canto, più penso agli aggettivi che si possono dare a compleanni come quello di mio papà, più mi rendo conto di come quegli aggettivi abbiano significanti che guidano un pensiero limitante. Troppo, tanto, invecchiare. Viene da sé che quando te le mettono addosso creano idee e immagini di sé. Viene anche da sé che più te le ripeti addosso o te le tirano, più ti convinci che sia così.
Ciò che diciamo crea la nostra realtà
Ecco, io di questo ho timore. Talvolta, ciò che ci diciamo addosso crea la nostra realtà. La può creare un genitore che insulta il figlio, la possono creare le compagnie che escludono un amico, la generano quelli che additano qualcuno per una sua caratteristica, e lo fanno ripetutamente.
Così come i contesti possono modificare le persone, anche l’immaginario comune può farlo. Lo fa con gli stereotipi, definendo sempre nuove forme di bias cognitivi. Ecco allora che un numero sul calendario detiene un significato che va oltre quel valore stesso, creando mondi, innalzando limiti. Io non dico che un corpo che cambia e che un’età che avanza non significhino cambiamenti, eh. Dico che questi limiti, cambiamenti e consapevolezze dovrebbero arrivare da chi e come le vive, ad ogni età, per sua ragionevole e indiscutibile scelta.
La generazione di barriere, ostacoli e catene dovrebbe essere una scelta pienamente centrata sulla persona, non indotta dalle idee di una società che ha disegnato paletti e regole. Perché se si dice che 70 sia un traguardo, come lo si dice di tanti altri numeri sulle torte di compleanno, ma se il vocabolario dice che un traguardo, è di fatto, un punto di arrivo, beh, io non ci sto. Certo, un traguardo raggiunto può definire un nuovo traguardo da raggiungere, è che ciò prevede che vi sia quasi sempre una corsa in corso, tra un traguardo e un altro. Dove sta il viversi ciò che si è è che si ha, indipendentemente dalla corsa? La nostra vita è molto di più che raggiungere un traguardo per definirne inesorabilmente un altro.
La vulnerabilità dell’avanzare del tempo
È quando ci convinciamo che l’avanzare del tempo è qualcosa di impegnativo che diamo spazio alla vulnerabilità. Una vulnerabilità che spesso non è nostra, ma è definita secondo ciò che ci è stato insegnato.
Chissenefrega della carta d’identità. Chissenefrega se là fuori un numero può anche avere un significato. Alla fine non siano mai gli anni un limite, ma un modo per celebrare la vita, con dentro tanti e nuovi sogni.
Questo nuovo traguardo sul calendario della vita è una sfida, forse più per me che per lui, o magari lo è per entrambi. Sei cresciuto eh, papi. Se uno ci pensa, sai, fa impressione. È che i pensieri inevitabilmente è meglio se scivolano via, perché sono, di fronte all’età, il limite che ci si pone senza che vi siano veramente delle catene.
Essere incoscienti, essere folli – come ha detto qualcuno 😉 – essere ciò che ci si sente di essere nel tempo che si sta vivendo. Non è solo questione di filosofie e approcci esoterici. È che è così. Possiamo vivere solo il presente, al di là di qualsiasi età. E il presente non è fatto di numeri sulla fronte, ma di sogni e ideali che portiamo nel cuore, di visioni che abbiamo nell’anima.
Non lasciamo che l’età sia un limite. Non lasciamo che la società crei catene laddove noi continuiamo a mettere candeline da soffiare.
Celebriamo la vita. Grazie papà.
Sogna. Sii vulnerabile. Goditi il tuo tempo, che è sempre il migliore che hai.
Buon 70esimo compleanno
Un post di marketing?
Nelle giornate comuni, o in quelle speciali, osservo. Tra il caos di un lavoro sempre sulla cresta dell’onda, capace di seguire trend e cambiamenti, tra un piano di marketing e un’attività di branding, tra un franchising e un progetto formativo nelle Academy Aziendali, penso sempre che ci sia molto di più in quello che viviamo, in quello che vivo. Questo post nasce da alcune riflessioni, così come altri che ho condiviso e condivido su questo blog. Sono una consulente, ma prima di tutto sono una persona e il dono speciale che ricevo ogni giorno, anche nel mio lavoro, è incontrare chi può farmi vivere un presente migliore, nella consapevolezza che la misura di ciò che viviamo è direttamente correlata alla capacità di stupirci ogni secondo che respiriamo.

Marketing e investimenti in TV. Il caso della Valle d’Aosta
Articolo un pochino polemico, ma con visione costruttiva, o così l’ho pensato. Advertising turistico, on/offline. Nuove e vecchie maniere.
Ho visto qualche settimana fa lo spot della Valle d’Aosta in TV. Un luogo che amo. Non solo perché i miei ci hanno fatto il viaggio di nozze nel lontano 1976, ma anche perché credo che – come dice un collega e amico – sia uno scrigno, da cui tirar fuori tesori, con lo sguardo di un bambino che li scopre per la prima volta.
Ebbene, ho visto lo spot della Valle d’Aosta, dicevo. 15 secondi. Un investimento in TV di 160k circa (160 Milà euro, insomma).
Eccolo qui:
Aggiornamento: il video è stato rimosso da Youtube, per cui non mi è possibile mostrarvelo. Il ragionamento di marketing e comunicazione, ad ogni modo, funziona anche senza la visione del video.
Spot in TV: la realizzazione del video
Partiamo dallo spot: la realizzazione video.
Una ragazza, con una tazza di tè in mano, guarda dalla finestra quello che sembra un luogo che si apre fuori dal vetro e che poi, con passo rapido e svelto, si svela davanti a sé, su un prato verde che si apre sulle cime innevate.
Musica veloce, quasi drammatica.
Mi ricorda quando ero in agenzia, a fare spot TV, e ci guardavano, in momenti di disperazione creativa, gli spot degli anni 80.
Dov’è l’emozione, dov’è la calma di queste cime, dove sono i laghi che si tuffano nel blu del cielo rispecchiando il bianco delle nuvole e dei ghiacciai? Dov’è la fioritura della primavera, di questi giorni in cui guardo questo spot, così dirompenti (ieri in 1 mq ho contato almeno 50 fiori e piante diversi)? Ci si è chiesti, prima di fare questo spot TV per una strategia di marketing turistico, chi siano i potenziali visitatori della Valle d’Aosta e cosa vogliano? Ci si è chiesti cosa, nell’immaginario comune, rappresenti la Valle d’Aosta per chi la visita, provando a cavalcare proprio quelle emozioni che già muovono le persone a viverla in tutte le stagioni?
C’è una regione – che non voglio citare – che possiamo definire sua concorrente e purtroppo sa bene come posizionare il suo brand e cosa svela il suo nome come USP. Qui l’impressione è che si sia messa insieme qualche idea vecchia maniera, senza chiedersi se vi fosse appeal, con le idee confuse su cosa in 15 secondi si poteva trasmettere. Un approccio anni 80, forse 90, che è fermo lì, ai mezzi di allora, agli strumenti di quel tempo, a una visione che pecca di mancanze di immagini coordinate e strutturazioni strategiche omnicanale.
E questo è solo quel che si vede in una realizzazione video.
