Più che Carpisa, un franchising che avrebbe voluto mettersi in gioco, questo articolo potrebbe intitolarsi: la dignità del lavoro e lo stage all’ufficio marketing di Carpisa. E tutti vi aspetterete che, data l’indignazione generale sul tema, io mi accodi al ben-pensare generale.
Questo articolo, da questo punto di vista, deluderà.
Mi sono decisa a parlare di Carpisa e del suo concorso tanto discusso solo perchè è per me uno spunto per parlare di strategie di marketing per franchising che, in questo caso, a dirla tutta, strizza l’occhio non solo ai network.
Non voglio mettermi a discutere sulla strategia di Carpisa, sui suoi fatturati, sull’espansione di un marchio che in pochi anni ha raggiunto i 600 punti vendita e conquistato il mondo con le sue borse. Se sono arrivati fino a qui, è palese che qualcosa di buono e strategico lo abbiano fatto.
Aprire un franchising non è facile, pensare di svilupparlo ancora meno, far in modo che i negozi traggano profitto e si distinguano nei luoghi in cui vengono aperti, non è scontato.
Quello che mi preme analizzare rispetto a Carpisa è la mancata occasione di raccontare e raccontarsi.
In questi ultimi tempi, anche se c’è un po’ di confusione in merito, è – di fatto, per usare termini “markettari” – la mancata occasione di fare “storytelling” e “storydoing”. Cercherò dunque di fare da subito ordine, spiegando il mio punto di vista sul progetto, con una nota finale: questi soldi avrebbero potuto investirli meglio o altrove?
Beh, dall’analisi di Carpisa qualche strategia strutturale poteva venir fuori, prima di un concorso, apparentemente, abbozzato. E, così dall’esterno, pare che Carpisa abbia optato per la tanto agognata visibilità senza tener conto di un’analisi sociologica iniziale che avrebbe potuto creare una vera opportunità per il marchio (sia chiaro, non penso minimamente che dopo questo fail avranno gravi ripercussioni, semplicemente che avrebbero potuto sfruttare alla grande un’opportunità, segnando in qualche modo “una storia”).
Vediamo dunque quali sono gli aspetti che ho analizzato e andremo ad analizzare.
- L’idea. Un concorso che sia qualcosa di diverso. Dagli hackaton a Carpisa, qualcosa di innovativo c’è, per fortuna, e si può fare.
- Storydoing. La possibilità di un brand di raccontarsi dall’interno, senza favolette. Se puoi farlo, ci puoi costruire dell’ottimo storytelling funzionale ad attirare franchisee e clienti.
- Il lavoro, e la dignità. Perché poteva essere una possibilità invece di apparire come puro sfruttamento.
- Le idee si pagano. Quanto? Come? Possibili sviluppi.
- I concorsi, nel piano di marketing. Utili? Inutili? Ma quanto costano?
- La gestione di un concorso per un franchising e il ruolo dei franchisee
- L’analisi, prima di tutto. Come si può sfruttare la rete per capire pro e contro di un progetto di comunicazione. Anche a costo zero.
- Lanciarsi nel vuoto, senza paracadute. Perché se sviluppi il tuo brand, prima ancora di un concorso, si potrebbe pensare a investire altrove. Tra brand reputation e community management, specie in caso di crisi (reale o presunta).
- Il concorso perfetto. Ecco cosa avrebbe potuto fare Carpisa, aumentando l’investimento ma, potenzialmente, incrementando visibilità e credibilità aziendale.
- Purché se ne parli. Ha stancato, anche se talvolta funziona.
1. L’idea. Un concorso che sia qualcosa di diverso. Dagli hackaton a Carpisa, qualcosa di innovativo c’è, per fortuna, e si può fare.
Concorsi, concorsi, concorsi, e poi gare. Che senso hanno per un brand? Spesso, senza una giusta strategia, hanno senso solo per far perdere tanto denaro. Ho visto, negli anni in agenzia, avviare concorsi senza un piano strategico. Promozione, raccolta dati, estrazione. Stop. Come finalizzare poi tutta quella mole di dati?
Le agenzie che creavano i concorsi, anche quando sono stata in azienda, non mi hanno quasi mai fornito una visione così a lungo termine: tutto si fermava alla consegna del premio.