Spot in TV: i costi nel piano marketing
Facciamo anche i conti in tasca, sì perché quando strutturo un piano di marketing mi pongo anche la questione dei costi aggiuntivi all’analisi e alla strategia, quei costi che riguardano implementazione degli strumenti e coinvolgimento di professionisti per ottenere un risultato.
La location dello spot: il rifugio
Nella campagna in questione c’è un rifugio coinvolto. Questo avrebbe potuto chiedere dei costi vivi per la chiusura oppure un cambio merce per la visibilità. O anche, perché capita, essersi prestato per il bene comune. Facciamo che abbia chiesto un rimborso per un paio di ore di riprese. 2-300 euro?
L’attrezzatura per lo spot: un’ipotesi
Passiamo alle camere. Non ce ne sono molte. E di sicuro c’è un drone. Tra tutto, non più di una mezza giornata di riprese. Non c’è uso di chissà quali tecniche e non voglio mettermi a sentenziare sull’esperienza del cameraman e della troupe. Facciamo tre persone, per 600-800 euro cadauna. Non senior, spero.
Storyboard: la sceneggiatura dello spot
Storyboard e struttura scenografica le vedo insieme. Non vi sono guizzi e la musica non ha richiesto chissà quale esperto massimo di colonne sonore. 500 euro per tutto? Se hanno chiesto di più per un’idea simile l’art director più bravo del mondo si infila nella tomba e ci si rigira.
Montaggio di uno spot TV
Montaggio. Certo, quello richiede un pochetto, perché magari il cliente è di grandi esigenze e apporta mille modifiche apparentemente impercettibili ma significative per il time consuming in fase di post produzione. Qualche ora, non molto, specie se lo storyboard è chiaro. Se poi teniamo conto che spesso questo costo sta nel vivo di quello dell’equipe, diciamo che oltre i 400 euro è un furto.
Il cast dello spot
Attori. Beh, abbiamo visto un’attrice di tutto rispetto e famosissima no? Ahimè non so chi sia, ma un’agenzia media per 500 euro ne trova assai, magari anche in linea con la fisionomia in cui si dovrebbe riconoscere il target. Diamogliela tutta: cast, voce e selezione del cast a 1000 euro.
Spot TV: i costi
Bene, ci siamo. Realizzazione del video, che vi assicuro rimane un furto visto il risultato, max 5000 euro. Massimo. Spero non ne abbiano spesi di più che già così ci sta anche il pranzo e la cena di pesce fresco per tutta la troupe.
Claim che si ricordino in uno spot per la TV
Parliamo ora del claim. Cuore delle Alpi.
Allora. Un claim si dovrebbe ricordare e dovrebbe renderci indimenticabili. Ho chiesto a diversi amici. Quando devo fare una sorta di audit esterno improvvisato e veloce i miei amici mi vogliono bene 😝. Mi hanno tutti risposto che vedono come cuore delle Alpi quella regione di cui sopra, quella “concorrente”, non la su citata protagonista di queste considerazioni. Non perché sia più famosa – quella regione – o faccia più pubblicità. No. Solo perché geograficamente “le Alpi” si estendono dalla Francia alla Slovenia e, dato che “cuore” a livello di significato estensivo, significa “centro”, beh, la Valle d’Aosta, per chi sa un po’ di mappe e territori, non è che si trovi proprio nel mezzo delle Alpi, ecco.
Manca la USP, manca la memorabilità distintiva, manca la differenziazione. Mi chiedo, di nuovo, ma nell’immaginario collettivo c’è un visual forte della Valle d’Aosta?
Ah, nota in più: quando si sceglie un claim, sarebbe molto importante verificarne l’unicità anche “in termini”, diciamo. Si poteva lavorare su qualcosa di più identificativo? Probabilmente sì.
Qui non entro in costi vivi. Non me la sento. Il Copy che ha inventato un portale come vda, rendendo la Valle d’Aosta un acronimo, non lo merita. I suoi sogni vanno più veloci dei miei. E anche le ricerche del termine Valle d’Aosta rispetto a VdA.
TV in un Piano Marketing: ne vale la pena?
La diffusione in TV. La diffusione in TV.
Quando iniziai a lavorare nelle agenzie di comunicazione e si fecero i primi piani media per una grossa azienda dolciaria, ricordo che il primo budget che vidi sul tavolo fu di un milione e mezzo di euro. Si, un milione e mezzo di euro. Molti marketer oggi non vedono neanche 150000 euro sul tavolo di un anno di pianificazione. Quel milione e mezzo riguardava il periodo di Natale, per altro. Dal 6 dicembre al 24. Quanti giorni sono? Neanche 20… Il capo, che aveva la giusta simpatia dei creativi di un tempo, quelli bravi solo loro ma che ti lasciano un bell’imprinting, mi disse: che hai? Ripetei la cifra. Mi chiese perché mi meravigliassi. Senza – disse – o sotto, ci giochiamo la stagione e le vendite che reggono l’azienda fino al prossimo anno. Ricordo che quando tornammo da quell’incontro lo tempestai di domande e mi spiegò il temo di reazione, la memorizzazione del brand e quella del messaggio e una serie di altre nozioni che nessuno prima di allora si era premurato di sbattermi in faccia. In sostanza,
se vuoi farti ricordare e vuoi che al super ti comprino, devi esserci, anche se ti ritieni un brand noto.
Concluse con una frase che mi rimase impressa e che ripeto ancora oggi: hai visto cosa ha fatto la coca cola coi tabelloni dei panini nei bar? Ecco.
Se vai in TV occhio al numero di passaggi
Perché questo preambolo per la Valle d’Aosta? Perché il passaggio dello spot riguarda 2 settimane. 2 settimane appena finito il lockdown, in un momento in cui le statistiche dicono che non si sa ancora se la gente ci andrà, in vacanza. Mi sono chiesta: quante volte deve vedere uno spot, una persona, per sentirsi ispirato a curiosare quel prodotto o servizio e poi decidere di comprarlo? Quante volte devo imprimere nella mente del turista l’idea che il luogo da visitare sia quello che vede nelle mie proposte e che – quindi – lo scelga?
Senza una CTA forte come quella del Piemonte e delle notti omaggio, ne serve di tempo, specie quando hai un claim che richiama altre regioni… due settimane, in buona sostanza, sono davvero poche, pochissime. Pochissime soprattutto perché te la giochi su un solo video, su una sola proposta, non su più tipologie di ispirazione per folgorare più target.
Il processo di acquisto dei viaggi
Nel viaggio succede questo: crei un sogno. Per vendere un viaggio devi instillare quel sogno. E quel sogno ha forme diverse per diversi target. Quanti ne colpisci con il tuo spot? Quanto riesci a far materializzare il loro sogno? Quanto li folgori tanto che desiderino solo quello per le prossime vacanze?
150000 euro o poco più, in uno spot TV, due settimane.
Piano di Marketing Territoriale per la Valle d’Aosta: soluzioni
E quindi? Cosa si sarebbe potuto fare?