Veniamo ai concorsi di idee, a quelli che sono concorsi per il coinvolgimento di persone, attivamente, in un progetto. Non stupiamoci se esistono, perché ci sono dalla notte dei tempi. Anzi, se non erro – non sono un’esperta e lascio spesso a società più preparate la gestione di questa cosa burocraticamente molto complessa – esistono proprio dei concorsi in cui portare un’idea, qualcosa di creativo, non comporta tutto l’iter tradizionale con versamenti di fideiussioni e coinvolgimenti di notai. Semplicemente, le persone, presentano un pezzo musicale, un testo scritto, un ballo, un dipinto, una foto e, per aver messo in campo la loro opera intellettuale ricevono un compenso.
Il caso di Carpisa, apparentemente, sembra questo.
È il caso anche di molti di quelli che stanno diventando sempre più di moda, oggi: gli hakathon e i concorsi di idee. Si tratta di weekend, per lo più, in cui gruppi di persone passano molte ore (anche due o tre giorni) insieme per sviluppare un’idea o un progetto per un brand. Chi vince, prende un premio, alle volte in denaro, altre in altri generi di benefit. Esistono anche per ricevere denaro per propri progetti: li sviluppi sempre nel weekend e poi lo sponsor di turno o la società che ha deciso di investire in questa iniziativa, ti dà un supporto per queste cose.
Personalmente, ho partecipato a una call for ideas lo scorso aprile, a Verona, per un noto brand assicurativo. Il gruppo vincitore ha ricevuto un premio di 5.000 euro, se non ricordo male (non era il mio, ahimè, anche se ce la siamo cavata benone dopo quasi 48 ore senza dormire). Non vedo grandi differenze in quanto proposto da Carpisa, se non con le dovute critiche sulle modalità di approccio e di sviluppo che vedremo andando avanti.
Di fatto, non ci vedo nulla di male se un brand decide di coinvolgere dei giovani in un progetto e poi lo paga:
succede anche all’università o in altri contesti e in America avviene da sempre… che poi qualcuno in Italia ne approfitti è un altro paio di maniche… non parliamo del lavoro di alcuni ricercatori che esce a nome del professore di turno, vero?
Di certo, invece del solito concorso in cui si vince un viaggio – apprezzatissimo, per carità – qui si è provato a fare sviluppo. Un’azienda che si mette in gioco, che apre le porte, che si fa conoscere anche per la parte lavorativa.
Cosa mancava rispetto agli hakathon americani? Ho chiesto un parere a chi lavora con progetti simili, focalizzati sui giovani, da “qualche” anno.
“Trovo interessante e di valore l’idea di Carpisa, se fossi un giovane in target vorrei assolutamente cogliere quest’ opportunità”, dice Sara che oggi segue molti giovani in cerca di opportunità professionale che desiderano lavorare allo sviluppo continuo della propria impiegabilità. “Se fossi un giovane interessato al concorso, son certa ce ne siano molti, però mi potrebbero essere utili alcune ulteriori informazioni e specifiche che non risultano immediatamente chiare.
Mi sarebbe utile ad esempio conoscere quali saranno gli indicatori precisi sui quali si basa la valutazione del progetto: cosa si intende esattamente per qualità? Conoscere gli indicatori mi aiuterebbe infatti a tarare al meglio il mio lavoro e a confidare in un processo “scientifico” di valutazione che penserei quindi non solo come frutto di “mera” discrezionalità, benché assolutamente lecita. A meno che il criterio sia proprio quello di stupire e rischiare senza precisi indicatori di risultato, ma anche in questo caso mi piacerebbe che ci fosse una chiara dichiarazione di intenti.
Oggi, inoltre, ai giovani in cerca di opportunità professionali viene sempre più richiesto di identificare in sé e nella propria esperienza quelle caratteristiche e competenze distintive che possono fare la differenza per essere “il candidato giusto” per quella specifica posizione e anche in questo caso, se fossi un potenziale candidato, mi sarebbe utile qualche specifica in più sulle capabilities e le caratteristiche richieste per la posizione offerta. Insomma, vorrei giocarmi al meglio l’opportunità su tutti i fronti e non lasciar nulla al caso nella mia proposta di valore.
Troppo spesso raccolgo dai giovani che incontro e che seguo la percezione di un mercato del lavoro che sfrutta, prendendo le tue energie e anche le tue idee senza restituirti nulla ma soprattutto senza poi coinvolgerti in un percorso di crescita e di sviluppo reale.