Beh, io non sono una fan di un unico canale o dei social media. Mi piace vedere i piani marketing come strumenti che integrano online e offline. Ma con un budget così risicato, avrei prima di tutto fatto analisi. Chi sono i turisti della valle d’Aosta? A chi si dovrebbe rivolgere la regione e dove si trova sta gente? Una volta cercato di comprendere le leve che li muovono, avrei analizzato i bisogni, creando più USP per i diversi target principali. Avrei quindi individuato canali preferenziali, come Facebook, Instagram e – se fosse stato necessario – anche Pinterest e Tik Tok. Li avrei coinvolti con diversi tipi di materiali, magari anche senza scomodare un cameraman, che forse in archivio del materiale buono veniva fuori. Infine avrei messo del buon budget pubblicitario. Sempre sui suddetti canali. E avrei fatto delle Landing Page specifiche, per scaricare una brochure, lasciare i dati, iscriversi a una newsletter. Avrei nutrito quel pubblico con info che arrivassero da diversi fronti: di nuovo i social, la mail, magari anche qualcosa di meno convenzionale come WhatsApp, per un’istituzione. Lì mi sarei giocata il climax, quel crescendo di desiderio di andare in Valle che dal clic iniziale portasse all’apertura del portafoglio finale. Per settimane, anche mesi, se necessario (penso sempre in questo senso alla capacità di farmi venire il mal d’Irlanda dell’ente del turismo irlandese) avrei martellato di info: eventi, curiosità, consigli, bellezze stagionali, sia in chiave generica che targettizzata.
Coi dati, si sa, si fa tutto, o quasi. Si fa molto, certo, tipo continuare a profilare, coinvolgere, appassionare. Si può pensare anche a qualche concorso? Perché no? Una volta che li ho, nel tempo, posso inventare tante cose.
Quale budget per un piano di marketing territoriale?
Budget per tutto questo? 160000 euro, almeno, per l’estate sarebbero bastati. Forse anche per improntare il rilancio invernale. Avrei forse tentato un super coinvolgimento di influencer locali di vario genere, per amore del loro territorio. Non so perché, ma mi viene da dire che sarebbe stato a costo zero e che chissà quanti materiali nuovi avrebbero donato ancora a costo zero.
Avrei aggiunto giusto qualche migliaia di euro per un sito responsive e utilizzare il valledaosta.it, così da posizionare anche il brand, che viene facile.
Un’azione di marketing turistico o territoriale non è mai un unicum. Mai. C’è sempre un piano. Ci deve essere sempre analisi, prima, durante e dopo. Sempre.
Aggiornamento
Aggiorno a fine settembre, quasi, riportando un’Ansa di qualche giorno fa
Gli arrivi sono calati del 74,01 per cento (da 100 mila 196 a 26 mila 42) rispetto allo stesso periodo del 2019 e le presenze del 72,36 per cento (da 196 mila 168 a 54 mila 217). In dettaglio, gli arrivi di italiani sono diminuiti del 66,65 per cento, quelli degli stranieri dell’85,49 per cento. Riguardo alle presenze, il calo è stato rispettivamente del 63,83 per cento e dell’87,97 per cento. “C’era da aspettarselo – sottolinea Gérard – perché la gente ha potuto tornare ad uscire nel primo week end di giugno però molti non avevano ancora aperto, la domanda non c’era proprio perché la situazione era molto problematica all’inizio”
Non credo che una campagna TV avrebbe potuto fare crescere di molto questi dati. Credo solo che una campagna TV senza una strategia abbia rappresentato un flower bombing troppo ampio per raggiungere buoni risultati. I terreni in cui farli andavano scelti, mirati, preparati e concimati, ma soprattutto, costantemente annaffiati. Ho visto molta più acqua da singoli ristoranti, hotel o piccoli consorzi che dalla regione. E mi si stringe il cuore, pensando a un luogo che amo così tanto.
Conclusione
Cosa c’entra in un blog che si focalizza principalmente sul marketing strategico un articolo sulla Valle d’Aosta? E come mai in un sito in cui si parla soprattuto di Marketing per Franchising è entrato lo spot televisivo?
Ogni giorno, viaggiando, osservando, ascoltando e curiosando, mi chiedo cosa ci sia dietro alle azioni di marketing che emergono ovunque. Essendo “nata” nel mondo delle agenzie, attraverso piani di comunicazione e branding su carta stampata, TV e radio, non manco di essere ancora affascinata da piani ben strutturati sia offline che online.
Durante un viaggio in Valle d’Aosta in cui mi sono concentrata su alcuni progetti lavorativi, ho osservato la loro comunicazione. Il Marketing Territoriale, se ben fatto, è cosa semplice. Sicuramente più semplice del Marketing per Franchising. È altrettanto vero che entrambi possono includere spot televisivi e piani media in TV. Riflettere su come vadano strutturati e come renderli funzionali è un obbligo (e una deformazione).
Dalla Valle d’Aosta ho imparato tante cose e dall’analisi di questo spot, altrettante. La TV è ancora un ottimo veicolo per i brand. Fermarsi a pochi giorni di spot o pensare che basti questo mezzo, però, è concettualmente errato. Che si faccia marketing per un territorio o che si faccia per una struttura in rete, il concetto non cambia. mai affidarsi solo agli strumenti: si parte sempre dalla strategia!
Se vuoi approfondire il tuo piano marketing, contattami!
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I trend di marketing del 2020? Francamente me ne infischio.
31.12.2019. Ultimo giorno dell’anno. E si chiude pure il primo ventennio del 2000. Accidenti, sembra ieri che parlavamo del Millennium Bug… 20 anni! Come direbbe uno dei miei miti “Domani è un altro giorno!”. E io, prima di domani, ho messo giù qualche riga di pensiero sul marketing e sui trend del 2020, visto che lo hanno fatto tutti. Premessa: al solito, non sarà un articolo corto.
1 gennaio 2020. Cosa succede nel mondo del marketing?
Ebbene sì, domani è proprio un altro giorno: il primo gennaio 2020. Inizia un nuovo anno e, come al solito, è il momento dei cliché:
- chi fa il resoconto dell’anno trascorso
- chi fa l’analisi di opportunità e miglioramenti
- chi si ripropone mille idee e progetti per il nuovo anno
- e chi… fa il mago con la sfera di cristallo, cercando di ipotizzare trend e novità che si vedranno nell’anno a venire
Nel marketing e nella comunicazione succede ogni anno, e ogni anno è abbastanza divertente vedere persone che, invocando il mago Thelma e tutti i santi del Paradiso, cercano di spararla più grossa su cosa accadrà. Mi ricordo – e se lo ricordano anche tanti miei colleghi – quando si disse “sarà l’anno dei video!”. Cavoli! Un video al giorno per ognuno dei nostri account e avremo davvero annoiato chiunque. Eppure, da allora, e forse son passati tre o quattro anni, si parla ancora di video. Beh, poi si parla di influencer, Instagram, micro influencer, Tik Tok marketing, big data, business intelligence, fidelizzazione, voice search e chi più ne ha più ne metta.
Dunque, dunque,… quale sarà il vero trend del 2020? Cosa ci dobbiamo aspettare dall’anno che verrà? Su cosa si dovrebbero concentrare le aziende che vogliono finalmente sfondare con l’azione di marketing giusta?
La risposta che mi è sorta spontanea, sia dopo aver letto il libro che dopo aver rivisto con mia mamma – è un must del periodo di Natale – il film, mi viene dal caro vecchio Rhett Butler del colossal Via Col Vento, una delle frasi forse più note del cinema:
quali saranno i trend del web marketing e del marketing del 2020
(sì, anche del marketing per franchising!)?
Francamente, me ne infischio!
Avete capito bene: Francamente me ne infischio dei trend del 2020. Perché?
Partiamo da un assunto, anzi due o tre:
- sono mode, e come tali, passano
- nessuno ha davvero la sfera di cristallo, anche se ci sono delle persone autorevoli che osservando il mercato possono comunque fare delle previsioni non infallibili
- non esiste una formula magica per il marketing delle aziende, né per quello delle attività locali, né per il B2B, né per i franchising o le strutture multisede
Riprendo questo ultimo punto proprio per lanciare un appello a tutti gli imprenditori e, se possibile, anche a tutti i colleghi che davvero vogliono fare bene questo lavoro, ovvero aiutare le aziende a crescere e migliorarsi attraverso azioni stategiche: non esiste una formula magica, non esiste un trend da inseguire su tutti e che funzioni più di altri se non si è prima fatta una buona analisi e una strategia. Punto.
Chiunque dica che il 2020 è l’anno di Tik Tok per cui la tua azienda dovrà fare azioni di marketing su questa piattaforma, mente. Chiunque affermi che il 2020 sarà l’anno della realtà aumentata, per cui in azienda dovrai chiamare l’esperto x per fare il prodotto y, mente. Chiunque ti dica che il tuo obiettivo è il risultato zero di Google – sì, ho letto anche questo – mente. Mente chi ti dice che ti devi giocare tutto sul voice search, che devi assolutamente creare il tuo canale di social commerce, che devi puntare tutto sui chat bot. Mente. Punto.
I trend del 2020 sono bufale
Perché chi parla di trend mente?
Attenzione! Non sostengo che non ci siano delle evoluzioni del mercato, delle tecnologie e delle possibilità di sviluppo di un piano marketing. Non sto affermando che non vi sia una rivoluzione in atto sul piano delle tecnologie che usano i sistemi vocali, la realtà aumentata e tutto quello che pian piano sta trasformando la realtà fisica in realtà virtuale. Quello che sta accadendo è sotto gli occhi di tutti. Il mondo digitale corre veloce ed è difficilissimo stare al passo coi tempi. Il fatto è che quando qualcuno afferma che i trend sono la chiave per il tuo successo, o che dovresti seguirli per fare la differenza sui competitor, sta dicendo il falso.
Perché ti dovresti infischiare dei trend del 2020?
Parto da un assunto di Alessandro Sportelli, mio “maestro” e – con Manuel Faé – ideatore del progetto Connection Manager, di cui faccio parte:
il marketing è una scienza, non un’accozzaglia di strumenti.
Anzi, rimodulando sul finire del 2019 potremo dire:
il marketing è una scienza, non un’accozzaglia di trend.
Ecco quello di cui dovresti tenere conto se hai un’azienda, piccola o grande che sia, e che non dovresti mai dimenticare:
- Un singolo strumento o una singola impostazione non sono la chiave del successo, perché sarebbe come dire che mettendo il motore della Ferrari nella Peugeot della mia amica che guida da pochi mesi, può andare a correre al Gran Premio di Montecarlo. Forse ci arriva a piedi, forse!
- Se non hai chiaro come i tuoi clienti comprano da te o come vorrebbero comprare, non potrai mai sapere in che modo uno strumento o una tecnologia possono andare a inserirsi nel loro processo di acquisto per velocizzarlo o incrementare le vendite. Per saperlo devi fare un’analisi e, possibilmente, indagare cosa fanno i tuoi clienti, anche chiedendoglielo, se necessario.
- Le mode passano, la strategia resta. Ogni anno ci saranno nuovi strumenti, nuove tecnologie e nuovi trend. Vuoi davvero che la tua azienda li segua tutti e ogni 31 dicembre si metta a cavalcare l’ipotetica tigre del vincitore? E se poi quella tigre prende in groppa tutti, che fai? Continui a cambiarla? Non è sostenibile, specie se fai parte della categoria delle piccole e medie imprese italiane, che a oggi, ancora, fanno questo Paese.
- Le mode costano. Cambiare costa. Se hai un budget di marketing, ancorché tu sia stato in grado di definirlo (tante aziende ancora non lo fanno), investi saggiamente e non buttare tutte le tue risorse nei trend. Mi ricordo ancora quando – e pure nel 2020 se ne parlerà – si diceva di puntare tutto sugli Influencer. In una riunione sentii un imprenditore dire che voleva investire il 70% del suo budget su due singoli influencer, per altro con profili sporcati dai bot. Ma stiamo scherzando? Spero che non serva una spiegazione per definire che questa è una follia!
- Le azioni di marketing non vanno mai viste da sole, i risultati che porta un singolo canale non potranno mai essere attribuiti con certezza solo a quel canale, a meno che tu non abbia mai fatto alcunché e sia rimasto in una sfera di cristallo fino all’investimento su quel canale. Voglio dire: il marketing è una sfera di azioni che si intersecano e incastrano, che lavorano insieme per portare a un obiettivo, solo e unico: vendere di più. Se punti a un solo canale o a una sola tecnologia, pensando che lì ci sia tutto, stai facendo tattica, non strategia, potresti vincere la battaglia, lasciando sul campo le tue migliori risorse, ma come la mettiamo con la guerra?
- Gli articoli che segnalano i trend del 2020 sono, così come questo che leggi, dei cliché. Si fanno per guadagnare posizioni su Google, per far condividere i link al proprio sito, per ammaliare potenziali nuovi clienti facendo credere che si abbia l’autorevolezza per dire che l’anno che verrà funzionerà così. Perché, diciamolo, se qualcuno si arroga il diritto di dirlo, beh, significa che è autorevole per farlo, no?
- Sette è il numero perfetto. La perfezione non esiste, ma possiamo cercare di lavorare sempre per raggiungerla, no? Se vuoi raggiungerla nel tuo settore, che sia esso franchising, multisede, local, B2C, B2B, il marketing è un processo strategico. Se hai una strategia chiara, non hai bisogno di trend, ma li userai a tuo buon pro solo se possono aver senso, testandoli, valutandone i risultati, capendo se fanno al caso tuo e decidendo se il gioco (l’investimento) vale la candela (il risultato).
Quindi? Nessun consiglio o trend per il 2020? Nemmeno per il marketing per i franchising?
Io ho tanti auguri da fare, ma non sono nessuno e non mi paragonerei mai a chi è davvero autorevole. Però, visto che ormai sono quasi 15 anni che mi occupo di vendita, marketing e comunicazione, in particolare per catene, multistore e franchising, ho una speranza, anzi, più di qualcuna. Prendetelo come un consiglio, o un augurio.
Un tempo qualcuno mi disse che un’azione che facciamo non deve per forza scatenare un maremoto, ma basta che sposti una goccia nel mare per poter innescare un cambiamento.
E io mi auguro che ci sia davvero un cambiamento nel mondo del marketing. Un cambiamento che si infischi dei trend e volga gli occhi alla strategia, finalmente. Ecco dunque cosa mi auguro per questo 2020, sperando che continui nel 2021, nel 2022 e, possibilmente, per sempre:
- più analisi di mercato e aziendale e meno improvvisazione. Audit interne ed esterne, riflessioni sul nostro cliente, sul nostro prodotto e una chiara consapevolezza di come i clienti acquistano da noi
- più strategia e meno strumenti. Un piano di marketing che coinvolga gli strumenti ma non si focalizzi solo su quelli. Un piano che sappia spostarsi anche sui trend se necessario, ma sono quando sia trasparente e lampante come questi trend si inseriscono nella strategia, quali asset spostano, quali leve muovono e come possono incidere sul risultato finale.