Molte volte è così che purtroppo vengono lette da parte loro le iniziative di open innovation, call4Ideas etc quando, anche con le migliori intenzioni da parte di aziende serie e solide come in questo caso,
si tralascia di essere più trasparenti e chiari possibili nelle richieste e nell’offerta di opportunità, rischiando il boomerang di una leva di reputation che, specie quando si parla con i giovani, può tornare indietro tanto velocemente.
Ma in tutto questo… nulla impedisce ai giovani interessati e che magari stanno leggendo queste mie riflessioni di mostrare intraprendenza, proattività e reale motivazione per chiamare, scrivere a Carpisa per reperire tutte quelle informazioni che potrebbero farvi essere IL CANDIDATO!”
Una bella idea, dunque, con un alto potenziale, sviluppata male.
2. Storydoing. La possibilità di un brand di raccontarsi dall’interno, senza favolette. Se puoi farlo, ci puoi costruire dell’ottimo storytelling funzionale ad attirare franchisee e clienti
Si parla di franchising, di aziende, e di potenziale. Si parla, negli ultimi tempi, anche di storydoing.
Attenzione! Storytelling e Storydoing sono cose ben diverse.
Ho cercato di capirlo da una delle esperte italiane della materia, che presenterà l’argomento al prossimo festival della Comunicazione di Camogli, questo weekend, Annalisa Galardi. Cerco di esprimere al meglio quello che, tradotto in parole semplici, è un argomento molto complesso, in realtà, specie nel suo sviluppo operativo, etico, consapevole. Qui si cambiano veramente le aziende, dal basso, dall’interno.
In pratica, storytelling è il racconto di un’impresa, una favola. Può essere vera, ispirata al vero, inventata. Si possono raccontare valori, pensieri, storie di antenati o di attività presenti. Non è detto che siano vere. Certo, se un’azienda lo fa bene devono essere almeno coerenti, perché se narro all’esterno che tutto va bene e che l’azienda è la migliore del mondo ma all’interno ci sono casse integrazioni e situazioni di disagio, beh, anche se provo a nasconderle, prima o poi… con notevole ricaduta di immagine.
Lo storydoing invece è il fare, l’operare fin dall’interno per creare una storia. Olivetti, in sostanza, faceva storydoing. Lo storytelling ne è un suo strumento, in sostanza. Diciamo che, per farla semplice – e non me ne voglia la dott.ssa Galardi –
potremo dire che lo Storytelling è un film, lo storydoing è un documentario, se vivono separatamente. Se li facciamo coesistere, come lei fa con i suoi clienti, lo storytelling diventa il regista giusto per raccontare in maniera efficace la storia (vera).
Cosa c’entrano Storytelling e Storydoing con un franchising come Carpisa che lancia un concorso per l’assunzione di uno stagista? Dal mio punto di vista inserire una persona in azienda può essere un’ottima occasione per fare queste attività e dimostrare – a onor del vero – che quello che si scrive dell’azienda che sta dietro a questo marcio (staff giovane, ambiente dinamico, ecc.) è vero. Con notevoli ricadute positive sul brand.
Ho chiesto ad Annalisa di darmi il suo punto di vista sull’iniziativa. Cosa avrebbe potuto fare Carpisa per dare valore a questo progetto, per davvero, come opportunità? Ci sono dinamiche che un franchising potrebbe trarre dallo storydoing, e come, secondo te, si riversare su franchisee e clientela?
“Come compare scritto nel sito di Carpisa, l’azienda si vuole presentare come “Un gruppo in cui tutti sono attori e sentono partecipi di una storia vincente”.
Le storydoing companies sono proprio le aziende vincenti, che “fanno la storia” e generano appartenenza nei clienti e, nel caso di franchising, nei franchisee.
Quindi il tema centrale è come si costruisce l’appartenenza, la fiducia in un brand di cui possa voler essere ambassador. Metterei in evidenza almeno due caratteristiche: autenticità e rilevanza.
C’è un grande bisogno di autenticità e verità, tanto che il “basta che se ne parli” non regge più.
Ed essere autentici e veri è faticoso perché ci richiede uno sforzo costante, oltre il racconto, oltre a quello che è scritto sul sito e che ho formato i venditori perché sappiano esporlo in modo efficace. Per questo lo storydoing è un approccio strategico che inizia a monte rispetto a quando solitamente si attiva un’agenzia di comunicazione per il lancio di un prodotto o di un’iniziativa. La coerenza tra quello che diciamo e quello che facciamo è proprio la chiave per la costruzione di un commitment profondo, che ci tiene legati non solo per convenienza. In un flusso che parte dall’interno dell’organizzazione per portarsi fuori, guadagnando forza e credibilità.
La rilevanza riguarda invece la capacità di leggere gli interlocutori e il contesto in cui si opera. Solo se la mia storia incontra la storia dei miei “pubblici” e li aiuta a far evolvere la propria narrazione, le persone a cui mi rivolgo saranno le prime a sostenermi. In un’epoca in cui la sensibilità per nuove modalità consumo si è fatta strada, un brand come Patagonia – ad esempio – ha potuto lanciare la una campagna pubblicitaria si invitano le persone a comprare una nuova giacca solo se ne hanno davvero bisogno. Chi si avvicina a quel brand, compra un prodotto e la sua storia e ne acquista forza per la propria storia personale.
Insomma,
un franchising potrebbe trarre spunto da queste riflessioni per costruire un solido legame con i franchisee e, attraverso di loro, coi propri clienti rafforzando la consapevolezza della propria core story,
invitandoli a tradurla in azioni capaci di darle forza e in un racconto caldo e coinvolgente. Non dovrebbe, poi, mai mancare un’attenta lettura del contesto e degli interlocutori per costruire narrazioni che possano far crescere sia la storia del brand sia quella di chi lo sostiene. A partire dalle proprie persone.”
Un’altra opportunità persa, insomma. Peccato.
3. Il lavoro, e la dignità. Perché poteva essere una possibilità invece di apparire come puro sfruttamento.
Lavoro, opportunità. Ne parliamo ogni giorno ma, per un giovane, continuano lo stesso a brulicare gli annunci in cui si richiedono tot anni di esperienza oppure le esperienze che ti mettono a dura prova con salari ridicoli, se non, addirittura, in stage non pagati.
Il lavoro va pagato. In Italia abbiamo questo strano principio del risparmio su quello che fanno… gli altri.
I giovani, d’altro canto, l’ho visto nella collaborazione con Progetto di Vita, realtà veronese che si occupa della creazione di percorsi di sviluppo per studenti, laureati e lavoratori tra i 18 e i 35 anni, sono ormai disillusi da un ambiente che non premia più nessuno, da uno sfruttamento diffuso, dalla difficoltà di crearsi delle prospettive.
Oggi come oggi, inserire giovani in azienda non sempre viene vista come un’opportunità, ma come un risparmio rispetto all’inserimento di figure senior, con notevole impoverimento, spesso, dei contenuti dell’azienda.
Laddove c’è equilibrio si crea spesso una magia.
Non è facile, però, costruirsi le opportunità giuste e l’università non ci prepara affatto alla costruzione di un personal branding e di un network che sia funzionale alla nostra carriera. C’è chi si fa da sé, chi invece va all’estero.
E chi rimane e ha ottime qualità ma non le sa spendere sul mercato? Potrebbe trarre beneficio da un concorso come questo? Io penso di sì.
Penso però, anche, che un mese di stage sia una cosa ridicola. Come si fa a sviluppare un progetto in un mese, cercando di imparare qualcosa? L’errore più grande, in questo senso, specie perché il bando era per giovani tra i 20 e i 30 anni (velatamente una ricerca di un apprendista?!?) è quello di dare un tempo così ristretto al vincitore. 500 euro al mese, con vitto e alloggio (anche per il weekend) per 6 mesi. Come l’avrebbe vista il mondo del lavoro, là fuori? Magari abbassando l’età: 20-25 anni… 20-27… Quanto pagano certi stage, facendoti fare solo fotocopie? Manca però un tassello, lo ha evidenziato Sara, sopra: cosa imparerò durante lo stage? Di fatto, di un mese o di 6, lo stage dovrebbe essere, cito L’Accademia della Crusca, “un periodo di formazione o perfezionamento professionale trascorso presso un’università o un’azienda, in particolare per acquisire la preparazione professionale necessaria a svolgere un’attività”. Formazione. Perfezionamento. Preparazione. Come me li dai? Ripeto, che sia un mese o un anno, devono essere chiari gli obiettivi. Senza, potrei pensare anche di fare fotocopie. Per altro, nota a margine, nessuno cita nel regolamento che verrà dato seguito al progetto proposto, durante questo fatidico stage…
Ho chiesto, in questo caso, ad Emiliano Galati, segretario regionale Felsa Cisl (Federazione lavoratori somministrati autonomi atipici), che si occupa del monitoraggio, tutela e informazione di tutti i lavori di domani, dal lavoro somministrato alla Partita IVA. Cosa pensi di questo bando e lo vedresti un modo diverso di fare una selezione in azienda, se avesse le carte in regola?