- più strategia e meno tattica. Gli strumenti del marketing suonano all’unisono per creare una melodia, non cantano in modo singolo. Ogni azione è concatenata. Chiunque vi dica che vi ha portato tot lead con tot investimento, prendetelo con le pinze. Chi vi dice che quei lead non siano stati smossi a monte da altre azioni, anche di mesi o anni prima? Il marketing e il processo decisionale dei clienti tra scegliervi e non scegliervi, sono percorsi, non singoli input che generano per forza un automatico output.
- più processo di acquisto e meno processo di vendita. Vorremo tutti che le persone acquistassero da noi come vogliamo noi. Non funziona così. Il processo di acquisto, come insegna il corso WMI, è determinato da tanti fattori ed essi caratterizzano un tempo e un processo decisionale che non possiamo definire a tavolino: va analizzato!
- basta pensare che il marketing online e offline siano due cose distinte. Il marketing è uno! Se non ne sei ancora convinto, osserva come i big player del mondo tech stanno usando i canali offline: carta stampata, TV, card, sono entrati di peso nelle loro azioni di marketing. Il marketing, in qualsiasi settore, è uno solo!
- influencer, ambassador, evagelist. Basta! Non è tra le braccia di una bella donna in reggiseno e perizoma che il tuo prodotto troverà il successo! Certo, ci sono anche influencer seri, eh, ma costano, e costano cari, e prima di pensare a un piano di influencer marketing con i super mega personaggi che vedi su Instagram, concentrati sui tuoi clienti. Hai mai pensato che i tuoi clienti, in realtà, siano dei micro influencer? I tuoi clienti parlano di te, anche senza che tu lo sappia. E se lavorassi con loro invece che con chi non ha mai provato il tuo prodotto?
- dati, raccogliamo i dati! E trattiamoli bene, se possibile. I dati dei clienti e di quello che comprano sono fondamentali per comprendere cosa funziona e come possiamo arrivare anche ad altri clienti. Oggi, per fortuna, esistono molti sistemi di business intelligence per analizzare e visualizzare i dati e il mio collega Fabio Piccigallo ha anche scritto un bellissimo volume sul Data Storytelling per far comprendere come rappresentare e leggere questi dati per creare il giusto piano di marketing, verificato attraverso i numeri. Marketing data driven, lo chiamano. Chiamalo come ritieni più opportuno, ma prima di affermare che una cosa non funziona o un’azione non porta risultati, analizza e dimostra!
- brand. Ama il tuo brand, proteggilo, fallo crescere, analizzalo. Il brand fa la differenza in qualsiasi piano di marketing. Spesso un’azione non funziona perché non c’è il brand. Cosa significa? Che nessuno ti conosce, sa chi sei, sa cosa fai o ha in mente una parola chiave che ti descrive, o l’inverso. Essere un punto di riferimento per la propria nicchia o per il proprio mercato sembra la banalità delle banalità, ma è qualcosa su cui, ogni giorno, nelle attività di consulenza che facciamo con Franchising Strategy e con altri colleghi, c’è ancora tanto da fare. Brand! Ricordatelo, lavoraci, fallo bene.
- non lasciarti affascinare dai guru. I guru non esistono. Nessuno ha la bacchetta magica. Qui entro in qualcosa di più filosofico e meno simpatico ai più, ma mi chiedo quanto, dietro la ricerca della parola magica del guru di turno, ci sia in realtà un bisogno di trovare all’esterno risposte che in realtà abbiamo dentro di noi (senza facili citazioni ironiche). L’azienda non funziona, il prodotto non va, le azioni di marketing che facciamo non stanno sortendo i risultati sperati: siamo sicuri che non dipenda da noi? Quanto spesso vedo che se un’azione non funziona è perché non ci si è posti la domanda su chi ci conosce, se siamo un brand o meno, se nel processo di acquisto vi sia il bisogno di una fase informativa prima di giungere a quella commerciale.
- il marketing non è creativo. Il marketing esiste, se pur sembri effimero e intangibile, all’inizio. E il marketing è fatto di strategia, non di stereotipi. Se corretta, la strategia di marketing deve partire da un’analisi proprio per consentire al professionista, che sa che ogni azienda è differente, di lavorare con te secondo quello che è la tua storia, le tue dinamiche, la tua impostazione, non quella che si è immaginata lui. Io uso spesso l’analisi SWOT e strumenti di analisi interna che coinvolgano l’azienda, anche su più reparti, ma questa è un’altra storia, perché io penso che qualsiasi azione di marketing vada contestualizzata e ne vadano capiti i perché e credo che quei perché risiedano spesso nel vivere l’azienda, dentro e fuori.
In sostanza,
ogni azienda è un progetto unico e meraviglioso che non ha nulla a che vedere con le mode. La chiave è il progetto.
Se ci sono un progetto solido, un’analisi strutturata e la consapevolezza delle fasi del processo d’acquisto, noi siamo il direttore d’orchestra che decide se far entrare un nuovo elemento, ma solo quando migliora la melodia.
E per i franchising?
Ho parlato di marketing in generale, senza addentrarmi nei trend del nuovo anno per i franchising, come feci qualche tempo fa, ormai. In realtà, anche per le strutture in rete e il marketing per franchising, più che di trend, preferirei parlare di auguri. Gli auguri che mi faccio sono legati al metodo di marketing di Franchising Strategy, che si basa su tre livelli strategici: B2B, B2C, interno. Mi auguro quindi, davvero:
- franchising capaci di analizzare i clienti e scegliere i franchisee che vogliono, non quelli che alimentano il portafogli e basta. Meno opportunity seeker, più affiliati in linea con i valori della casa madre
- franchisor che supportino i franchisee con una strategia locale seria, operando quasi da agenzia di comunicazione per i propri partner. Il franchisor che ha strutturato una buona strategia di marketing ha la competenza e la responsabilità di guidare i propri franchisee, che lo hanno scelto – in teoria – anche per questo
- case madri che sappiano muoversi come aziende eticamente impegnate nella strutturazione di piani di marketing interno che facciano squadra tra sede e sedi. Ritengo fondamentale gestire piani di formazione, gruppi di lavoro, momenti di confronto e condivisione per la crescita. Se un imprenditore ha scelto di affiliarsi, non è perché vuole fare l’one man band, o almeno non dovrebbe essere così. Lo si fa perché si apprezza il lavoro di squadra e se ne riconosce il potenziale.
Franchising, B2B, B2C, qualsiasi tipo di azienda, in ogni dove, anche se non ha mai fatto marketing, ha una sua visione e strategia. Non si tratta di avere un account su Instagram o Facebook, di scegliere di fare un social commerce o di avere il blog meglio posizionato per una determinata parola chiave. Non ci sono trend da seguire. C’è tanto buon senso. C’è tanto coraggio. C’è bisogno di tornare a quello che è il marketing fuori dalle chimere. Torniamo a studiare Kotler, Drucker, avviciniamoci a Ferrandina e Al Ries, a Jack Trout; torniamo a confrontarci e a mettere in discussione ogni cosa che facciamo attraverso i numeri.