Penso che lo stage sia per definizione un periodo di formazione sul campo che deve però essere ben distinto dall’attività lavorativa vera e propria.
4. Le idee si pagano. Quanto? Come?
Di questo argomento si è sempre discusso moltissimo. Portami un’idea poi vedo se mi va bene, te la approvo e te la pago, semmai. Quanti potenziali clienti fanno così?
L’idea in realtà è qualcosa di preziosissimo e spesso inquantificabile.
Nella vita continuano a venirci idee, spesso buone, altre volte meno. Se qualcuno ci presenta un’idea di comunicazione e marketing, che abbia un senso rispetto a un brief iniziale, il suo lavoro va retribuito. Questa persona avrà investito tempo, alle volte anche denaro, nella realizzazione dell’idea. Quanto la valuto? Non di certo uno stage a 500 euro.
A mio modesto avviso qui andava pagata l’idea. Poi lo stage, ma intanto il vincitore doveva ricevere il premio per la miglior idea. A meno che, visto quanto dicevo prima, l’azienda non creda che usciranno idee interessanti – e a pensar male, spesso… – ovvero che i giovani in questione non saranno in grado di formulare qualcosa di utile. In effetti, non dice che l’idea sarà sviluppata nel fatidico mese, non si propone di dargli un seguito. Io me li vedo i direttori marketing che pensano che usciranno delle cavolate… invece spero saranno sorpresi, me lo auguro tanto.
5. I concorsi, nel piano di marketing. Utili? Inutili? Ma quanto costano?
I concorsi hanno senso nel piano marketing e i concorsi per franchisee, di cui parleremo nella seconda parte di questo articolo, come vanno trattai?
I concorsi sono strumenti di scoperta importanti e interessanti. Ma sono davvero utili e, soprattutto, al di là di quelli di cui abbiamo parlato in precedenza, quanto costano? I concorsi costano tanto. Innanzitutto costano perché la legge italiana è complessa ed è un attimo sbagliare e trovarsi sanzioni elevatissime.
Quindi, per fare bene un concorso c’è da affidarsi a un esperto, o a un’agenzia che fa solo quello.
Anche un avvocato può essere utile, da coinvolgere. Poi ci sarà da interpellare il notaio, da investire tempo nella creazione dei contenuti, da mettere risorse nella ricerca del premio o dei premi. Tanti soldi, insomma, dall’inizio, più le risorse interne. Da ultimo, ma non per importanza, la promozione. Per far vivere un concorso e ottenere i risultati sperati, va promosso. E per promozione non intendo solo le ads di Facebook o la campagna in TV o sulla carta stampata. Per promozione intendo far conoscere in ogni dove del concorso, a qualsiasi persona, anche rivisitando i pack di un prodotto, se necessario, per inserire il concorso (e in un franchising questa operazione deve coinvolgere anche i franchisee e prepararli attentamente). Consulenza, premi, promozione,… anche se costa meno la parte iniziale, funzionano ovunque, hanno un costo comunque.
Quanto sarà? Un concorso ben fatto può costare sui 3000 euro, a mio avviso, di sola consulenza (sto andando a memoria di certe operazioni seguite, non me ne vogliano gli esperti del settore).
La promozione va calibrata in base al tempo, compresi i costi vivi di click e ads.
Se hai un franchising, poi, questo costo come lo gestisci? Si spalma nel piano annuale di marketing degli affiliati, che è già esiguo, in genere? Faccio fatica a vederla come una mossa strategica…
I punti che ho sviluppato sono molti più di questi ma per leggibilità uscirà nei prossimi giorni il secondo articolo per approfondirli… sei curioso? Iscriviti alla mia newsletter o seguimi su Facebook e LinkedIn. A presto!
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