In fondo, il vero trend del marketing del 2020, è che nessuno ha inventato l’acqua calda, ma nonostante gli strumenti cambino, il digital sia veloce e siamo bersagliati dalle informazioni, le persone e le aziende comprano e le aziende vendono. Da sempre. Come lo fanno, in quanto tempo, attraverso quali leve, è tutto ciò che dobbiamo sapere per muovere quelle giuste anche -volendo – quelle più di moda.
Di tutto il resto, me ne infischio.
Buon Anno di marketing strategico.
E tu cosa ne pensi dei trend del 2020?
Se ti va, commenta, o scrivimi.

Recensioni, come gestirle? Ne parliamo a Expo Franchising Napoli
Sabato 18 maggio, presso ExpoFranchising Napoli, alla Fiera d’Oltremare, parleremo di recensioni e di come gestirle, sia lato franchisor che franchisee, alle 13.30, sala Tirreno, pad. 6.
Le recensioni sono uno dei cardini della reputazione di un’attività, un’azienda o un prodotto nell’era di internet. Sono importantissime, così importanti da cambiare la percezione di un brand e consentire di aumentare esponenzialmente le vendite, se esposte nella corretta maniera (nel settore del lusso si parla di un incremento del 370% delle vendite quando vengono mostrate le recensioni). Sono ancora più importanti se pensiamo al mondo dello sviluppo in franchising, sia per quanto riguarda i franchisor che per i franchisee.
Gli utenti, di qualsiasi tipo, si sono abituati a farle, complice Tripadvisor che per primo le ha innescate. Non sono da meno, tanto da aver superato talvolta Tripadvisor, anche quelle di Google e Facebook. E non ci sono solo questi canali.
Le recensioni sono ovunque.
Si trovano recensioni sui marketplace, sui social media, nei comparatori di prezzi e sulle piattaforme di food delivery. Sono ovunque. Sono il passaparola dei tempi moderni.
L’italiano medio, ahinoi, tende a lasciarle più volentieri negative che positive, quasi che aver vissuto un’esperienza soddisfacente o superlativa non meriti di essere segnalata.
Come mai dunque si lasciano più recensioni negative che positive? In realtà il fatto è da ricondurre piuttosto alla pigrizia degli esercenti e delle aziende, che hanno il timore di chiedere le recensioni sia ai clienti fidelizzati che a quelli soddisfatti. In questo modo si attirano ovviamente i feedback di chi ha vissuto un’esperienza poco illuminante, che risentitosi di quanto ricevuto, vuole dirlo al mondo, come in una forma di vendetta.
Sì, perché le recensioni sono un’arma, sono un potente mitragliatore nelle mani degli utenti che non si rendono quasi mai conto delle conseguenze delle loro azioni.
Le recensioni negative, infatti, fanno male. Fanno male a tal punto che in alcuni casi si sono viste abbassare le saracinesche di negozi e ristoranti. Tutta colpa di Tripadvisor? In realtà ci sarebbe da fare una lunga analisi, esercizio per esercizio. In linea di massima, essendo l’utente libero di lasciarle, volenti o nolenti, siamo chiamati a gestirle. Farlo non è facile ma ci sono alcune cose pratiche che possiamo fare prima e dopo e, ad ogni modo, possiamo farne tesoro.
Il vero fatto dietro alle recensioni è che non vengono mai viste come un’opportunità. Ebbene, lo sono.
- Consentono di far crescere la reputazione della nostra azienda
- Consentono di mostrare chi siamo e raccontarlo
- Consentono di ricevere spunti e critiche per migliorarci e crescere
Ogni persona che ci scrive ha scelto di fatto di investire del tempo per farlo. Scegliere questo significa voler levare la propria voce per farsi ascoltare. Nel caso di una recensione negativa il bisogno di ascolto è altissimo. Non solo, chi legge quella recensione si fa un’idea diversa della nostra attività in base alla risposta che diamo e se la diamo.
Scegliere di non rispondere è un diritto, certo, ma dobbiamo essere consapevoli delle conseguenze e di quello che potremo perderci. Capire come rispondere alle recensioni non è d’altro canto cosa semplice. Mentre nella comunicazione verbale ci sono tutti i capisaldi della comunicazione, con gli elementi verbali, paraverbali e non verbali, dobbiamo sempre ricordare che due di questi mancano nella comunicazione scritta.
Inoltre, mettersi nei panni dell’utente e cercare di comprendere i suoi bisogni è un’attività che richiede pazienza ed esperienza. Pazienza, innanzitutto, perché come imprenditori rischiamo di pensare che ci stiano attaccando personalmente, reagendo di conseguenza. Le recensioni non vengono mai fatte a noi, ma all’azienda che si è mostrata tramite noi. Pazienza, dunque, e distacco. La prima cosa da mettere in atto per gestire le recensioni è proprio il distacco.
Fatto questo, serve analisi. Un’analisi della situazione, delle parole dell’utente e dei fatti accaduti è la chiave per gestire le recensioni al meglio. E poi rispondere. Rispondere bene. C’è chi mi chiede se si debbano usare risposte lunghe o sintetiche. Dipende. La risposta è sempre: dipende. Ci sono casi in cui è meglio essere brevi, altri in cui serve tirar fuori la propria storia o i punti di forza che ci vengono riconosciuti.
Come funziona per i franchising?
Nel caso di un franchising le recensioni possono riguardare il brand ma si possono anche rivolgere ai punti vendita che lo distribuiscono sul territorio. Un numero di recensioni frammentate, dunque. Se abbiamo aperto un franchising dovremo tenerne conto. E dovremo insegnare ai nostri franchisee come comportarsi e come gestirle, definendo una linea guida centralizzata e univoca, coerente con la mission e il tono di voce. Non è cosa semplice, ma non è nemmeno impossibile.
Expo Franchising Napoli è l’occasione per parlare anche di questi aspetti del marketing per franchising: le recensioni e come gestirle, sia lato franchisor che lato franchisee.
Ti aspettiamo in Sala Tirreno, al padiglione 6, sabato 18 maggio alle ore 13.30.
Vuoi ricevere il manuale con i consigli per rispondere alle recensioni? Compila il form scrivendo nel messaggio “ExpoFranchisingNapoli”!

Franchising e forme di previdenza integrativa: ampliare i servizi offerti alla rete
Cosa può offrire un Franchisor ai suoi affiliati? Solo formazione? No, anche supporto. Solo questo? No di certo. I migliori franchising sono sistemi che funzionano grazie alla forza della rete che rappresentano. Più forte è la rete, più si rafforza il brand e di conseguenza gli affiliati possono guadagnare ed essere soddisfatti della scelta di aderire a quel marchio.
Il Franchisor diventa in questo senso un punto di riferimento, un capofamiglia che fa crescere il sistema proprio perché è uno dei suoi obiettivi finali. La sede può dunque offrire percorsi per la crescita degli affiliati, oltre che il piano di sviluppo e formazione iniziale, ma quello che può fare non si ferma qui. Se pensiamo al sistema e alla soddisfazione, il Franchisor può davvero offrire ancora di più, facendo rete e traslandone i benefici sulla sua, di rete.
Forme di previdenza integrativa e franchising
Cosa c’entra dunque la pensione integrativa con i franchising?
Negli ultimi mesi sto lavorando a un progetto di sviluppo, con Alex Skerlavaj della web agency Delex di Trieste (anche lui Connection Manager 😊), di una piattaforma che analizza e vende forme di previdenza integrativa. È una realtà nuova, che ha inglobato il know how previdenziale di un team di professionisti del settore assicurativo e si è data come Mission la vendita dei prodotti previdenziali online, attraverso l’analisi di tutti i comparti e prodotti esistenti in Italia. Si chiama propensione.it e con Alex e altri professionisti stiamo supportando e implementando la strategia di marketing online e offline di questa startup.
Franchising di successo: l’importanza della comunicazione interna
Durante la fase di analisi abbiamo avuto modo di valutare il mercato del settore previdenziale, di scandagliare il sistema di pensione pubblica esistente e di apprendere, quindi, nozioni fondamentali su questo mondo così complesso ma sempre più interessante e importante da conoscere.
In una delle riunioni con il team, che ha la sua sede operativa a Trieste, è emersa l’importanza della costituzione di un fondo pensionistico per i liberi professionisti e gli imprenditori. Ero in una fase di analisi delle possibilità di comunicazione interna dei franchising, di analisi dello storydoing applicato al mondo dell’affiliazione e, come ho sottolineato anche in altri articoli, credo fermamente che una delle sfide più difficili per i Franchisor, troppo spesso sottovalutata, sia creare una squadra che lavora bene insieme e che trae costanti vantaggi dall’appartenenza al network.
Aprire un franchising: prima di tutto, l’impresa
Cito spesso la costituzione di un’agenzia di comunicazione interna che supporti gli affiliati, a tutela del brand. In quell’occasione stavo scandagliando anche i gruppi di acquisto, e quando ho sentito parlare di previdenza per i professionisti e gli imprenditori, mi è scattata un’ulteriore area di sviluppo possibile.
I franchising generano business territoriali e quindi sviluppano sistemi di impresa. Chi si affilia ha il vantaggio di poter aprire un’attività che è già stata testata, avvalendosi del know how di chi l’ha aperta è fatta crescere.
Se così è, la crescita degli imprenditori e il loro miglioramento economico e professionale è uno degli obiettivi correlati. Dall’inizio alla fine. Dall’apertura al – potenzialmente – pensionamento. Si sa, non sempre è così, perché i franchisee possono cambiare franchising o scegliere di vendere una volta ottenuto il giusto successo, oppure possono aprire nuove sedi, sviluppare nuove aree territoriali con altri business locali. Ottimo.
L’imprenditore che apre in franchising spesso non lo era prima di affiliarsi. Va formato, accompagnato, fatto crescere. Non possiamo pensare che sia da seguire solo in fase di apertura. Così come il marketing per i franchising è fondamentale per ampliare il business e migliorarne i risultati, a questo punto anche la pensione integrativa, per chi versa in una cassa separata, che sicuramente non darà diritto a una pensione pubblica commisurata al reddito, diventa un servizio interessante da offrire.
Franchising e previdenza integrativa: cosa potrebbe un Franchisor in tema di pensione?
Potrebbe innanzitutto informare:
dotarsi di un fondo pensione il prima possibile consente di cominciare presto a versare e quindi ottenere più risultati alla fine del periodo lavorativo.
Non solo. I versamenti a un fondo previdenziale abbassano il reddito imponibile. Ebbene sì. Fino a circa 5000 euro. Cosa significa? Se il tuo fatturato è di 45000 euro e tu versi 5000 a un fondo previdenziale, avrai un reddito imponibile di 40000 euro. Un bello sconto sulle tasse, no?
Prendo l’infografica di propensione.it per spiegare meglio.
Data la mia visione sui franchising e la comunicazione interna credo che da subito un buon Franchisor dovrebbe offrire tutti i servizi possibili, alcuni a costi talmente contenuti che viene proprio da dire: perché no? Questi servizi hanno costi contenuti perché possono essere fatti in partnership, oppure proposti attraverso corsi gratuiti. Per formare gli imprenditori affiliati, farli crescere, ottenere successo e, quindi, sviluppare un franchising di successo.
Se ti interessa aprire un franchising e vuoi cominciare nel modo giusto, ricorda che dovrai tenere conto di attività di comunicazione e marketing interne e attività interne. La previdenza e altri servizi sono tutte idee che puoi mettere a disposizione dei tuoi affiliati. Sono a disposizione per approfondire questi temi e valutare come ti stai muovendo, sia che tu abbia una rete di negozi già avviata, che tu stia pensando di avviarla.

Franchising di successo, come si crea?
Aprire un franchising, gestire quello esistente. Un franchising di successo non è cosa facile da costruire, e la chiave è sempre partire dalle basi giuste. Nel web spopolano articoli di vario genere su come si apre un franchising. Sono testi anche ben strutturati, con spunti utilissimi, ma che mancano spesso, a mio avviso – a parte in alcuni rari casi – di due parti concrete che l’imprenditore che si avvia verso questo percorso dovrebbe tenere in conto:
- Da imprenditore a manager. Chi vuole aprire un franchising solitamente ha sviluppato un format vincente e ci ha messo anima e corpo. Bene, se l’imprenditore vuole sviluppare in franchising, meglio che capisca da subito che il corpo starà fuori dal negozio principale, dalla sede pilota in cui ha versato tutto il suo sudore. Si deve trasformare in un manager. Non è da tutti, si sa, e si vede in moltissimi format che, già nel breve termine, non hanno saputo svilupparsi alla stregua del sogno dell’imprenditore.
- La struttura interna, sia per lo sviluppo del brand, che per quello dei franchisee. Ho già avuto modo di trattare l’argomento dei diversi target dei franchising, parlando di franchisee e di cliente finale. Ma come si deve comportare il franchisor se vuole fare bene nei confronti degli uni e degli altri?
Franchisor: da imprenditore a manager
Hai un format che funziona, lo sviluppi da anni, ci metti anima, passione e tutto l’impegno che hai. Crei una macchina perfetta, almeno ai tuoi occhi, e te lo dimostrano anche i numeri. Inoltre, chi frequenta la tua attività ti dice che di posti come il tuo dovrebbero essercene altri. Magari – dico magari – qualcuno ti consiglia il film di McDonald’s, che ti dà lo spunto per dire: perché no? E allora si accende la lampadina e pensi allo sviluppo, cominci a informarti dal commercialista, leggi articoli, magari ti imbatti in una società di consulenza. Improvvisamente, il mal di pancia che avevi e ti portava a pensare che meritavi di più, si scioglie: aprire in franchising, avere altri punti vendita come il mio! Bellissimo, chi non sogna di diventare sempre più grande, conosciuto, noto e… diffuso?
Torniamo però con i piedi per terra. Cominciamo dal tuo commercialista: se non è un esperto di franchising, lascia perdere.
Il franchising non è pane per tutti e il rischio di fare errori è elevatissimo.
Non entro qui nel merito, ma è così. Chiedi quindi al tuo commercialista se ha mai gestito strutture in rete e com’è andata, fatti dare degli esempi e se non ce ne sono, affidati a qualcuno che ne abbia.
Ammettiamo anche che il commercialista sia bravo o che tu abbia trovato una persona giusta. Ora? La prima sfida che ho visto, è con te. Ti sei rimboccato le maniche nella tua attività e se ti vuoi espandere devi prima lavorare su di te. Non sarai più operativo, se apri in franchising, o almeno non come lo intendevi fino a prima di decidere di aprire. Diventerai un manager. Gestirai un team, lo sviluppo del brand, gli affiliati e, all’inizio, forse, anche le selezioni e i controlli. Attenzione! Diventare un leader che sappia fare il proprio lavoro non è da tutti. Formati da subito, studia, frequenta dei corsi che ti possano aiutare. Ci sarà un grande cambiamento nella tua vita, specie se le cose andranno bene. Cominciare da subito è fondamentale.
Vedo, ahimè, poco lavoro di questo tipo alla base dei lanci dei franchising e lo ritengo importantissimo. Nel tempo, per quanto tu sia affezionato al primo negozio/punto vendita che hai aperto, capirai che non puoi gestire il franchising stando anche a capo di quella sede.
Struttura di un franchising: come si fa?
Un franchising è fatto di tanto lavoro, stress, sviluppo. Ho visto pochi articoli che affrontano il tema della struttura di un franchising e dei suoi costi, come se bastasse mettere un annuncio di ricerca affiliati e le cose potessero andare per conto loro. Non è così.
Il franchisor deve sapere da subito che gli serviranno persone e che si dovrà creare uno staff.
All’inizio sarà ovviamente piccolo, ma un altro tema da affrontare sono le prospettive di crescita: più si cresce più si avrà bisogno di personale e di collaborazioni per gestire tutto al meglio.
Franchising: gli obiettivi
Che obiettivi ti sei dato? Che obiettivi vuoi raggiungere con la tua rete nel breve, medio e lungo periodo? Ovviamente, se rispetto a quanto detto sopra ti sarai circondati dei giusti professionisti, avrai un commercialista o un consulente che ti faranno un ottimo business plan, in cui vedrai anche i costi del personale. Ahimè quando si parla di franchising online, pochi parlano di costi del personale per aprire. Ho trovato un articolo di Mirco Comparini che tratta l’argomento mostrando delle tabelle per il piano economico di un franchising e devo dire che è la cosa, in questo momento, più utile.
Non entro nel dettaglio del piano economico o di sfere che non mi competono, ma se penso al reparto marketing di un franchising ho due convinzioni, maturate in questi anni di lavoro:
- Delegare tutto all’esterno è un male
- Il reparto marketing ci deve essere dall’inizio
Sì, certo, il personale costa e non è semplice, sono d’accordo, ma si può partire con una struttura ibrida, per poi arrivare a regime e si può farlo senza problemi. Pensarci da subito è fondamentale. Lo è non solo perché i network hanno bisogno di piani strategici e di analisi dei processi di acquisto. No, in realtà lo è molto di più perché fin da subito c’è un tipo di comunicazione che è fondamentale in rete: la comunicazione o marketing interni. Una delle più grandi responsabilità di chi fa marketing per i franchising è infatti saper gestire al meglio la rete che si andrà a costruire, con servizi, proposte, supporto.
Dal canto mio dico sempre che i franchising, lato marketing, sono delle piccole agenzie di comunicazione per i loro affiliati. E così dovrebbe essere. Esternalizzare tutta questa parte senza riferimenti interni è rischiosissimo. All’inizio, quindi, formati, comprendi, cerca di avere tutte le informazioni che ti servono.
Marketing per franchising, cosa dovremmo fare
Il reparto marketing o il consulente (che, come detto prima ha il ruolo di guidare il manager nella costruzione del reparto) devono saper fare tante cose, in primis analisi. Specie nelle prime fasi di avvio, va studiato bene come leggere i dati, come tradurli in azioni, come costruire e confermare il processo di acquisto da cui derivano le attività che faremo sui diversi canali che sceglieremo. In seguito, va compreso come gestire la lettura dei risultati che queste azioni ci portano.
Il reparto marketing di un network non ha solo questo ruolo. Deve costruire strategie di comunicazione che si rivolgano all’interno, agli affiliati, alla gestione della loro comunicazione e del loro benessere nel brand.
L’obiettivo di ogni franchisor dovrebbe essere la felicità dei propri franchisee, il loro benessere e il loro successo.
Certo, ciò presuppone che sappia selezionare gli affiliati giusti. Non è da tutti. Forse è la cosa più difficile, effettivamente, e non è questo il luogo per approfondire questo aspetto.
Affiliati, cosa si aspettano?
Un affiliato di un franchising rischia di sedersi sugli allori e pensare di essere passato da una forma di lavoro dipendente a un’altra (o lo fa almeno fino a che non incontra per la prima volta il commercialista :P). L’affiliato è parte integrante del franchising e diviene uno “di famiglia”. Quali servizi dunque si aspetta? Oltre a quanto detto in termini di risorse umane, il franchisee si potrebbe aspettare altro e ci sono davvero tante possibilità che una struttura in rete può offrire e costituire. Vediamone alcune:
- Gruppi di acquisto. L’unione fa la forza e, inoltre, fa il prezzo giusto. Se il franchising viene visto come una squadra, quella squadra può avere dei vantaggi nel comprare attrezzature e forniture che siano utili al suo miglioramento, anche economico. Ho intercettato franchising che hanno lavorato bene su questo, non solo fermandosi agli arredi e al materiale, ma andando a toccare anche – per esempio – le bollette della luce. Un franchising con cui ho collaborato ha lavorato tanto per l’abbattimento della tassa rifiuti, o per la gestione di corsi obbligatori come quello sulla sicurezza.
- Formazione. Dalla formazione alla vendita, alla gestione, il franchisee dovrebbe diventare l’imprenditore dei nostri sogni, quello che ci siamo immaginati a portare avanti il nostro marchio. Come possiamo pretendere di ottenere un risultato simile se non lo formiamo?
- Affitto/Location. Il franchisor può prodigarsi anche in questo, o offrire un giusto servizio, avendo il coraggio di scartare luoghi che non vanno bene ma anche di dare gli strumenti per trattare un contratto di affitto della sede locale.
- Benefit. Ce ne sono tanti che si potrebbero ottenere e, ammesso che si desideri che l’affiliato rimanga con noi il più a lungo possibile, offrirgli strumenti per il benessere di oggi, ma anche quello di domani, è la chiave. Mi viene in mente, per esempio, fare informazione sulla gestione del personale, sugli obiettivi, ma anche – semplicemente – trovare una forma di previdenza integrativa che funzioni.
Condividere, fare squadra, ottenere gli obiettivi prefissati. Nel mondo del franchising è fonte di stimolo e di miglioramento, se si tratta nella giusta maniera. Come fare? Io parto dalla mission e dalla vision, ma soprattutto dai valori. Mi capita talvolta di chiedere ai clienti come sognano che sia il network di qui a 5 o 10 anni. Chiedo che lo facciano con dovizia di particolari e li spingo a valorizzare e visualizzare ogni aspetto del loro business. Non è facile, ma mette in moto consapevolezze fondamentali per decidere come muoversi, quali servizi offrire e, quindi, come poter comunicare.